Inediti On line
 
 Daniela Manzini Kuschnig

presenta la sua opera inedita

Farfalle
(romanzo)

INDICE

PARTE I (Ombra)

PARTE II (Mara)

PARTE III (Giada)


Parte I
Hostaria
 
Erano in tre i vecchi che, seduti al tavolino dell'Hostaria da Campi, nel cuore della valle dell'Idice, bevevano un bicchiere come erano abituati a fare ogni giorno dopo l'una, e scambiavano due parole, poiché si conoscevano da una vita, erano stati bambini insieme, avevano combattuto la guerra alla loro maniera, dalla stessa parte e condividevano gli stessi ricordi, montagne e alberi e fame e miseria e poi lavorar la terra fino a spezzarsi la schiena per mettere in tavola di che sfamare i figli. Adesso erano arrivati al porto delle nebbie, dove i colori si sfumano e non importa più tanto quanto é accaduto ieri, ma quello che é accaduto vent'anni prima, la memoria dei vecchi fa di questi scherzi, si sa.
Uno aveva perso una gamba nella trebbiatrice e beveva più di quanto avrebbe dovuto, parlava molto, a voce alta che sempre più alta si faceva più beveva, e il viso tondo si arrossava e bastava un niente per farlo irritare. Gli altri due lo sapevano quanto poco ci volesse perché li mandasse, loro o chiunque altro, al diavolo, ma all'una del giorno seguente sarebbe stato lì, di nuovo. Un altro era alto, secco e parlava poco, ma ascoltava molto, beveva il suo bicchiere con calma, come per farlo durare a lungo, ché tanto un altro non se lo poteva permettere, l'ultimo infine era un ometto basso, ingobbito, con occhiali dalla montatura di metallo, gli occhi azzurri chiari e luminosi trasparivano dalle lenti spesse, dicevano che s'era rovinato la vista per via di un colpo in testa, preso quando era giovane, tanto forte da ammazzarlo.
Bevevano all'aperto quel giorno che era ormai primavera e la collina alle loro spalle ansimava per la voglia che aveva di lasciar esplodere i colori delle gemme pulsanti di vita e diventar verde d'erba nuova e bianca dei fiori di mandorlo e rosa dei fiori di pesco.
I tre vecchi tacevano e ascoltavano tranquilli tutto quel trambusto e bevevano, un po'assonnati, un po'tristi, i rimpianti son duri a morire, e loro di rimpianti ne avevano messi insieme un bel po', e adesso eccoci qui a crepare lenti lenti, era la solita storia.
Un cane passò davanti al cancelletto che segnava l'ingresso al cortile dell'osteria, quello con gli occhiali lo guardò, scosse il capo e poi distolse gli occhi, puntandoli verso un punto imprecisato, forse il ramo alto del pioppo, chissà.
" Avevo un cane, da ragazzo, - disse e si capiva che parlava a se stesso, alla sua memoria d'uomo, come se non gli importasse d'essere ascoltato -
"Avevo un cane e si chiamava Max, era un pastore tedesco, un gran bel cane davvero, é stato il cane della mia giovinezza, é morto che avevo diciassette anni ed ero un uomo, ci penso ancora a quel mio cane e a come gli volevo bene, c'é stato un momento che ho creduto che non avrei potuto volere a un cristiano il bene che avevo voluto a lui, poi ne sono capitate tante che..., ma adesso so che era vero o quasi...Comunque non ho amato nessuno alla stessa maniera in cui ho amato Max. O la giovinezza.
Voglio berci su: a Max. E così sia. "
Una coppietta giovane giovane uscì dal bar, tenevano due coni di gelato in mano: jeans e giubbotti e scarpe da ginnastica. Udirono il brindisi e si soffermarono, educatamente in disparte, ma attenti, spalla a spalla, si vedeva che erano innamorati. Il vecchio si tolse gli occhiali, trasse un fazzoletto dalla tasca della giacchetta grigia e pulì le lenti, con cura. Continuò:
" Mi vien in mente Giada di quest'ultimi tempi, spesso, la sogno quasi tutte le notti, é con Max e stanno bene insieme: lei é sempre bella.
Lo so, faceva la puttana quando l'ho incontrata e m'hanno riso dietro tutti quando l'ho sposata, ma é stata una brava moglie. Lo faceva per necessità, non per vizio e io lo sapevo. Che nome, Giada, dicevano che era proprio un nome da puttana. Sono stato felice con lei, tanto da farci dei figli.
A Giada. E così sia." Alzò il bicchiere e lo vuotò.
Uscirono dall'osteria due uomini, erano vestiti da operai e lavoravano al cantiere nuovo, quello delle villette a schiera che stavano costruendo dall'altra parte della strada, appena un passo prima del paese vero e proprio. Andavano di moda le villette a schiera, adesso che il traffico e il cemento strangolavano la città: pareva che la gente volesse cercare di ricreare il rapporto perduto con lo spazio, il verde, la natura ed allora, ecco che anche un fazzoletto di terra poteva servire allo scopo. I muratori udirono il nome di donna e si fermarono, uno tirò fuori una sigaretta e l'accese, forse s'eran fatti l'idea che i vecchi discorressero dei loro amori di gioventù, e che cosa mai c'é di più buffo, intrigante, carino persino che sentire un vecchio parlare di donne?
" Come ieri. La incontrai per strada, e dove dovrebbe stare una puttana? Per strada, anche se a quel tempo c'erano ancora le case chiuse, ma lei era indipendente, già e senza difesa anche. Diceva che non ci aveva mai voluto stare nelle case.
Diceva un sacco di cretinate, ma era giovane.
Ero un bastardo anch'io in ultima analisi e sentivo le grida dei morti alzarsi la notte e urlarmi contro: io ero stato uno di quelli che l'aveva permesso. Ma fra le braccia di Giada le voci tacevano, così la sposai e venne la ricostruzione, gran parola, e noi ricostruimmo e lavorammo e facemmo i figli e avemmo miseria e raccolti scarsi e poi Giada morì e quando morì, quasi più nessuno si ricordava del mestiere che aveva fatto. I figli si dispersero come foglie d'autunno, uno qui, uno là, cercando la loro strada, come é giusto, la ragazza anche lei se n'é andata ormai fanno sei anni e ogni tanto mi arriva una cartolina da uno di loro: sembra che le cose vadano bene. Ho nostalgia dei figli. E di Mara, spero solo stia bene...
A Mara. E così sia."
Ma il brindisi non riuscì, il bicchiere era vuoto. Il vecchio lo fissò, scosse il capo con tristezza, come se qualchecosa di importante gli fosse stato negato. Posò il bicchiere sul piano del tavolo, chiuse gli occhi e continuò a parlare con voce quieta e sussurrante nel tepore della primavera incalzante, e le parole fluirono come vele aperte sul mare che lente s'avvicinano alla riva, dopo una mattina trascorsa a buttar reti nel profondo. E a far da ascoltatori c'erano anche i passeri che scorrazzavano su per i rami dei pioppi e becchettavano le briciole di pane cadute a terra dai panini dei due muratori.
 
I ricordi scorrono fuor dalla mente e si dispongono l'uno accanto all'altro, ricreano il passato d'emozione in emozione, di anno in anno, fili tracciati nell'aria che si è respirata tutta la vita, spiegano, a volte giustificano e consolano e si accartocciano dentro ripiegati su se stessi, oppure si dispiegano come fazzoletti stesi ad asciugar nel vento e così si ricorda...ci si ritrova nelle memorie lontane e vicine a percorrer le strade dell'esser stati così o così, buoni cattivi indifferenti partecipi egoisti sensibili, già, gran scherzo sono i ricordi che s'annidano nella mente, scivolano fuori chiamati da un niente, dall'ombra che vela di garza la luce del sole.
Gran scherzo, già. Proprio così.
 
 
 
Capitolo 1
Ombra
 
Le potevo vedere, nella luce del lampione che formava una chiazza di luce sul marciapiede di cemento proprio lì dove le due donne stavano in piedi, e le potevo sentire anche, nascosto dentro l'androne della vecchia casa che una volta doveva essere stata una casa signorile ed ora, divisa in appartamenti , sembrava divorata dalle locuste: vedevo e sentivo, senza esser visto, era una gran sensazione, quasi che in me scorresse un potere magico che mi faceva trasparente, invisibile eppur presente, ma chi ero io, d'altro canto? Nessuno, non ero niente e il niente che ero si rallegrava di questo nulla: bisogna esser qualcuno per esser consapevoli di non esser nessuno, infine.
Le vedevo quiete all'apparenza, ma in realtà agitate, lo capivo dai movimenti rapidi, dallo sbatter delle ciglia, dalle mani mai ferme.
Una era giovane giovane, l'altra più anziana, sopra i trenta e ne dimostrava di più. Mi incuriosiva quel loro star ferme nell'alone del lampione, come sanno far così bene le passeggiatrici, senza però far cenni invoglianti ai rari passanti, anzi allontanando secche quelli che tentavano d'abbordarle, attratti dalla giovane, disposti anche a pagare quella più vecchia, magari tutte e due in un colpo, che altro ci potevano fare due, a quell'ora, per strada, per quella strada poi, se non il mestiere più vecchio del mondo? Anche se non erano vestite o svestite come prostitute, anche se non si atteggiavano a prostitute?
Io sapevo, perché l'avevo visto, che sotto i cappotti lunghi da poco prezzo, portavano gonne con spacchi provocanti dai quali guizzavano calze nere fermate dall'ombra delle giarrettiere, e sapevo, perché l'avevo sentito, che stavano aspettando qualcuno.
Io, che da sempre aspettavo qualcuno o qualcosa, potevo stare nel mio angolo e aspettare con loro.
" Pensi che verrà?" chiese la giovane
L'altra annuì.
" Stasera?"
" Sì."
" Bene."
Quella più anziana si frugò nella tasca del cappotto, ne trasse un pacchetto di sigarette stazzonato, prese una sigaretta, l'accese con un fiammifero di legno, da cucina, in uno sfrigolio. Aspirò la prima boccata in profondità, lasciando vagare i pensieri fuori dalla tensione che li teneva stritolati, ed io ad uno ad uno li afferrai a mezz'aria, li decifrai e li ascoltai per riporli poi nel cerchio della mente.
 
Lanciò uno sguardo in tralice alla compagna, era per lei in ultima analisi che era lì, non certo per sé.
Per lei, perché per lei ne valeva ancora la pena, di lottare, di affrontare le ombre delle scelte fatte.
Sono così piene d'angoli bui, le scelte fatte, irrevocabili, sono una catena che ci si porta appresso per il tempo a venire, per sempre, condizionano, a volte strangolano e ci si adagia, sulle scelte fatte, é più comodo continuare che cercare una svolta, che poi i cambiamenti sono traumatici, lo sapeva, perlomeno lo aveva sempre pensato, ma lei era una rinunciataria, una della vecchia scuola, vecchia maniera, del tipo, non si può aver tutto dalla vita, accontentati: boia d'una miseria ladra. Si sentiva vecchia e stanca comunque, e le vecchie querce non vanno mai trapiantate, se no muoiono. Che poi di morire non gliene importava più di tanto...o di vivere.
Ma per Giada, così fresca e giovane, ne valeva la pena di provare a cambiare, di rischiare. Sapeva che aveva paura, una paura frenetica: si mordeva le labbra e gli occhi erano lucidi, le pupille dilatate, era terrorizzata, povera crista e ne aveva motivo.
Mosse i piedi, strusciandoli sull'asfalto, un freddo cane, anche. Gli inverni le parevano sempre più lunghi e insopportabili. Paura. Freddo. Il freddo della paura. Il gelo delle cose non fatte, lasciate a metà, abbandonate per la strada. Su per il corpo, dentro le ossa.
 
" Fa sempre più freddo, Mara." si lamentò Giada.
Mara annuì.
Giada, come si poteva dare un nome così ad una creatura, non lo sapevo. Una creatura si chiama Caterina, Emma, Lucia, Anna, ma che voglia d'esotismo dovevano avere i suoi per chiamarla Giada! O era il nome di battaglia? No, era il suo nome, lo sapevo.
Eppure era un bel nome: faceva pensare a una cosa preziosa, lontana e lucente, qualcosa di raro. Vedevo scorrere mari ed oceani sotto la luce diffusa a cono del lampione, vedevo onde frastagliate infrangersi schiumanti contro scogli di un paese lontano e odori, sentivo odori di spezie e di foglie di palma, anche se le foglie di palma non hanno odore, credo, ma io non sono nessuno e perciò posso dire quello che voglio, ché tanto non conta niente.
Arrivava un'auto, sportiva e costosa, del tutto fuori posto in quel luogo e con la miseria che c'era, poi! Sentivo che in un tempo del mio incerto ieri mi sarebbe piaciuto avere un'auto così, forse chissà, l'avevo avuta e poi l'avevo persa, si perdono tante cose lungo la strada, si sa. L'auto rallentò, all'altezza del lampione, poi accelerò e sparì in fondo alla strada.
Adesso Giada camminava in su e in giù, lo sguardo fisso a terra, come se il selciato fosse tutto il suo mondo. Mara aveva freddo, la vedevo stringersi nell'ampio cappotto senza forma e sentivo i suoi brividi: il gelo della notte e l'umido annidato nell'aria, le penetravano le ossa, aveva il viso bianco bianco e le occhiaie scure risaltavano sotto gli occhi che dovevano essere stati i due più begli occhi del mondo. E io di occhi me ne intendevo, non di donne, forse, ma di occhi, sì: c'é tutto un mondo negli occhi delle persone. Un mondo nascosto, un mondo che le palpebre velano frangiandolo dello scuro delle ciglia.
" Fermati" Mara disse rivolta all'altra. Giada si fermò.
" Sono stanca"
" E hai paura"
" Si vede tanto?" Mara annuì. Si avvicinò alla compagna. Stettero spalla a spalla, sfiorandosi appena.
Sentivo la sua paura: aveva un odore inconfondibile la paura, lo conoscevo bene, lo sapevo riconoscere.
E'un odore inconfondibile, sa di adrenalina, di cibo andato a male, di fallimento, di gabbia. Era il mio profumo ormai da tempo immemorabile. Aspettavo con loro, almeno non erano sole, anche se non lo sapevano.
Alla fine arrivò, alto, elegante, sui trenta, una sagoma scura delineata nel buio, fuori dall'alone della luce, l'ombra lunga distesa sul marciapiede: un vincente, di certo. Li chiamavano così un tempo, credo, quando ancora mi andava di sentirne parlare. Questo vincente si fermò e le due donne gli si rivolsero. Sentivo le voci.
" Bene, ragazze, che c'é di nuovo?"
" Dobbiamo parlarti"
" Tutte e due? "
" Ascolta, Raul..." Giada intervenne " Io ti devo parlare di...di una cosa importante"
" Allora parla e poi lavora"
" Ecco, é proprio questo..."
" No, non lo dire! Vuoi mollare! Me lo dovevo aspettare da una come te, dovevi farti monaca, ci sei dentro, io ti mantengo, tu mi devi molto, dovresti dirmi grazie"
" Per che cosa, dico per che cosa dovrebbe ringraziarti? Per che cosa dovrei ringraziarti io? - Mara parlava con voce piatta- Per avermi detto che ero bella, che mi amavi, per avermi messo sulla strada? "
" Dovresti ringraziarmi per continuare a tenerti sulla strada e a proteggere i tuoi interessi, conciata come sei. Ma ti guardi mai allo specchio? sei ridotta da schifo, ma io non ti mollo, no. "
" Sei buono, davvero, ti sono grata. Ma Giada vuole uscirne, lasciala andare."
" Tu vieni a dire a me quello che devo fare con una delle mie puttane! Tu! Fai pena. Dunque, piccola Giada, vuoi lasciare papà, perché mai?"
" Io..."
" No, aspetta, lasciami indovinare: sei innamorata, dico bene? e vuoi redimerti, dico bene? E divenire la brava mogliettina di un qualunque coglionazzo cornuto che un giorno saprà chi sei e ti odierà per il resto della vita. Ma lo sai quanti soldi puoi fare con me, lo sai quanti progetti ho per te, bella come sei e brava anche, mi dicono, tutti cercano Giada, oh, se é richiesta la mia piccola Giada!"
" Sono incinta, Raul."
" Ah, é questo? E allora? Ci pensa papà, come sempre."
" A farla abortire, vero"
" E che altro può fare? Certo: abortire. "
" No, lei no"
" Già, lo vedo proprio il bel futuro del figlio di questa puttana: nato senza padre o con troppi padri, in miseria, perché papà non da più quattrini a mammina, e come cazzo lo tira su un figlio, 'sta cretina che non é stata capace neanche di non farsi ingravidare, come la vacca che é, e poi il problema non si pone: tu abortisci e continui, chiaro? Ti é chiaro il concetto? Adesso basta, mi avete fatto perdere abbastanza tempo, tutte e due, con Raul non si lascia. Mai. Finché Raul non lo dice.
" Noi lasciamo, tutte e due. Che Raul lo dica o no. "
" Siete finite, allora tutte e due. Finite. Kaputt. E'come se non foste mai esistite, di voi non lascerò segno sulla strada, scomparirete e non sapete ancora quanto sarà spiacevole. Voglio essere buono: pensateci ancora un'ora, poi tornate da papà e sarà come se non fosse successo niente. Fate che fra un'ora papà vi veda. Altrimenti vi starò dietro e farete..."
Sentii lo schiocco della sberla sul viso di Mara, poi la sagoma scura l'afferrò per i capelli e le sbatté la testa contro il palo del fanale.
Non udii un gemito uscire dalle labbra della donna, e sì che doveva averle fatto male, il vincente. Adesso vagamente mi veniva in mente perché non ci avevo mai tenuto a essere un vincente, qualunque cosa la parola significhi, nel bene e nel male. Ci si può far male. E si fa male.
La piccola Giada piangeva piano piano a lacrime grosse, senza singhiozzi. Io potevo solo piangere con lei: non certo uscir fuori dal nido d'ombra che mi custodiva e difenderla con dita scarnite dal passato, con voce fievole come il pigolio d'un merlo appena nato.
Ci sarebbe voluto il rombo del tuono che fa tremare i vetri delle finestre, i fulmini ci sarebbero voluti, saette accecanti nel cielo scuro, gonfio di pioggia.
Ma guardavo e ascoltavo le lacrime di Giada: era pur qualchecosa, questo condividere del cuore, senza sussulti, senza furori, quieta, apatica presa di coscienza che ancora accadeva ciò che da sempre era accaduto, quello che é orrore nella tenebra.
" Non piangere, lo sai, bambolina, ti si gonfiano gli occhi, e ai clienti non piace. Senti facciamo così: vieni via con me, adesso, subito, ti devo dire dei progetti che ho per te, cose in grande, dai su , vieni! "
L'afferrò per un braccio e la tirò a sé, fuori dall'alone di luce, verso il buio da cui era spuntato.
" Mara, Mara!" gridò la piccola Giada, per aiuto forse, per disperazione, di sicuro.
" Lasciala perdere: una puttana ingrata si deve lasciar perdere e ringrazia che sono di buon umore e non la tocco...Ma tu, vecchia cretina, non farti vedere mai più sulla strada, non farti vedere mai più da me, non cercare Giada, mai più, hai capito?"
Le ombre lunghe dei due erano gà scomparse e Mara era sola, appoggiata al fanale, una gota in fiamme, gli occhi senza luce. Eravamo rimasti così da soli, lei ed io e il fluido che ci legava come un cordone ombelicale intorno al collo di un neonato.
Aspettavo che facesse qualcosa, che muovesse un passo, che scrollasse la testa: niente. Lo sapevo bene: l'inutilità dei gesti ti paralizza e ti schianta insieme in mille minuscoli frammenti di ossa e di sangue, lasciandoti svuotato, un attrezzo inutile sul bordo della via. Hai inciampato troppe volte, lo so, é capitato anche a me. Poi si mosse allontanandosi dal palo del fanale, si passò dolcemente una mano dietro la nuca, sotto la massa dei capelli castani, là dove Raul l'aveva mandata a sbattere, alzò gli occhi verso l'alto dove il vuoto si riempiva della vita delle nuvole dalle forme bizzarre e guizzanti, ma le stelle tacevano e non davano risposte quella notte, come a volte capita.
Si allontanò, prima a passi brevi e un poco incerti, poi più veloci e sicuri, tenendosi rasente ai muri degli edifici e alcuni attimi dopo, ecco, era sparita. Allora mi mossi, non so perché, mi venne da raccattare il mio fagotto, una specie di sacca con dentro le cose trovate, gli scarti inutili, i brandelli perduti e abbandonati delle vite altrui, e la seguii, mosso da una curiosità che era nuova in me, abbandonata con il fardello delle inutilità lasciate una vita prima o in un'altra vita: mi venne di andarle dietro e penso che non fosse altro che umano irriducibile senso di affinità.
La mia ombra si confuse con l'ombra della strada e solo un'ombra le fu dietro, lunga e silenziosa e ne seguì i passi, ne sentì il rumore sul selciato, infine la vide davanti a sé, la schiena rigida, i capelli ondeggianti intorno al volto, e allora rallentai e a distanza, piano piano, come si addice ad un'ombra, mi fusi all'ombra che la figura di lei si lasciava alle spalle e così confuso in lei, parte di lei, feci la sua stessa strada.
Fu un lungo cammino per le vie della periferia, fra case alte e sciupate, facciate scrostate, cancelli rugginosi, infissi screpolati, il tutto in un mare di sterpaglia, il marciapiede era finito da un pezzo e si era trasformato in lungo tratto di terra battuta che si snodava fra pozzanghere e buche verso la fine del mondo. Del mondo che gli altri conoscono. Ci fermammo davanti a una casa brutta e disperata, aprimmo un cancelletto e scendemmo quattro gradini fino a una porta verniciata di blu, una pervinca nel deserto, prendemmo la chiave dalla borsa e aprimmo la porta e lei entrò.
Io rimasi fuori, nel vento della notte e vidi accendersi una luce e vidi un finestrino raso terra illuminarsi e poiché ero curioso, mi chinai fino a toccare la terra umida con le ginocchia e guardai dentro una stanza che pareva nata da una cantina, e che era la casa dove lei viveva, dove teneva le sue cose, il suo passato, il suo oggi e forse, perché no? , il suo domani.
Mara era in piedi , si era tolta il cappotto, e rivelava l'abbigliamento adatto al suo lavoro, ma anche così nulla nell'aspetto aveva da spartire con le altre. Pensai, guarda che spreco di vita, guarda il volto dell'infelicità, dello scempio del tempo, dei tentativi annegati nel mare senza fondo senza pesci senza vita, eppure anche per lei un giorno lontano una conchiglia avva ripetuto il canto del mare e l'aveva incantata portandola lontano nel sogno di giorni felici. Rabbrividii e fu per quella parola che mi era sfrecciata nellla mente, quel felici che faceva suonare la campana a morto per quello che forse ero stato e non sarei stato mai più, é dolce fallire, é dolce lasciarsi inghiottire dal dolce fallire mentre la conchiglia si schiude, la perla riluce e tu senti la risacca all'orecchio cantare solo per te.
Da lontano mi giunse il pensiero che era ricordo, la felicità non é di questa terra. Poco ma sicuro. Io lo sapevo.
Eppure ERO STATO FELICE. Quando non ricordavo, dove, perchè non sapevo. Sentivo il frullo dell'esser stato felice agitarsi dentro di me come un uccello che vuol lasciare la gabbia per volare incontro al cielo e sbatte solo contro le sbarre sottili del mondo in cui vive.
La FELICITA'NON E'di questa terra.
A qual mondo appartiene? A quale stella o pianeta perso nell'immenso sudario che circonda l'esser umani? Perchè non dovrebbero le creature godere della felicità? Rabbrividire di gioia? Morire di smisurata, incontenibile, incontrollabile felicità? Quando proprio questo poteva essere l'obiettivo finale del vivere. Già. La felicità serpeggia da dentro, traspare dallo sguardo, si perde nelle membra, esce dalla bocca nel respiro, collega le ore al suono della campana che accompagna il feretro al camposanto, lenta lenta s'accoppia al tempo e intreccia ghirlande profumate da portare sul capo come corone.
Esser felici dentro, con l'anima spalancata ad accoglier il mondo. Già. Proprio così.
Guardai nella casa cantina: Mara si era seduta e si stringeva il capo fra le mani, piangeva, le spalle scosse da grandi dilaganti singhiozzi.
Le creature in trappola piangono lacrime di sale sotto la luna e solo attendono che la fine arrivi presto, prima di soffrire troppo. Ma chi può dire qual'é il limite della sofferenza? Quando si ha troppo sofferto? Quanto e per quanto tempo si deve espiare la colpa d'esser nati alla vita e d'aver cercato di viverla? Dove sta l'errore in questa macchina infernale?
Dove finisce la luce e incomincia la tenebra? Eppure ci sono milioni di persone che vivono tranquillamente la vita di agnelli destinati al macello e non pensano e credono solo che le cose vadano così perché così é stato e così sarà e perciò tutto va bene: é regolare. Sono i giusti. Sono i saggi. Sono l'essenza del mondo.
Li vedevo ogni giorno darsi da fare sotto il sole e sotto la pioggia, arrancare per le strade, sfiatarsi, spazzare, aprire e chiudere serrande, lanciare bombe, sparare con fucili e pistole, lanciarsi da aerei impazziti, cantare nel coro la domenica, vestire a lutto, ballare, sorridere, far l'amore, amare e distruggere l'amore, sfigurare i giorni e le notte chini su lavori che nobilitano e permettono di sopravvivere o di dare ricchezza e ancora ancora, flagellati dai venti cadere sulle pietre rialzarsi pesti e sanguinati: essi sono i forti, coloro che cadono e poi si rialzano, non hanno paura di cader ancora, sono abili e impararano presto a far lo sgambetto agli altri e a farli precipitare nell'abisso. La legge del sopravvivere, in pace e in guerra, la legge che regola e disintegra, le leggi che ci difendono e ci aggirano in reti di nylon sempre più strette in maglie d'acciaio che strangolano.
Ma io ne ero uscito: io non ero un forte, non ero un saggio, né un giusto. Io ne ero uscito tanto tempo prima. Mi sentivo contorcere al suono delle voci che non volevo sentire più, mi tappai le orecchie, chiusi gli occhi, niente sentire, niente vedere, niente parole, niente sogni, niente illusioni. Basta.
Sentivo la bestia urlare dentro di me, mi battei sul petto, dovevo farla tacere, dovevo assolutamente farla sparire. Ecco, piano, respiro lungo, mani tese, palme aperte, piano, ancora, un momento, la riccacciai via, nei meandri tortuosi del fiume da cui una volta ancora era riemersa, fra i pesci vorticanti in gorghi di madreperla.
Mara aveva appoggiato il capo sul piano del tavolo di legno scuro e macchiato, sulle braccia incrociate. Era bella, Mara, e sconfitta.
Mi arricciolai in un angolo, il più scuro e il più vicino a lei e mi strinsi addosso l'essenza del presente che sapeva del colore smorto del suo bel viso e stetti lì fermo e quieto, a far la guardia, fino a che l'alba grigia d'autunno inoltrato non giunse a dar risalto alle brutture che la notte aveva nascosto. Allora mi alzai, quattro ossa scricchiolanti, una mente indolenzita e sbirciai dal finestrino. Era sveglia e in piedi accanto a un fornelletto a spirito: preparava il caffé. Aveva gesti tranquilli e sicuri come di chi ripete un cerimoniale imparato a memoria: mi parve una sacerdotessa.
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Capitolo 2 (...)
 
Mi allontanai dalla casa di Mara, raggiunsi l'angolo da dove partiva la strada sterrata che avevo percorso con lei la notte prima. Si annunciava una bella giornata, con il sole e quel po'di caldo che ti fa credere d'essere di primavera e ti dimentichi che l'inverno si sta avvicinando a lunghi passi.
Ne erano caduti tanti d'inverno, con il corpo straziato dal gelo, ma io ce l'avevo fatta, ero tornato. Se il mio era stato un ritorno.
Il sole scaldava già e di già la gente usciva per strada, era di fretta, si vedeva che avevano dove andare, un posto da raggiungere e un orario da rispettare. Le donne mettevano le lenzuola fuori dalle finestre a prender aria, come tanti fazzoltti bianchi di resa, alcune erano per strada e andavano a un mercatino di frutta e verdura girato l'angolo, allestito su uno spiazzo di terra battuta, giovani con gonne scozzesi grige marroni e giacchette di lana, vecchie con abiti scuri e sciupati, tutte con pochi soldi ben stretti fra le dita delle mani e voci acute nel criticare i prezzi. Mi passavano accanto, mi schivavano, si giravano a riguardarmi e poi tiravano di lungo.
" Un altro. " dovevano pensare.
Proprio così, un altro e poi un altro e poi un altro ancora. Quanti saranno gli altri? Decine? Centinaia? Migliaia? Ma qui ce n'é uno.
" Venghino, signori e signore, venghino a vedere il miracolo, il mostro partorito dal ventre della vacca! Qui ce n'é uno! "
Ma se ne andavano, affrettavano il passo e di ciò non potevo fare a meno di ringraziarle.
Infine anche Mara uscì. La vidi arrivare e le vidi il viso alla luce del giorno e il giorno rivelò quello che la notte e la dolce soffusa luce del lampione avevano nascosto e ammorbidito.
Aveva tratti spezzati e guance incavate, borse bluastre sotto gli occhi più belli del mondo, verdi come onde cavalcate da delfini, e rughe sottili incise agli angoli della bocca morbida e piena. Era bellissima. Indossava una gonna nera, una camicia bianca e sopra un golf grigio con tanti bottoni: ci sarebbero volute ore pr sbottonare quel golf, io avrei voluto impiegarci anni.
Si incamminò lungo la strada percorrendola in senso inverso a quello della sera innanzi, fino ad una fermata del tram. Mi fermai, desolato: io non salivo sui tram. L'avrei persa. Il tram arrivò, lei salì. Rimasi a terra, seguendola con lo sguardo mentre si sedeva, poi lei guardò fuori dal finestrino distrattamente e così accadde che il suo sguardo si posasse su di me, un attimo e se ne era già andata.
Mi aveva visto, aveva visto la sua ombra, aveva sentito battere il mio cuore vicino al suo.
Mi guardai attorno: brutti casermoni spalancavano le cento bocche inghiottendo persone o liberandole e bambini sciamavano intorno nel tepore ingannevole del sole, fra sterpaglie e sassi e fango, giocavano i giochi dei bambini. Che strana sensazione dava la parola bambini, come un 'eco mi saliva all'orecchio e poi si smorzava in mille righe su un foglio di carta accartocciata che il vento porta lontano. Mi capitava di continuo: sensazioni e più niente, ma era giusto: io non sapevo chi ero. Forse ero un'eco, anch'io, come quella del mare dal profondo del cuore della conchiglia. Non volevo andarmene, non potevo andarmene, mi sedetti su una cassetta rovesciata nel campo dove l'erba non riusciva a crescere, mi tolsi il fagotto dalla spalla, lo posai, l'aprii e ne tolsi un pezzo di pane raffermo. Lo mangiai piano piano, anche le briciole. Richiusi il fagotto e me lo misi fra i piedi. Il sole mi scaldava, il sole fa bene alle ossa, ma le mie erano congelate da troppo tempo. Una vecchia passò, si fermò, si girò e tornò sui suoi passi, pensai che si fosse dimenticata qualcosa. Invece no, si diresse verso di me, dunque non ero trasparente, di giorno almeno. Quando mi fu vicino mi fissò e mi chiese:
" Da dove vieni? " Io scossi il capo.
" E dove vai? " Scossi il capo di nuovo. Che altro potevo fare?
" Avevo un figlio, era giovane, é morto sui monti."
La fissai allora e aveva il volto indurito e lo sguardo feroce. " Non sono stato io." dissi.
" Lo so" rispose. Dalla sporta prese un pezzo di pane fresco e me lo allungò. Esitai.
" Prendilo, dai", disse," é buono. Sei un disgraziato anche tu. "
Presi il pane e la vecchia si allontanò. Era già capitato, che qualcuno si accorgesse di me, che mi allungasse qualcosa, ma non avevo mai preso niente. Tenni il pezzo di pane in mano, era caldo, di forno, si sentiva fra le dita sporche di terra e di sudiciume giallo dorato, come un sole che sorride, era prezioso, era per me. Lo riposi con cura nel fagotto.
Un merlo lucente, piume nero, becco arancio, si posò a pochi passi. Amavo i merli, più delle rondini, più dei passeri e dei colombi. Lo guardai finché non spiccò il volo, con un frullo fu in alto in un attimo, con un batter d'ali, in alto e libero. Il merlo, non io. Sapevo che mi pesavano addosso catene di ferro arruginite e cigolanti come quello di uno spettro, sapevo che le portavo male, sapevo che gli uomini portano tutti catene e che le portano male, ma la differenza fra me e loro era che io avevo rinunciato a tentar di liberarmi dalle mie, mi ci ero affezionato, me le stringevo addosso e speravo che una notte o l'altra avrebbero finito per soffocarmi. Avrei potuto dormire.
Poi vennero i bambini, due maschietti e una bimba. I maschietti portavano pantaloncini corti, di lana e maglie con buchi vistosi sui gomiti e polsi sfilacciati, la bimba aveva una gonnellina scozzese e un maglioncino rosso, mi ricordò un papavero d'estate in un prato verde smeraldo. Mi si avvicinarono ridacchiando, un po'impacciati, un po'timorosi, chiaramente curiosi. Si fermarono a pochi passi da me e mi osservarono. Dovevo sembrare loro strano, fuori dal comune, certo diverso dalle persone che frequentavano. Mi specchiai nei loro occhi e non mi ritrovai, non ci si ritrova mai negli occhi degli altri, se non in quelli delle persone che ci amano e che noi amiamo. E poi i loro erano gli occhi dell'innocenza, della più tremenda innocenza e io non avevo nulla da spartire con l'innocenza. Chinai la testa e mi fissai i piedi dentro le scarpacce infangate e sgangherate che non mi toglievo da... quanto tempo? Non importava. Mi ero creato un mio ordine di priorità, dal più importante al meno importante. Solo che mi era semplice localizzare le cose che meno importavano, sempre più giù nella scala dei valori, mentre mi era difficile trovare qualcosa da sistemare nei gradini alti della scala che risultava così sconnessa, in bilico fra realtà e follia.
La bimba allungò una mano piccola e bianca come un petalo di magnolia che subito divenne un fiocco di neve e mi toccò. Come fa male il tocco d'una bimba! Mi sconvolse e di colpo alzai il viso e la bambina fece un passo indietro. Aveva grandi occhi marroni con pagliuzze d'oro e tentava di sorridere. " Ciao" biascicai.
" Ciao" rispose " Chi sei?" Mi venne da piangere.
" Non lo so." risposi.
" Tutti sano chi sono" fece il maschietto più grande " Tutti hanno un nome " aggiunse.
" Io no" ribattei. Risero.
Bene, adesso sapevano che di me potevano ridere, che ero uno buffo, uno che non sapeva chi era.
" Aspetti qualcuno?"
" Sì"
Adesso erano attenti: finalmente qualcosa di decente. " Chi?"
" Mara" risposi. Scossero la testa, non sapevano di chi parlavo.
" E'tua moglie?" chiese il secondo maschietto.
" No"
" Tua figlia? " Feci di no con il capo.
" Tua madre?"
" No"
" Non é una tua parente?"
" No"
" Perché l'aspetti?"
" Non lo so"
Erano sconcertati. E scocciati. Il gioco era finito, non si poteva chiaccherare con me. Si allontanarono. Era ormai mezzogiorno. E Mara tornò a casa.
Teneva un pacchetto in mano, carta marrone con un spago intorno, camminava svelta, senza cedimenti di stanchezza. Raggiunse il casermone, scese nella sua cantina e sparì. Ma io continuai a vederla: mi danzava negli occhi, respirava nell'animo, sospirava dentro di me. Le ore passarono e si fece scuro. Le luci si accesero dietro le finestre. Le persone rientrarono, alcuni, si vedeva, stanchi morti, altri, si vedeva, disfatti da un'altra giornata di inutile ricerca, di speranze deluse, alcuni tranquilli, altri tesi, alcuni in tram, alcuni a piedi, altri in bicicletta. In tutto il giorno erano passate solo tre automobili e nessuna s'era fermata. Tutto il quartiere trasudava miseria.
Mi alzai, presi il fagotto e mi intrufolai nel mio angolo, vicino a Mara. Sbirciai dal finestrino: Mara aveva disfatto il pacchetto e aveva arrotolato lo spago in un rotolino posato in un angolo, sul tavolo accanto alla carta marrone ben lisciata e piegata. Sul tavolo potevo vedere un flaconcino scuro, sottile e lungo, quasi una fialetta, una scatola forse di talco ed una forse di polvere dentrificia. Era stata in farmacia. Era molto pallida e le mani le tremavano. Si mosse, incominciò a girare intorno al tavolo, posò le mani sullo schienale della sedia, sugli oggetti che vedevo, una tazza , un coltelo, e su quelli che non vedevo: era come se li accarezzasse, era come se li salutasse. Capii che aveva deciso di andarsene. Una volta, mi pareva di ricordare avevo visto fare qualcosa di simile ad un'altra persona, chissà chi, chissà dove, chissà quando, e poi s'era messo la canna della pistola in bocca e di colpo non c'era stato più. Mara voleva morire. Io volevo che vivesse, eppure sapevo quanto la vita poteva essere dura, invivibile, feroce, scarnificatrice, vita assassina. Ma dentro di me volevo che continuasse a subire il tormento, a reggere anche l'insostenibile, volevo la vita per lei, la vita che poi, in ultimo é l'unico dono che ci viene elargito dall'inizio dei tempi. Nessuno regala più niente, dopo. Dopo c'é solo conquista e degrado.
Bussai alla porta azzurra. Silenzio. I passi cessarono. Tornai a bussare, forte.
" Chi é?"
" Io, sono io, Mara. Aprimi. "
Aprì la porta e mi fu davanti, ci separavano un cinque passi. Non si spaventò, non arretrò, mi guardò interrrogativa. Io tacevo, la mente svuotata. Che dovevo dirle?
" Sono l'ombra che ha baciato la tua, ieri notte, sono l'ombra del niente che ti ha seguita e ti é stata accanto tutta la notte e atteso tutto il giorno e adesso sono qui perché vorrei tanto che tu vivessi."
Avrei potuto dirlo, certo, ma ero terrorizzato dal fatto che potesse non capirmi, anche lei.
Tacevamo nell'ombra della sera, e i fantasmi s'incontravano e si riconoscevano, si stringevano la mano, si salutavano:
" Anche tu qui?"
" Certo, perché no?"
In tempi che ormai non riuscivo a collocare, avevo imparato che la disperazione di uno sa riconoscere la disperazione dell'altro e stringere alleanza e trovare la forza di annullarsi l'una nell'altra, come l'onda che percuote la sabbia lascia l'impronta sulla battigia, onda su onda a formare un oceano di acque del color del cobalto.
Si scosse, aprì la bocca per fare la domanda a cui non avrei saputo rispondere, invece disse:
" Aspetta, ti do qualcosa da mangiare."
Feci cenno di no.
Mentre mi guardava interrogativa, aprii in fretta il fagotto e ne tirai fuori il pezzo di pane fresco, glielo mostrai. Glielo offrii.
" No", fece, " tienilo. Non valgo tanto."
Non aveva capito. Perchè viveva da troppo in un inferno dove tutto può accadere.
" E'per te", dissi, " Io me ne vado. Non voglio niente."
Esitò, stanca, sfinita, doveva aver pensato tanto quel giorno e non poteva pensare ancora. Si scostò dalla porta azzurra e disse:
" Entra." Io entrai. Dentro una stufa di quelle a carbone, arancione con lo sportello verniciato di nero brillante, diffondeva un po'di tepore e dava l'idea di trovarsi in un nido, abbracciato da rami benevoli, riparato e sicuro.
Sapevo che era un'illusione, eppure per un momento, uno solo, me ne lasciai prendere, mi lasciai coinvolgere dall'idea - casa-, perché anch'io dovevo pur aver avuto una casa una volta, tanto tempo prima, in una vita precedente magari, così come anch'io dovevo aver avuto una madre. Dov'erano finite mia madre e la mia casa? Le mie certezze, le mie radici, il fondamento stesso dell'essere stato io, dov'erano andati a nascondersi? Ero certo che non erano scomparse, ma solo fuggite, terrorizzate dal clamore delle voci che mi rimbombavano all'orecchio nei giorni e nelle notti d'ombra.
Nella stanza c'era spazio oltre che per il tavolo e le sedie e il fornelletto che avevo visto dalla finestrella, anche per un letto, una branda con i piedi di ferro, ricoperta da un panno verde scuro e c'era in un angolo dietro una tenda in quel momento lasciata aperta, un'asta con delle grucce attaccate e alcuni abiti appesi, l'armadio. E c'era una poltroncina vicino al letto, piccola e aggraziata, rivestita di cotone fiorato, un po'sbiadito: fiori di primavera, rosa come fiori di pesco, azzurri come non ti scordar di me, gialli come primule su uno sfondo verde di prato. In primavera.
 
Eppure di primavera avevo visto scavar fosse e spuntar croci sui prati fra buche profonde e glicini in fiore. E noi a guardare le lacrime di sangue sull'erba. E noi ad ascoltare le voci che pregavano. Avevamo guardato, avevamo sentito, ma nessuno era sceso nella valle. Eppure sarebbe stato facile, sarebbe bastato mettere un passo dopo l'altro e chinare il capo, non sarebbe occorso neppure parlare. Io o un altro, non sarebbe importato. Uno qualunque infine sarebbe bastato per farli contenti. Ma non era andata così. E giorno dopo giorno, notte dopo notte, io continuavo a scendere a valle un passo dopo l'altro, a capo chino.
 
Mara mi fissava mentre me ne stavo in piedi sulla soglia a guardarmi intorno, con aria intontita; si mosse e decisa chiuse la porta alle mie spalle, con forza.
La porta sbatté sul mio cuore facendolo impazzire di paura. Dovevo uscire fuori, di corsa all'aria aperta, lì non avrei saputo come respirare e poi al chiuso le voci avebbero trovato risonanze feroci e mi avrebbero scorticato l'animo. Mi rigirai e posai la mano sulla maniglia.
" Non andare" mi disse " Non mi importa chi sei, non mi importa da dove vieni, non m importa se sei un ladro o un assassino. Resta qui".
Lasciai la maniglia e quella fu la mia resa, l'ultima concessione che feci alla vita. Da allora la vita fu in debito con me.
Restai e alzai lo sguardo su di lei, poi lo posai sulla bottiglietta sottile ancora sul tavolo, lei seguì il cammino del mio occhio e sorrise.
Non ho mai compreso il significato vero e profondo dei sorrisi di Mara, mi accontentavo di scaldarmi al loro tepore. Sorrise, fece alcuni passi, prese la bottiglietta in mano.
" Vuoi fare un brindisi?" chiese
Mossi il capo, no, grazie.
" No? Tu te ne intendi di brindisi, vero? Hai ragione: non adesso. Non ancora. Avanti, vieni avanti e siediti e stai un po'vicino alla stufa, ti riscalderà." Prese la poltroncina per la spalliera e, con modi bruschi e definitivi, la strusciò per terra vicino alla stufetta. Me la indicò.
" E'comoda. Puoi sederti. Non aver paura di sporcarla. Non é importante. "
Mi sedetti, volevo farle piacere, accontentare quella che suonava come un'offerta gentile, di più, come un favore. Mi sedetti rigido senza appoggiarmi allo schienale. Lei mi guardava con quei suoi occhi che erano gli occhi più belli del mondo, una certa fissità nello sguardo che sentivo posarsi su di me, un lembo di carne dopo l'altro, occhi senza pietà, senza fremiti dell'iride sembravano correre su e giù per la giacchetta sudicia e strappata, per i pantaloni infilati nelle scarpacce infangate, su e giù per il viso, mille formiche correvano lungo la barba di quanto? , non sapevo, non ricordavo, il sangue prudeva sotto la pelle, era insostenibile lo sguardo d'un essere umano che cerca d'impossessarsi di quello che sei.
" Lo vuoi un caffé? Lo sto facendo."
Non attese risposta, si girò veso il fornelletto e rapida rigirò la napoletana che aveva emesso il suo fischio. Il profumo del caffé riempì la stanza che era stata una cantina. Lo versò in due bicchieri di vetro, aggiunse lo zucchero, mi porse un bicchiere fumante.
" Prendi: é buono. E'caldo."
Bevemmo il caffé caldo ed io lasciai che mi riempisse la bocca del suo sapore, che m'impastasse la lingua, socchiusi gli occhi per gustarlo meglio.
" Buono, vero?" disse lei.
Annuii.
" Non parli molto, vero? Meglio così. Ne ho sentite tante di chiacchere. Troppe. Fino a sentirmi ronzare le orecchie. Un po'di silenzio.Ecco quello che ci vuole e un po'di compagnia. In silenzio. "
La capivo. Le ombre degli alberi la notte non parlano, si uniscono nella solitudine dei campi, lungo i viali, nella pioggia, sotto le stelle e scambiano lunghi silenzi sussurranti.
Mi prese il bicchiere vuoto dalle dita e lo portò al piccolo secchiaio insieme al suo: non li lavò, li posò solo con un tintinnio.
" Sai il mio nome. Chi te l'ha detto? No, lascia perdere. Non voglio saperlo, non m'importa niente di niente. Mi conoscono in tanti, questo lo sai, ...mi conoscono, oddio, se mi conoscono!"
Fece un sorriso storto che le spezzò la linea delle labbra e non mi piacque. Non volevo che si sentisse come doveva sentirsi.
Mi mossi sulla poltroncina; la stufa faceva caldo, si stava bene lì, ma non era per me. Io non volevo star bene, comodo, al caldo. Feci per alzarmi, poi mi fermai.
" Se vuoi andare, vai." disse Mara " Non voglio che tu stia qui solo per farmi piacere." Orgoglio, tremendo orgoglio, che non permette di chiedere, si ha paura di chiedere, per terrore di un rifiuto.
Non me ne sarei andato, tanto per me era lo stesso, anche lì io ero io e mi portavo appresso quella maledizione.
Mara sedette sull'orlo del letto e fissò la finestrella in alto.
Un lungo silenzio cadde sulle cose nella stanza, interrotto solo dal cader delle gocce nel lavandino, il rubinetto perdeva.
E nel silenzio sentivo parole correre fra di noi e riconoscersi e creare una lingua nuova, pensieri si formavano, s'incontravano, si mescolavano, si dissolvevano ed altri nascevano rossi come fiori di papavero fra le spighe d'oro prima che la falce cali. Fremiti di parole e di pensieri, era come se sentissi battere i nostri cuori insieme, con lo stesso ritmo scandito e perfetto, un solo cuore per riporvi i nostri passati, il nostro presente, qualunque fossero stati. Fu, lo so, un momento di pura magia. Ma eravamo disperati e disperatamente cercavamo qualcosa senza neppure renderci conto che l'avevamo a portata di mano.
" E'meglio che tu vada. Hai dove andare? No, certo che no. Comunque ormai devi andare. Ti do qualcosa da mangiare, guarda m'é rimasto del formaggio, me l'ha dato uno, uno che non ricordo più chi fosse. Prendilo e ...io ho da fare, sei stato gentile a star qui, ma adesso devo proprio fare le mie cose, mettere ordine, far pulizia. "
Non mi mossi.
" Vattene!" Aveva alzato la voce, mi indicava la porta.
" No." Feci fatica ad articolare quell'unica sillaba, mi uscì un po'strascicata, impastata.
" Che cosa vuol dire, no?"
" Resto. "
" Che cosa ti credi? Che non abbia niente da fare oltre che star qui a goder della tua compagnia?" Era spaventata. E voleva esser cattiva, far male.
" Resto. "
" Perché?"
" Non voglio che ti ammazzi."
Mi guardò stranita: una roccia desolata, devastata apriva il fianco a mostrare le ferite aperte dal gelo dell'inverno.
" Non é affar tuo. Non sai chi sono, non so chi sei. Non é affar tuo."
" Io so come sei."
" Bello! Bello davvero!"
" Ed é affar mio."
" Ma per amor del cielo!"
" Odio gli sprechi. Gli sprechi mi riguardano. Se ti uccidi é uno spreco di tempo, di giorni mesi anni, di te, di quello che hai dentro, di quello che pensi, che provi. Se ne é sprecata tanta di vita, non credi? " Mi stupii di poter dir tante parole, buttandole fuori tutte di colpo, quasi senza prendere fiato.
Scosse il capo e i capelli morbidi e setosi si mossero ad ombreggiarle le gote, grandi lacrime di cristallo le scesero lungo le guance, s'insinuarono negli angoli della bocca, bagnarono il viso, senza che lei facesse nulla, neppure un gesto, per asciugarle, per nasconderle. Era come un fiume che rompe gli argini, un lago che tracima quel pianto lungo e inarrestabile, disperatamente liberatorio.
Avevo ricordi di singhiozzi urlati nel vento, di pianti ansimanti a soffocare il respiro, ma Mara piangeva come fa il cielo in Agosto, gloriosamente, lacrime come stelle cadenti.
" Tu dici così, tu che sembrava non sapessi nemmeno parlare. Parli di vita. A me, proprio a me. Io so riconoscere l'inutilità, so leggere nel passato e vedere il bene che non c'é stato e il male che mi ha portato qui. Ma finalmente sono libera, da illusioni, speranze, sogni, paure, libera, capisci, completamente. E sono pronta ad andarmene. Non ho rimpianti, non mi lascio niente alle spalle, non ho niente davanti. Solo stanchezza che mi sfianca e sono stanca di sentirmi sfinita. Me la sono voluta, la mia vita, me la sono cercata, colpa mia. Devo pagare per la mia vita e non solo per quella."
" Troppo facile. "
" Non é vero. Non é facile, se lo fosse stato... E poi lo dici proprio tu? Ma ti sei guardato? Lo vedi in che stato sei? Non parlo della miseria, ma...Che vita fai? Perché vai avanti? Tu, tu chi sei? "
" Non lo so. I miei ricordi sono confusi e terrori m'assalgono e cammino per le strade di giorno e di notte e non m'importa se ho da mangiare o da bere, non m'importa di me, a volte sento voci, quelle sono importanti e a volte mi sembra d'essere uno sconosciuto a me stesso, lo sono in realtà.
Dev'esser accaduto qualcosa che mi ha fatto dimenticare... é come se fossi nato sulla strada, con questi stracci addosso e questa puzza e il terrore d'udire gli urli...Ma chi urla? Devo aver fatto qualcosa di terribile. Devo pagare."
" Anch'io. "
Ci guardammo, eravamo simili, le nostre ombre lo avevano capito subito.
Mi alzai dalla poltroncina, mi avvicinai al tavolo, presi in mano la bottiglietta scura: aveva un piccolo tappo di sughero, avrebbe potuto sembrare solo un po'di profumo, tolsi il tappo e annusai. Ancora quell'odore, l'avevo già sentito, forte, penetrante, mortale. Scossi il capo e tenendo la fiala fra le dita dissi:
" Non ne vale la pena."
Sentii il suo grido mentre versavo il contenuto nel secchiaio. Feci scorrere l'acqua.
Aveva le pupille dilatate dall'angoscia, le battevano i denti e un tremito la scuoteva come il vento fa con le canne in riva al fiume.
Avrei voluto avvicinarmi a lei, ma non potevo, il passato me lo impediva, il contatto fisico mi dava la nausea, ogni corpo era un cadavere.
E poiché avevo fatto quello che avevo voluto, farla vivere, mi venne da pensare che era davvero tempo d'andarmene e m'avviai alla porta. La guardai un'ultima volta e poi allungai la mano a far scattare il chiavistello.
" Non puoi lasciarmi sola. Adesso no. "
Era vero. Ormai ne ero responsabile, per un po'almeno, per quella notte almeno.
Fu così che posai il mio sacco a terra e, senza una parola mi accoccolai sul pavimento vicino alla stufa, nel tepore della stufa, mentre l'oscurità s'addensava nella stanza e lei se ne stava raggomitolata sul letto. E venne la notte ed io sentii crepitii e vidi lingue rosse danzare e la stufa divenne di ghiaccio e lei gemeva a tratti dal letto, nell'oscurità.
In questo modo incominciò la mia vita con Mara.
Vorrei che mai, mai fosse finita.
 
Finisce tutto si sa, il bene e il male accumunati dalla sentenza definitiva che pone il sigillo alle azioni e ai pensieri, senza appello. Eppure il ricordo aggira la sentenza perchè il ricordo dura. Non ci piove. Il ricordo resiste, non è eterno, ma resiste. Si fa roccia nel correr dei secoli verso la loro disgregazione, si fa acciaio fuso nel palmo della mano, si fa monumento e insieme sacrario. Continuità. Fluire delle acque verso il mare. Voce incessante che narra storie di uomini, di tracce lasciate, di sospiri di cuori. Incessante. Perenne. Viva. CONTINUITA'.
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Capitolo 3 (...)
 
L'alba s'annunciò splendida, la mano del sole penetrò dalla finestrella e si posò sul capo di lei: dormiva finalmente, un sonno inquieto, ma profondo. La luce fu dolce con lei e gentilmente le accarezzò la gota e poi i capelli, passando leggera sulla palpebra chiusa senza evidenziarne il gonfiore, scese lenta lenta sulla mano piccola e ben fatta, esile, da bambina e girò brevemente per la stanza toccando una cosa qui, un'altra là. Non mi lasciai sfiorare, mi rintanai nell'angolo e mi persi a contemplare il pulviscolo brillante che il raggio del sole nascente portava nel grembo, polvere incantata, di quella che permette di volare se te la metti addosso, o di tutto sapere se ne inghiotti un pizzico, ne ero sicuro.
Avrei potuto uscire in silenzio, carponi strisciare fino alla porta, aprirla e fuggire; non sapevo chi ero, non sapevo da dove venivo, sapevo che non potevo fermarmi, mi avrebbero preso, se mi fossi fermato.
Invece rimasi e cercai di non pensare, tirai un chiavistello e feci vuoto nella mente. Sentivo battere forte il cuore, per ansia o paura.
Aspettavo che si destasse. Io non ero il principe biondo sul gran destriero bianco che poteva avvicinarsi a lei e svegliarla con un bacio. Potevo solo aspettare. Ecco quella era una delle stranezze che mi capitavano: da dove era spuntata l'idea-rcordo di quel principe, di quel bacio? Non volevo rovistare e cercare, mi doleva il capo, eppure una voce parlava di cavalieri e re e regine e di quel maledetto cavallo bianco, una voce gentile, avvolgente, mi veniva da dare la testa al muro, ero terrorizzato dal pensiero che fosse la mia voce, quella che avevo avuto. Mara si mosse, si allungò stirandosi e aprì gli occhi. Si guardò intorno nel piccolo spazio della stanza sorvolando sugli oggetti e si posò su di me. Un attimo e ricordò. Il sonno fuggì via nell'alba e lei si sedette sulla branda, si passò la mano fra i capelli, sugli occhi d'oro e mi sorrise.
" Sei rimasto! " esclamò. Sentii che era felice di rivedermi ancora lì, con lei e nel mio cuore frullarono le ali di cento passeri in primavera.
" E'bello trovare qualcuno quando ti svegli, erano secoli che non mi...
Sei stato tutta notte lì per terra? Certo che ci sei stato. E'da te. "
Mi guardava, mentre parlava ed io ero consapevole dello spettacolo che offrivo; non mi era mai importato, faceva parte della mia pena, ma per lei, solo per lei, avrei voluto avere un aspetto diverso.
" Che cosa ti hanno fatto? " chiese piano.
Non risposi. Non volevo.
Si alzò, mi si avvicinò, si chinò verso di me, si mise in ginocchio accanto a me e allungò una mano, una mano sola a sfiorarmi gli occhi, la barba, i capelli. Senza ribrezzo, disgusto, pietà, e la sua mano era calda e morbida, sapeva di acqua e sapone, il suo tocco non mi fece fuggire.
" Grazie " mormorò e mi depose un bacio breve fra le sopracciglia.
Il sangue mi correva rapido per le vene, era come un torrente in piena che precipita a valle da un immenso ghiacciaio e travolge nell'impeto arbusti e sassi con limpide chiare acque avvolgenti a formar brevi vortici e cascatelle e rivoli.
M'era dunque rimasto sangue nelle vene. Ma non alzai il viso. La maschera era sempre lì a coprire l'animo.
Mara si alzò in piedi, andò al fornelletto, sospirò e preparò il caffé: di nuovo, come la sera prima. E come la sera prima lo bevemmo nei due bicchieri e intanto lei riaccendeva la stufa, buttandoci dentro un poco di carbone e dei fogli di carta. Ben presto lingue rosse si levarono dietro lo sportello nero lucido e la stufa riprese vita.
" Perché l'hai fatto? " chiese " Ieri, dico, perché... Dimmi chi sei. Io non ti ho mai visto prima."
Scossi la testa. Non potevo, non sapevo rispondere a quella domanda. E la temevo, proprio perché non avevo risposte da dare.
" Lascia che ti aiuti . " disse
Mi levai dal mio angolo e feci cenno di no. Non volevo che s'impelagasse con me. Ne aveva abbastanza del suo.
" Vorrei aiutarti, non capisci, devo aiutarti. Non so se mi hai fatto un favore ieri. Non ci voglio pensare. So solo che adesso sono qui e tu sei qui e che qualcosa ci lega, non so, qualcosa, la mia vita che esiste ancora, forse, qualcosa di sottile, di forte insieme.
So che te ne andrai, se ne vanno tutti e sei libero di farlo, ma mentre le altre volte ero contenta che se ne andassero, adesso vorrei che rimanessi, non per paura, non per solitudine o disperazione, anche se é vero che sola lo sono e disperata forse anche, ma per qualcosa di diverso, perché sei tu, e sei come il ritratto che porto dentro, sei me.
Stupida sono, vero? E sentimentale. Chi l'avrebbe detto? Mai ci avrei creduto di poter diventar sentimentale. La vita fa certi scherzi, a volte..."
Ero in piedi davanti a lei, stanco, frustrato, spaventato e la luce giocava a formare disegni d'ombre sul pavimento: accadde così che le nostre due ombre si confusero l'una nell'altra, la mia ombra strinse la sua forte contro il petto mentre un grido, se poi era un grido, mi usciva dalle labbre contratte premute sui suoi capelli.
Durò un secolo, il lampo di un attimo che acceca nello sfolgorio della stella cadente. Ma era successo. E Mara sorrise.
Sorrideva mentre si dava da fare intorno a me: mi scorciò i capelli e nel farlo la cicatrice rossastra sulla tempia si rivelò in tutta la sua bruttura, ma lei l'accarezzò e non chiese come me la fossi fatta.
Mi tagliò la barbaccia e peli grigi caddero al suolo, ma non se ne curò, voleva vedere il mio viso, disse, poi rovistò sotto il letto, ne trasse una valigia di cartone spesso , l'aprì e mi mostrò degli indumenti .
" Erano di uno, ..uno di quelli che se ne sono andati." Me li porse.
Io andai al secchiaio e mi lavai come potei, meglio che potei e lei mi asciugò le spalle e le braccia e mi aiutò a indossare gli abiti di quell'uno.
" Stai bene. Proprio bene. " disse, lisciando con la mano una piega nella camicia.
Io sentivo che ero cambiato, un pendolo batteva dentro di me, ritmicamente segnava il tempo: e oggi non era più ieri.
Mi lasciavo toccare da lei, lasciavo che mi si muovesse intorno godendo di ogni suo gesto. La sua presenza aveva chiuso la porta alle voci.
Fu così che la presi fra le braccia e la tenni un poco discosta da me, giusto per poterla veder meglio, poi me la tirai vicino, stretta sul petto, di modo che, mentre la baciavo, potei sentire il suo ed il mio cuore battere insieme.
Ci baciammo con delicatezza e ci accarezzammo con dolcezza: l'impeto della passione ci spaventava.
Ci amammo con tenerezza, com'era giusto per due come noi, ombre nella luce strette in un abbraccio lunghissimo.
Ci innamorammo l'uno dell'altra, com'era giusto.
Unimmo i nostri corpi, e le nostre menti si spalancarono, si cercarono si fusero, anima e corpo insieme sospesi fra mura sbilenche ed identità sconosciute.
 
Ecco l'amore è un'altra storia. Proprio così. Se poi t'arriva fra capo e collo tutto d'un colpo, ci si può anche restar schiantati. Da crederci, altro se c'è da crederci. Perchè l'amore è una forza che unisce e stordisce è un fulmine e un tuono che sbianca il cielo e lo ferisce, rintrona la mente e sospende il cuore appeso a un filo lucente come una falce di luna nel mare delle stelle.
L'amore. Gran cosa. In verità gran cosa.
Sentimento e follia, un tutto che prende vita e si mette in moto dove va non sa, si nutre d'amore e si espande in soffi nuvolosi .
Si soffre d'amore e si muore d'amore. Ci si fa piccoli per amore e si diviene bestie per amore.
Suonava una campana lontano mentre l'amavo e lei mi era sotto calda e luminosa. Rintocchi nelle orecchie, scintille nell'occhio chiuso, il tempo, il tempo intreccia i secondi ai minuti alle ore, giorni ed anni.
I rintocchi scandiscono il tempo nell'amore che dorme. Per tutti. Nel rintocco della campana lontana ci si può smarrire tutta la vita, annegare il passato, vedere il presente, perdere se stessi, sospesi fra ieri e oggi a guardare incerti un domani che forse verrà al seguito di altri rintocchi, cristalli fragili che suonano allo strisciar del dito. Amore come cristallo. Proprio così.
 
PARTE II
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Si è classificata 1° al concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. narrativa.
Si è classificata 6a p.m. nel concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. poesia.
Si è classificata 8° nel concorso Il Club dei poeti 1997, sez. poesia.
 
Si è classificata 1° al concorso Città di Orzinuovi 1998, sez. narrativa.
 
 
Daniela Manzini Kuschnig vi offre la lettura
di due racconti:
"A passeggio fra le nuvole"
"Le cose"
 
 
 
Per leggere la prefazione del libro con "Incontri"
Per leggere alcune pagine tratte dal libro libro con "Incontri"
 
Per leggere la prefazione del libro con "Con ali raccolte"
Per leggere alcune poesie tratte dal libro libro con "Con ali raccolte"
 
 
Collabora inoltre al Club presentando alcuni "Grandi poeti del '900" :
Caproni Giorgio
Penna Sandro
Solmi Sergio
Vigolo Giorgio
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agg. 16 maggio 2000