Inediti On line
 
Farfalle
di

 Daniela Manzini Kuschnig

PARTE II

Capitolo 4

Farfalle
non aquile
vincono l'oceano
 
da Poesie di Karl Lubomirski Parte 1: L'Immutabile
L'inverno s'avvicinava a grandi passi, un giorno dopo l'altro e noi si viveva giorno per giorno. Ci si alzava alla mattina, ci scambiavamo il primo sguardo, senza una parola, mentre lei si dava da fare sul fornelletto ed io mi davo da fare intorno alla stufa, si beveva il caffé, ormai non ce ne era quasi più, poi io uscivo e andavo alla ferrovia dove ogni giorno trovavo qualcosa da fare e prendevo un po'di soldi, pochi, é vero, ma ce li facevamo bastare. Lei mi veniva incontro sulla strada del ritorno, e insieme compravamo da mangiare e rientravamo tenendoci ogni giorno più vicini l'uno all'altra, o almeno così mi pareva. Come se avessimo avuto paura di perderci. E intanto si era fatto scuro, e la nebbia invadeva i prati, s'infilava sotto le porte, ovattava l'aria, smorzava i rumori, costruiva una barriera spessa e tangibile fra le persone che alla luce pallida dei fanali si rasentavano, si urtavano, non si riconoscevano.
La nebbia ci isolava dal resto del mondo, ci coccolava, ci pervadeva di tranquilli silenzi. Ci amavamo sulla branda, Mara ed io, ed ogni volta era più bello della precedente, non perché ci inventassimo giochi nuovi, ma solo perché imparavamo a conoscerci meglio. Stavamo abbracciati ed io la sentivo stretta a me come se fossi la cosa più importante della sua vita, e sentivo il sapore dei suoi capelli e a volte delle sue lacrime, le accarezzavo il viso e passavo l'indice sulle pieghe intorno alla bocca che baciavo e per quelle sue rughe di vita passata, di gioventù distrutta l'amavo, senza pietà, con pienezza e dolore insieme, consapevole del nulla che ero. Dopo essere stato la sua ombra ero divenuto il suo uomo e Mara era la mia donna.
La sentivo stanca, anche se sorridente, a volte ne vegliavo il sonno tranquillo, ma pieno di sfinimento. In quei momenti avevo paura del passato e mi stringevo a lei per sentire il suo respiro sul mio viso.
Non parlavamo molto, non ci raccontavamo quello che eravamo stati, pareva che non fosse importante, che nessuna spiegazione occorresse fra di noi, era come se fossimo nati la sera che c'eravamo incontrati e forse era proprio così.
Parlavamo delle cose del giorno, di quello che avremmo fatto, dell'ora in cui ci saremmo incontrati, di ciò che avremmo mangiato, del tempo sempre più freddo, del cielo terso come una coltre di cristallo sopra le mura sporche di una prigione, dei rumori che ci circondavano, ma di noi, no, di noi, non osavamo dir nulla, temevamo forse che ciò che avremmo scoperto, spogliandoci della nostra reciproca ignoranza, avrebbe potuto allontanarci, dividerci, toglierci quell'alone luminoso che ci pervadeva il cuore, illuminandolo con un fascio di lucciole balenanti lungo l'argine di un fiume incontaminato.
Le nostre vite lontane non avevano nessuna importanza. Da tanto avevamo smesso di sognare bei sogni, se mai l'avevamo fatto e comunque ormai la stagione dei sogni era finita, la nostra giovinezza era stata ingoiata da una qualche trappola infame che noi avevamo contribuito a costruire credendo di correre dietro alla realizzazione di un sogno più grande di noi. Per questo non aveva importanza parlare. Mara forse pensava che io sapessi di lei e della sua vita sulla strada, che qualcuno me l'avesse detto, le voci corrono da un maciapiede all'altro. Io non avevo niente da dirle, perché nulla ricordavo di me e le voci tacevano fra le sue braccia, il silenzio era meraviglioso, niente echi di suoni laceranti né grida come d'animali al macello.
Non c'é niente di più perfetto del silenzio dentro di te.
Non ci eravamo create delle aspettative, lei era stanca di delusioni e di inganni, lo lasciava capire, glielo vedevo trasparire dall'oro degli occhi. A me andava bene così. I suoi sorrisi erano lo spettacolo più bello che mai mi era capitato di vedere e lei me lo prodigava a piene mani. Le sue carezze erano leggere e profumate, il suo amore dolce e avvincente, si inarcava sotto di me e gemeva piano con gli occhi spalancati nei miei. Mi disse una notte: " Avrei voluto incontrarti tanto tempo fa..." e fu tutto. La baciai ancora ed ancora e ci addormentammo tenendoci le mani.
Una sera tardi mentre Mara se ne stava seduta sulla poltroncina a fiori vicino alla stufa calda ed io ero sul pavimento, mi piaceva guardarla dal sotto in su, non sapevo perché, come un mendicante forse o un cane bastardo preso tante volte a calci che pure aspetta una carezza, sentimmo bussare un colpo solo forte, rapido, deciso e il viso di Mara sbiancò, le labbra le tremarono, ma subito si riprese, si scosse, alzò la testa e indurì i lineamenti del viso. Andò alla porta e chiese: " Chi é? "
" Dai, apri, sono Raul, il vecchio Raul."
" Vattene"
" Dolcezza, ti conviene aprire. "
" Ho detto di andare..."
" Non vuoi sapere di Giada? "
Mara appoggiò la fronte alla porta e le spalle ebbero un tremito. Poi ebbe uno scatto e aprì, ma solo un poco.
" Che cosa le hai fatto? "
La mano s'abbatté con forza sulla porta spalancandola e Raul entrò.
"Volevi tenermi fuori? "
" Che cosa hai fatto a Giada? "
" Giada? Ah, sì! La piccola Giada. La tua giovane amica. Beh, sai come vanno le cose. "
" No. Non lo so. Dimmelo;"
" Sta'calma. Fatti vedere. Sei brutta, e vecchia. Peccato. Comunque si può provare..."
" Dimmelo! "
" Questo non é il modo di parlare! "
" Dimmelo! "
" Che cosa vuoi che ti dica? La piccola Giada s'é rovinata da sola. E'scappata con la pancia piena. Stupida cagna. "
" L'avrai cercata, penso."
" Certo, per fargliela vedere, puoi giurarci. "
" E...l'hai trovata? Sai dov'é?"
" Sparita. Spero che marcisca all'inferno. "
Dal mio angolo vidi il sollievo dipingersi sul viso di Mara. Raul non s'era accorto di me. Respiravo piano.
" Allora, mi offri qualcosa? No. Immagino che te la passi male. Io potrei aiutarti."
" Non voglio che tu mi aiuti. Non ho bisogno di te. "
" Allora, bella, mettiamola così. Farai un favore alla piccola Giada."
" Hai appena detto..."
" Che é sparita? Vero. Che non so dov'é ? Falso. Diciamo che la lascio stare, almeno per un po', se tu mi dai una mano."
" No, no, no..."
" Neanche per Giada? "
" Sei un maledetto..."
" E tu una puttana. "
" Che cosa dovrei fare? "
" Qualche cliente, di bocca buona, certo, di quelli che s'accontentano. Ogni tanto. Ci sono in giro montagne di soldi, con i militari che hanno la bava alla bocca..."
" No, Raul, non voglio, ne sono fuori. L'hai detto anche tu che ero fuori, finita. "
" E'per Giada. "
" Non puoi metterla così."
" Ma é così. "
" No. Tu vuoi che sia così, ma non é vero. Io farei tutto per Giada, ma questo, no. Dimmi dov'é. "
" Dimenticatelo."
Mara chinò il capo e mosse qualche passo indietro, lui la seguì con lo sguardo, percorrendole il corpo, dalla testa giù fino alle caviglie e fu allora che mi vide, accocolato per terra. Rimase immobile, senza parole quasi trattenne il fiato.
" E questo chi é? " fece espirando e continuò: " Dove l'hai trovato? Sono questi i tuoi clienti adesso? " Rise.
Mi alzai da terra, lentamente. Raul era un bell'uomo, era vestito bene, con pretese d'eleganza. Sentii un ronzio nelle orecchie e mi parve di scorgere l'immagine lontana di uomini e donne finemente vestiti raccolti in una stanza ricca di quadri, di soprammobili in porcellana, d'argenti luminosi, di cristalli trasparenti dai mille colori nelle sfacettature iridiscenti: era un'immagine che veniva da lontano e sfumava lentamente nell'attimo stesso che si formava. Neppure cent'anni di vita avrebbero permesso a Raul di divenire simile ad uno di quegli uomini, se poi era questo che voleva. Era impossibile. Ai Raul non era permesso. Il fetore li accompagna sempre, per tutta la vita e il profumo dei soldi non fa che sottolinearlo. Ma Raul non lo sapeva, non ancora.
" Dille dov'é." La mia voce risuonò aspra nel breve spazio della stanza.
" Chi sei? " La domanda fatidica.
Scossi la testa.
" Non lo vuoi dire? Non importa. "
" Dille dov'é. " Ripetei.
" Allora non hai capito. Io non le dico niente. Io a lei non devo niente. Invece lei..."
" Ti devo molto, vero? Lo credi davvero? Che cosa ti devo? D'avermi messo sulla strada? d'avermi fatto credere che mi amavi mentre volevi solo che io e le altre con me ti mantenessero? d'avermi fatto abortire? di questo devo ringraziarti? Della mia creatura che non ha mai avuto neanche una possibilità di vita? "
" Hai messo tu queste idee in testa a Giada. Solo che lei almeno ha avuto coraggio. Ha cercato di far qualcosa. Tu no. Qualche lacrima, qualche protesta e basta. Ti sei arresa. Adesso che cosa vuoi? Che ti chieda scusa? Hai fatto le tue scelte. Hai scelto di fare quello che sapevi far meglio, no?"
" Hai ragione. Sono stata una vigliacca. Sempre. Non ho scuse. Non ne cerco. Ma tu non hai mai avuto pietà. "
" Dille dov'é. " Sentivo la mia voce stridere. Raul mi ignorò.
" Invece me ne vado. Sai dove trovarmi, se cambi idea. Solo così ti dirò di Giada. "
" Dille dov'é. " Mi ero avvicinato, gli misi una mano sul braccio e strinsi forte. Sotto la stoffa, la carne mi parve flaccida, quasi priva di muscolatura. Si girò verso di me, era arrabbiato, furibondo:
" Levami le mani di dosso, pezzente !"
Lo spinsi contro il muro e gli sbattei la testa contro la parete: rimbalzò.
" Diglielo. " Strinsi il suo braccio con più forza, mentre con l'altra mano lo artigliavo alla gola. Mi veniva facile, come se fossi stato abituato a farlo, da sempre.
" E'sparita. Davvero. Non scherzo. Ho una donna in meno. C'é molta richiesta. Per questo ho pensato a Mara. " Poi aggiunse con una qualche velenosa soddisfazione:
" Forse é morta. "
Si girò verso la porta e fu fuori, in un lampo.
Mara chiuse la porta con delicatezza, senza far rumore. Rimase immobile, il viso al battente, la schiena girata verso di me, come una statua, una bambola di pezza. Vidi che annuiva, muovendo lentamente il capo: " Sì, sì, sì..." era come se dicesse di sì per tutto il tempo a venire.
Dopo un minuto lungo quanto una vita, si scosse e si girò: incontrò il mio volto e mi sorrise, bianca in viso come un cencio, ansava leggermente e contraeva le mani. Cercò di acquietarsi, prese a passarsele sulla gonna grigia, su e giù, su e giù, lungo i fianchi, ma le mani le tremavano.
" Vieni, le dissi, vieni a sederti. " Le indicai la poltroncina.
Scosse il capo, ma poi si lasciò andare come se le gambe le avessero ceduto d'un tratto.
Si appoggiò allo schienale, chiuse gli occhi e disse:
" Da bambina mi vestivano con un abitino bianco e rosa per andare alla messa, la domenica. Odiavo quell' abitino. Dovevo stare attenta a non sciuparlo, a non sporcarlo, odiavo le scarpine di camoscio beige con il cinghino sul collo del piede, perciò odiavo andare a messa. E odiavo la domenica. Mio padre non andava al lavoro nei campi e se ne stava a casa, a fare il padrone, prendendo a calci mia madre fino all' ora della siesta pomeridiana, quando le diceva: " Muoviti, sali." Lei saliva su per la scala di pietra e si chiudeva alle spalle la porta della camera e dopo un po' ridiscendeva, ogni volta con un po' di luce in meno negli occhi, finché di luce non ve n' era restata più e gli occhi erano solo buchi neri e profondi come il pozzo nell' aia grande sotto il sole: come se l' avesse divorata. Andavamo tutti a messa la domenica, con i vestiti buoni, lavati e pettinati, una bella famiglia, ed io ascoltavo le parole rimbalzare sulle pareti della chiesa del paese e il prete parlava e sbraitava dell'inferno , c' era sempre l' inferno nelle sue parole, quell' abisso infuocato che tutti avvolgeva e divorava, tutti quelli che facevano il male, le cose cattive, che avevano i pensieri cattivi. Io odiavo l' inferno e ne avevo paura. Maledetto prete.
Chissà se mio padre é andato all' inferno, lui a prendere calci da qualche diavolo deforme, invece che a darli, lui che poi aveva finito per portarsi su nella camera, la domenica pomeriggio, la figlia dello zoppo, che era venuta a lavorare in casa, " per aiutar la vecchia", che poi era mia madre. Mara si chiamava la bambina con l' abitino bianco e rosa che sono stata, Mara mi chiamava la maestra, Mara mi aveva sussurrato nell' orecchio Luca, prima di sverginarmi dietro la cascina, alla luce delle stelle e io avevo pensato: " Adesso vado all' inferno. " E infatti ci sono andata, all' inferno. Da viva.
I soldi. Non avevo soldi e avevo fame e mio padre, mio padre era una bestia e non gli ho mai perdonato quello che mia madre aveva sofferto per causa sua. Me ne sono andata quando lei é morta, via, lontano, per cercare qualcosa di bello.
Ci deve esser pur qualcosa di bello, mi dicevo.
Ma ero solo una di campagna che arrivava in città e s'incantava fra le luci e le signore eleganti e l'abbondanza tutt'intorno e...ero giovane, ero solo giovane. Avevo sempre lavorato in casa e nei campi.
Ho fatto la sguattera, ho lavato i panni dei signori, la loro biancheria di seta fine, fino a spellarmi le mani e la sera guardavo il fiume scorrere sotto la luce delle stelle e pensavo, domani domani accadrà qualcosa di bello, anche a me, domani.
Fu così che un domani, incontrai Raul e lui era gentile, simpatico, e mi corteggiava, me ne innamorai, credetti d'aver trovato il meraviglioso.
Mi ritrovai sulla strada, come una povera scema non avevo capito niente e Raul...sì, ha ragione: potevo ribellarmi e non l'ho fatto. Forse ne ero talmente innamorata ed avevo una tal paura di perderlo che...Ma quando sono rimasta incinta, e mi sono lasciata metter le mani addosso da quella vecchia laida che mi ha tolto il bambino, allora dovevo trovar la forza di puntare i piedi per terra e gridare di no.
Invece niente. Ho lasciato che uccidessero il bambino.
E dire che l'avrei voluto quel figlio, l'avrei voluto tanto. Ma avevo paura, per me e per lui. Il figlio di una puttana. E che cosa mai sarebbe importato?
Magari sarebbe stato un buon uomo, o una brava figliola, magari avrebbe fatto del bene, avrebbe aiutato qualcuno. Troppo tardi. Avrei dovuto pensarci prima.
Me lo sogno, sai, il mio bambino, é sempre un maschio, adesso avrebbe otto anni, é come se lo vedessi crescere, se lo accompagnassi a scuola, se sedesse accanto a me sul tram. Lo vedo crescere, ha grandi occhi scuri e capelli castani, come mia madre, a volte credo che lo potrei toccare tanto é vivo nel mio cuore. Mi guarda e ride, é contento, sarebbe stato un bel bambino felice.
Non me lo potrò perdonare, mai."
Le posai una mano sulla spalla: fissava le lingue rossastre che lambivano lo sportello nero della stufa, forse ci vedeva figure strane e grottesche, forse cercava di ricomporre le parti del passato a formare un unico quadro che le desse la chiave di se stessa.Una ragione per gli errori, per il dolore, per l'irrimediabile. Chissà che cosa vedeva o credeva di vedere Mara. Compresi che da otto anni si stringeva al petto la colpa d'aver tradito la sua maternità. perché le colpe si cullano a lungo, dentro, già. Per tutta quanta la vita, a volte.
Mossi la mano, le strinsi la spalla. Alzò il capo e mi guardò.
" Scusami " disse.
Di che cosa doveva scusarsi? Con me, poi. Forse anche lei sentiva delle voci, la voce del bambino, che cambiava con il passare degli anni, dal pianto del piccolo appena nato, ail ciangottare, alle prime parole, alla prima frase, un po'smozzicata...
" Non potrò aver altri figli. " disse alzandosi e fu come se chiudesse la porta sbattendola forte davanti ai giorni che l'attendevano, o che ponesse un mazzo di fiori di campo davanti a una lapide in mezzo al verde di un gran prato.
" Ero molto giovane...e stupida e ...avevo paura. Di non farcela. Gli ho dato retta. Ma é stata solo colpa mia. " Guardava in alto, la luce pallida della notte che entrava dal finestrino e scosse le spalle.
" Lo sogno spesso, quel figlio. Mentre c'era la guerra e tanti ne morivano, mi son detta: " Hai fatto bene, non avresti potuto dargli niente, miseria fame disperazione. " Ma non é vero. La vita gli avrei dato, una possibilità.
Di notte mi rimprovera e mi chiede: " Perché? " e il perché sta nel fatto che ho pensato di più a me che a lui. Capisci? L'ho ammazzato.
I figli si difendono, si proteggono, si curano, si amano. Io, il mio l'ho buttato nella spazzatura."
" Sei dura. Dovresti perdonarti, lui ti ha perdonato."
" Credi? Vorrei esserne sicura. Vorrei avere un'altra possibilità, ma non ce l'ho. Forse é per questo che ho cercato d'aiutar la Giada, in qualche modo. Perché potesse, lei, metterlo al mondo, il figlio."
" Ce la farà."
" Lo spero tanto."
" Dove pensi che sia andata? "
" Non lo so. Non é tornata dai suoi, perché non aveva nessuno cui tornare, le era rimasto solo un fratello, che è morto in Africa, povero cristo. E la casa distrutta. Non aveva molti soldi, perché Raul ci stava attento e la teneva a corto, per paura che si montasse la testa. Poteva venire da me. Deve aver capito che qui Raul la poteva trovare quando voleva."
" A chi potremmo chiedere? "
" In giro. Alle altre. Chissà. Ma aveva troppa paura per parlare. Anche con loro. "
Chinò il capo fra le mani e si passò le dita fra i capelli.
Poi, decisa, andò alla tenda, la tirò: comparvero le grucce con gli abiti. Ne trasse il cappotto scuro, lo infilò.
" Esco." disse
" Vengo con te. "
" No. Meglio di no. "
Aprì la porta e fu fuori, in una folata d'aria fredda che si consolidò nella stanza prese la forma indefinita di una presenza estranea.
Allora mi ritrassi in me stesso e ricucii gli orli della mia tunica d'ombra e senza peso e senza anima fui nella strada sui suoi passi a cercare la pista calda del suo cuore.
 
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Si è classificata 1° al concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. narrativa.
Si è classificata 6a p.m. nel concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. poesia.
Si è classificata 8° nel concorso Il Club dei poeti 1997, sez. poesia.
 
Si è classificata 1° al concorso Città di Orzinuovi 1998, sez. narrativa.
 
 
Daniela Manzini Kuschnig vi offre la lettura
di due racconti:
"A passeggio fra le nuvole"
"Le cose"
 
 
 
Per leggere la prefazione del libro con "Incontri"
Per leggere alcune pagine tratte dal libro libro con "Incontri"
 
Per leggere la prefazione del libro con "Con ali raccolte"
Per leggere alcune poesie tratte dal libro libro con "Con ali raccolte"
 
 
Collabora inoltre al Club presentando alcuni "Grandi poeti del '900" :
 
 
 
 
 
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agg. 16 maggio 2000