Inediti On line
 
Farfalle
di

 Daniela Manzini Kuschnig

PARTE III (Giada)

Capitolo 12

 
"Il bambino si appoggia sul nervo sciatico e questa è la cusa del dolore che sente. Deve star ferma, a letto, riposarsi e deve nutrirsi bene, il meglio possibile, insomma. " disse il dottore, il vecchio Bovi, dopo aver visitato Giada, la mattina successiva al nostro arrivo. E aggiunse:
" Posso chieder chi è? Sì, insomma con tua moglie morta , seppellita senza che tu ci fossi,... e poi adesso arrivi con questa che sta per aver... , insomma la gente chiacchera. E pensa, che è peggio."
" Era un'amica di Mara. Era in difficoltà già quando siamo partiti. La gente può pensare, può dire l'accidenti che vuole! Io non ho nessuno cui render conto! O dovrei render conto alla gente? "
" Per un momento ho creduto di sentire tuo padre. Stessa testa, per la miseria! Imparerai a rispettare la voce della gente, lo impariamo tutti, lo farai per il bambino, se non per altro. "
" Non devo render conto di me. Questo è tanto. "
" Va bene. Vedremo. "
Mi lasciò sull'uscio della casa del fattore con quelle parole. Ero irritato, no, arrabbiato. Io, io, che non avevo né padre, né madre, né fratelli, né moglie, né figli, a chi sulla terra avrei dovuto render conto e perché? Scossi le spalle, ricacciai il nodo in gola e rientrai in casa. Naturalmente l'Ernesta era tutta un lavoro.
" Quando nasce? " mi chiese. Era raggiante.
" Il mese prossimo, ha detto. "
" Vedrà che andrà tutto bene. A proposito, bisognerà pensare a preparare un briciolo di corredino... Voglio andare a vedere di sopra, nel cassone, deve esserci qualcosa... "
" Perché sei così... contenta? "
" Ma per il bambino, che altro! Se lo immagina un bambino qui dentro? Dopo tanta morte... Poi i bambini sono una benedizione del cielo, lo sanno tutti! E non mi faccia perdere tempo! " Schizzò via.
Mi fermai con le mani in tasca, guardando fuori dalla finestra, a pensare. Era la testa delle donne, il loro senso di maternità a farla da padrone, in circostanze di quel tipo; una partoriva e tutte si sentivano madri, nonne, zie. Mi domandai se sarebbe cambiato qualcosa se l'Ernesta avesse saputo che la stessa Giada, che pareva essere approdata a far il figlio qua come una vergine smarrita, era invece una femmina di malaffare e il bambino un bastardo, figlio di nessuno.
No che non le sarebbe importato, la sostanza della cosa non stava in chi fosse Giada, ma nel fatto che da lei sarebbe nata una creatura e quella creatura l'Ernesta aspettava di vedere, prendere in braccio, amare. Era giusto, per tutti, certo lo era per me. Avrei dovuto pensare al bambino in termini concreti, avrei dovuto pensare a provvedere alle sue necessità. Lo sguardo corse fuori dalla finestra ai campi lasciati a se stessi da troppo tempo, si fissò sul ciliegio a fianco del forno per il pane, simile ad una capanna con la sua tettoia staccata dal corpo della casa vera e propria, corse ai mandorli, rivide lontano lontano le schiere di peri e di meli, le distese di grano e i papaveri in mezzo all'oro delle spighe:
" Dovrò rimboccarmi le maniche e lavorare come un pazzo, sarà bello. "
pensai. Credo anzi che mi venne da sorridere. Chiamai Felix ed uscii per andare a dare un'occhiata da vicino al futuro.
Nel mese successivo, mentre Giada portava a termine il suo tempo, io vissi nei campi, giorno e notte, con il cane e due uomini che venivano dal paese e mi aiutavano, perché c'era tutto da rifare, niente s'era salvato dall'incuria e dalla devastazione. Di giorno lavoravo fino a sentirmi a pezzi, passavo la notte nella rimessa, in un angolo dove avevo portato due coperte e la mia sacca. L'Ernesta mi portava da mangiare lì e si fermava a far due chiacchere, a dirmi come andavano le cose in casa, come stava l'amica della signora e che aveva chiesto di me e che lei aveva detto che, se Dio voleva, stavo fuori sui campi, ed era quello il motivo per cui non mi facevo vedere, vero? e poi stava preparando le cose per il bambinpo, e venivano proprio bene, anche quelle vecchie, aveva avuto ragione a tenerle, una volta lavate e stirate, un punto qui ed uno là, parevano nuove, avrei dovuto proprio vedere! E sì, il dottore veniva regolarmente e insomma tutto procedeva come doveva.
Non sapevo perché non mi andava di ritirarmi in casa la sera. Era solo che non mi sentivo di farlo, non volevo farlo. Così come non ero ancora passato a fare un saluto a Mara, anche se lo desideravo, anzi pregustavo il momento in cui mi sarei fermato davanti alla sua tomba e avrei incominciato a raccontarle tutto quanto.
Mi ero fatto un discorso, punto per punto e lo ripetevo nei campi a Felix che intralciava giocando fra i piedi, sempre fra i piedi, come se non volesse allontanarsi più di mezzo metro da me, anzi pareva che mezzo metro fosse la distanza massima di sicurezza che s'era proposto di tenere, mai un po'di più. Altrimenti mi stava appiccicato alle gambe. Ripetevo dunque il mio discorso a Felix ed era come un ripassare una lezione, per esser sicuro di non dimenticare i particolari o di non sbagliare l'ordine dei fatti, e intanto levavo erbacce, facevo recinzioni, preparavo la terra per le colture.
La primavera era arrivata, con i peschi in fiore, le rondini, il sole caldo, l'erba rinverdita e tutto quanto fa primavera. Mi pareva di non aver mai visto prima un cielo così azzurro e luminoso, qua e là tinteggiato di sfumature pervinca e mi capitava di sostare e fissarlo, limpido e fresco da sentir quasi la voglia di annegarmici dentro. Una mattina vidi Felix che trapestava fra l'erba sotto un pioppo e saltellava abbaiando a qualcosa per terra. Pensai a una bestiola, lasciai la vanga e andai a vedere, ci mancava che magari si andasse a impelagare con le punte a uncino di un riccio, e lo trovai che zompava allegro attorno a un nido caduto dal pioppo. Da sempre mi aveva colpito l'arte che la costruzione dei nidi rivelava, intrecci di rametti e di di fili d'erba, perfetti esempi dell'istinto che porta le creature a farsi non solo un riparo, ma una casa.
Ma con il nido, era caduto anche un piccolo di merlo e a lui Felix indirizzava finte e ritirate, era un cane di città, che cosa poteva saperne di merli? L'afferrai per il collare e lo tenni fermo per farlo calmare, poi mi chinai a raccogliere nel palmo il merlo, con l'altra mano presi il nido e ve lo deposi dentro. Era tutto becco spalancato a cercar cibo.
Sopra di noi volava la madre e strideva il suo richiamo. Mi allungai più che potei e posai nido e merlo su un ramo basso, sistemandolo bene nell'attaccatura del tronco, poi mi allontanai. La merla volava e strideva. Mi allontanai ancora. La vidi scendere, posarsi su un ramo alto, poi, con due voletti, raggiungere il nido. Dio benedica gli animali, perché sono così innocenti. Ripresi a lavorare come al solito e a sera raccolti gli attrezzi, andai nella rimessa. L'Ernesta non si vedeva.
Fece scuro e niente ancora. Decisi di andarle incontro e mi incamminai tallonato dal cane verso casa. Era scuro ormai e le stelle si accendevano una a una, sarebbe stata una notte da favola. La luce traspariva dalle finestre, non aveva ancora chiuso le imposte: era strano. Mi affrettai, perché mi era piovuto addosso un senso di disagio che se ancora non era preoccupazione, faceva però battere il cuore più forte. Entrai in cucina e non c'era bessuno. Poi sentii gridare.
Il grido veniva dal piano superiore, lo seguii salendo la scala ripida, da pollaio e mi fermai sul ballatoio davanti al battente ora spalancato della camera che era stata mia e di Mara. Sentii la voce dell'Ernesta, calma, tranquillizzante e compresi che il bambino stava nascendo, prima del previsto. Avrei dovuto ridiscendere e aspettare, quelle erano cose per donne e medici al più, io che ci stavo a fare? Ma non mi mossi, come se i piedi si fossero radicati alle assi del pavimento, non volevano proprio saperne di andarsene e portarmi dabbasso.
Chiamai " Ernesta? " e subito la testa della donna si sporse dalla porta e lei mi fece: " Meno male che è qui! Èil bambino, sa! vada a chiamare il dottore, non so se da sola ce la faccio, non sono più brava come un tempo... Vada, vada... "
Andai e trovai il Bovi e insieme ritornammo a casa e appena entrati, sentimmo vagire.
" E brava l'Ernesta! " disse il medico. " Certe cose non si dimenticano mai! Era la miglior levatrice del paese, da giovane. " Parlando saliva le scale.
" E allora? Cosa abbiamo qui? Una femmina, che Dio la benedica, una bella femminuccia! E la mamma, come sta, la mamma?... " Le sue parole si persero all'interno della stanza, affievolendosi nell'allontanarsi.
Era dunque nata una bambina. Giada aveva avuto la sua creatura. Alla faccia di tutto e di tutti. Sentivo che annuivo soddisfatto come se fossi riuscito in una qualche grande impresa, appoggiato al bordo della tavola in cucina, di fronte alla gran stufa economica dalle bocche rosseggianti. C'era disordine intorno, strofinacci e pentole e piatti da lavare. Giada aveva una figlia che sentivo strillare disperatamente, mi pare solo ieri che sentii la voce di Mara per la prima volta, già, perché l'avremmo poi chiamata Mara.
" Signor Aldo, la guardi, come è bella! " L'Ernesta mi tendeva un pacchetto di copertine di lana bianca e azzurra, e ne scostava un lembo e lì, in mezzo c'era il rosa di un visino piccolo piccolo, un ciuffo di capelli neri dritti sulla sommità della testa. " Èbella, vero? "
" Èbella, sì. "
" E il dottore dice che è sana e forte. Meno male. Tutti i bambini dovrebbero esserlo. Le assomiglia, anche... "
" Non è mia, Ernesta, davvero. " Mi fissò e mi parve che un'ombra di delusione le passasse negli occhi.
" Èun peccato. Ma la terremo con noi lo stesso, vero? "
" Per quel che mi riguarda, sì, certo. "
" Dove poi potrebbe andare? Di questi tempi... così duri da viverci. No, la piccola sarà contenta di stare con noi. E anche sua madre. "
" Sicura? "
" Certo che son sicura. La sua mamma mi ha raccontato tante cose e non so se proprio tutte son vere... o se... non importa. Comunque mi ha chiesto della signora e le ho detto che era morta e credevo che le scoppiasse il cuore dal piangere che ha fatto. Avrebbe potuto dirglielo lei, invece d'imbucarsi nel capanno e non farsi vedere. Ma gliel'ho spiegato, che lei era molto legato alla signora e che aveva bisogno di tempo, il tempo aggiusta tutto e adesso la bimba... Sì, andrà tutto bene. "
Invidiavo la sua sicurezza di donna provata dalla vita che ancora credeva che tutto si sarebbe aggiustato, come se conoscesse la formula di un qualche collante miracoloso capace di reincollare cuori anime e menti. Ma forse era proprio così. Mi tese la bambina. " La provi a tenere un po'. " Sorrideva.
Quando presi la piccola in braccio, mi si imperlarono le tempie e mi sentii debole e fiacco, definitivamente stanco, poi la bimba vagì, il visino si contrasse e si fece rosso e d'istinto mossi le braccia, cullandola: si calmò quasi subito.
Continuai a cullarla camminando su e giù per la cucina e percepii il tepore del corpo così leggero e minuto, così indifeso, così innocente... Era innocente, mio Dio, quanta innocenza in quei tre chili di carne e di sangue! Mi innamorai di lei, dei suoi vagiti, del suo sapore di latte, del rosa delle sue mani perfette ed era appena nata.
Una settimana dopo il parto, di pomeriggio, bussai alla porta della camera da letto ed entrai. Giada era seduta in poltrona vicino alla finestra con la bimba in braccio. S'era ripresa bene e la pelle fresca riluceva alla luce, gli occhi verdi sorridevano, i capelli erano seta fine. Era ancora più bella di come la ricordavo. Mi ero tolto il cappello giù in cucina e mi ero dato una scrollata ai panni, ma mi sentivo sporco e fuor di posto nella stanza che pur conoscevo bene. Lo sguardo mi andò al letto dove avevo lasciato Mara quell'alba di ormai quattro mesi prima, era in ordine, le lenzuola perfettamente rimboccate, la coperta ripiegata con cura.
" Avrei voluto che salissi prima, avrei voluto parlarti e ringraziarti... "
" Non c'é bisogno di nessun ringraziamento. "
" Credo di sì. So, credo di sapere, che hai fatto tutto questo per Mara, sono grata a entrambi... Vorrei che Mara la potesse vedere , la bambina... Mi hai ignorata, mi sono chiesta perché fossi venuto a cercarmi, poi ho capito che pensavi di doverlo fare per lei. Ècosì, vero? Non mi sono sbagliata? "
" Anche per me. Sentivo che dovevo farlo per tutti quanti. "
" E non vuoi che ti ringrazi. "Era una constatazione.
" Non è importante, dir grazie. L'ho fatto volentieri. Non me l'hai chiesto. "
" Non cambia molto. "
" Forse. Ma neanche questo importa. "
" Che cosa importa? "
" Che sei qui e che lei sia qui. " Mi avvicinai e tesi una mano toccando appena la piccola.
" Avevo pensato di chiamarla Mara. "
" Sì, mi piace che abbia il suo nome; "
" Le devo tanto... "
" Anch'io. "
Chinò il capo e baciò la neonata, stringendola un poco più vicina a sé. Il cuore mi si aprì alla speranza, i miracoli erano dopotutto possibili. Con un po'di buona volontà.
" Che cosa dovrei fare, dimmi... "
" Fare? Che cosa vuoi dire? "
" Voglio dire ... dopo... nei giorni a venire."
" Puoi rimanere qui, c'é posto per te e la bimba. Se vuoi. "
" Sei certo? "
" Sì. L'Ernesta ci rimarrebbe male se te ne andassi. "
" L'Ernesta... è stata come una madre. "
" Rimani. "
" Lo sai che non ho dove andare, ma non chiedo... "
" Aiuto? "
" Non voglio esser di peso. Non ho fatto granché nella vita, lo sai bene, a parte... quello che era il mio mestiere. Vorrei far qualcosa. Davvero. "
" C'é tanto da fare qui: un mondo da rimettere in piedi. "
" Credi che possa aiutare ? Anch'io? "
" Puoi fare la tua parte. C'é posto anche per te. E vorrei che restassi qui con la bambina. Se ti va. Se questa vita ti basta. "
Alzò il viso e si volse a guardare fuori dalla finestra: le tendine smosse dall'aria rivelavano campi verdi e alberi e la curva del fiume e i tetti dei capanni. Le prime api ronzavano.
" Mi basta. " rispose. Allora le tolsi Mara dalle braccia e scesi con lei in cucina, la coprii bene ed uscii.
" Dove va? " chiese l'Ernesta.
" Torno fra poco. Felix!" chiamai. C'era qualcuno a cui volevo farli conoscere.
Lentamente mi avviai giù per il sentiero verso il paese, passai il ponticello sopra il il fiume e raggiunsi il cimitero dietro la chiesa. Era ben tenuto, pulito dalle erbacce, le tombe curate, fiori di campo freschi qua e là, una vecchia pregava seduta su una panchetta davanti ad una lapide.
L'Ernesta l'aveva fatta seppellire come le avevo detto, a fianco di mia madre. Sulla tomba c'era una croce e sulla croce un medaglione in metallo con il nome e la data della morte, non avevo mai saputo quando era nata.
" Eccomi qui, alla fine. Ed ecco qui la piccola di Giada: ce l'ha fatta. Ènata e se lo è, è per merito tuo. Non ti preoccupare più per lei: è viva, è qui, le baderò. Sarà una bambina felice. Stai tranquilla adesso, ci penso io. Giada vuole chiamarla come te. Èun bel pensiero. Ti manda a salutare. Ti vogliamo tutti bene. E, Mara, mi manchi, mi mancherai sempre, sei dentro di me e ci starai fino... sempre. " Le raccontai tutto. Sapevo che dovunque fosse, era contenta.
La bambina dormiva fra le mie braccia come se stessi cantando una ninnananna tutta per lei. Feci fatica a togliermi da là, ma alla fine mi staccai da quella croce e tornai verso casa, con Felix che correva un dieci passi avanti a me, si rigirava, mi si precipitava incontro facendo capriole, quasi ribaltandosi nell'ansia di raggiungermi e poi ripartiva a scheggia. L'Ernesta ferma sulla porta ci aspettava, tutti e tre.
 

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Si è classificata 1° al concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. narrativa.
Si è classificata 6a p.m. nel concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. poesia.
Si è classificata 8° nel concorso Il Club dei poeti 1997, sez. poesia.
 
Si è classificata 1° al concorso Città di Orzinuovi 1998, sez. narrativa.
 
 
Daniela Manzini Kuschnig vi offre la lettura
di due racconti:
"A passeggio fra le nuvole"
"Le cose"
 
 
 
Per leggere la prefazione del libro con "Incontri"
Per leggere alcune pagine tratte dal libro libro con "Incontri"
 
Per leggere la prefazione del libro con "Con ali raccolte"
Per leggere alcune poesie tratte dal libro libro con "Con ali raccolte"
 
 
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Inserito il 4 maggio 1998