LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti

 

Incipit del libro
 Incontri
di
Daniela Manzini Kuschnig
editrice Montedit, 1997, Collana d'oro (libri premi), pp. 96,
Lit. 8.500. ISBN 88-86957-16-5
Agnese La Guardia
 
Parte 1
 
Il prato era in pieno rigoglio, verde e morbido come un mare quieto luccicante al sole. All'estremità più settentrionale c'era il cascinale, deserto in quell'ora di calma pomeridiana e tutt'intorno il silenzio che il brusio degli insetti della campagna sembrava sottolineare ed accrescere, fatto com'era della mancanza delle voci e dell'operosità dell'uomo.
L'uomo ascoltava la pace dei suoi campi e godeva della vista dell'erba prospera e sana. Era un grande uomo bruno, dagli occhi attenti e profondi; se ne stava appoggiato al tronco della quercia che con la cima dominava il suo mondo.
Quella terra che era sua, quegli alberi che suo padre aveva piantato e che erano cresciuti con lui, quei filari che egli curava, quelle zolle che gli davano di che vivere, quelle erano per lui le cose più importanti di tutto il mondo. A volte gli pareva di vivere su un'isola, tanto si teneva fuori da ogni contatto diretto con altri modi di vivere o di pensare, eppure la solitudine non gli pesava, anche se le sole persone con cui aveva quotidiano contatto erano la vecchia madre ed il Toni, anzi si sentiva grato e felice, consapevole che tanti altri uomini, diversi nei pensieri da lui, vivevano in luoghi vicini e lontani e spartivano con lui quell'esperienza che era il vivere.
La madre, Agnese La Guardia, era ormai anziana e il suo carattere forte e provato da una vita non facile, s'era, per così dire, irrigidito, rendendola prevenuta, perennemente insoddisfatta, ristretta d'idee: magra, alta, grigia di capelli, nel volto rugoso aveva occhi azzurri che, soli, sembravano avere ancora la capacità di respirare e godere l'aria pura dei monti intorno. Parlava poco e spesso solo per lamentarsi; pareva che, da quando le era morto il marito, la sua mente si fosse chiusa, sbattendo la porta in faccia al mondo.
Toni, il garzone, grande, grosso e un po' tonto che aiutava nei lavori dei campi e viveva alla cascina, roteava ancora gli occhi, dopo tanti anni, se mai qualcuno, così per caso, gli ricordava il giorno in cui Luigi La Guardia era morto, colpito dal fulmine, mentre, sorpreso dal temporale nei campi, raccoglieva gli attrezzi per tornarsene a casa.
 
Ciò che forse aveva terrorizzato il Toni, allora poco più di un bambino, non era stata tanto la morte improvvisa del padrone, quanto ciò che aveva visto sul volto della dura, angolosa Agnese, quando aveva ritrovato il corpo del suo uomo. Toni si era spaventato, ma i figli già grandi di Agnese La Guardia avevano capito, e l'avevano capito per la prima volta, che quell'uomo, invecchiato precocemente, quell'uomo che li faceva sgobbare come muli, era stato per la loro madre la luce di tutto il suo mondo: ora che s'era spenta, la donna era rimasta come cieca.
Tre figli aveva avuto Agnese La Guardia: una femmina e due maschi. La prima a lasciare la cascina era stata Marta, la maggiore che s'era sposata con un giovane che lavorava alla macelleria giù al paese. S'erano conosciuti, l'estate dopo la morte di Luigi La Guardia e l'inverno s'erano sposati. Agnese non era stata contenta del matrimonio: non voleva perdere la figlia e l'aiuto che la figlia le dava in casa. Era solita dire che lei, Agnese, mai avrebbe lasciato sua madre sola, con tre uomini cui accudire, una madre vecchia e stanca, poi: lei mai l'avrebbe fatto. Marta non l'era stata ad ascoltare. Aveva preso l'abitudine di canticchiare, poi un giorno aveva detto: «Guarda che mi sposo la prossima festa». Così era stato e alla cascina Marta non era più tornata.
Del resto dei due figli maschi, anche Stefano se ne era andato presto, prima al borgo a mezzacosta del monte, dove aveva trovato lavoro in una piccola officina, poi in città, in pianura, dove si era sistemato in un'officina ben più grande: ché Stefano era ambizioso e voleva farsi la sua strada, lontano dai campi e dallo sterco di vacca.
Ottavio era il maggiore dei due fratelli la Guardia: lui era rimasto sui campi, alla cascina, insieme alla madre ed al Toni. Sentiva che quello era il suo posto; c'era in lui un sentimento, una sensazione che lo turbava e che non capiva, ma che lo faceva rimanere lì, a lavorare la terra, a mungere le vacche calde e grasse, a raccogliere le uova, ad allevare i conigli, ad arare, a seminare, zappare, potare, a veder passare il tempo, misurandolo sull'epoca dei raccolti, con le figliate delle bestie.
Dalla finestra della cucina a volte, Agnese si fermava a guardare quel figlio e l'occhio velato le splendeva, le labbra severe sorridevano. Mai avrebbe confessato, neanche al prete, neanche in punto di morte, d'amare quel figlio più di tutti gli altri.
 
Quel figlio non era bello, come Stefano, non sapeva parlare - Stefano incantava con la sua parlantina -, no, Ottavio era un mulo e basta, ma era quello che lei sentiva più suo, poiché era quello che, solo, era riuscita a partorire, diverso d'aspetto, ma identico nello spirito al suo uomo. E lei sola sapeva quanto avesse amato il suo uomo: l'aveva sgridata, l'aveva anche battuta, ma l'aveva raccolta fra le braccia nel sonno tante volte, l'aveva sollevata per la vita, ridendo e scherzando e lei sapeva tutto del suo cuore. Bene, Ottavio era suo figlio: duro, inselvatichito forse, ma buono e umano.
Ottavio si mosse. Con cura controllò lo steccato ad est del pascolo, poi lentamente si diresse verso casa. Trovò la madre seduta in cucina, vicino al tavolo; quando egli entrò, alzò gli occhi dalla vecchia Bibbia che teneva aperta in grembo, ché in quegli ultimi anni aveva preso l'abitudine di leggere ogni giorno qualche pagina della Bibbia.
Disse: «Toni è tornato dal paese. Ha portato la farina e lo zucchero... All'ufficio postale c'era una lettera... di Stefano, viene a casa». Ottavio rimase immobile un istante poi prese a far scorrere l'acqua nel grande recipiente di rame. «Va bene». Avrebbe voluto chiederle se era contenta, sapeva quanto aveva sofferto per il figlio che se ne era andato via, lasciando la terra, voleva dirle di stare tranquilla. Ma non poteva. Il volto della madre pareva ancora più rigido del solito.
«Dice che resta?» domandò.
No, rispose con il capo la vecchia. «Dice che viene a trovarci, ma non si ferma. Porta una donna».
Ecco dunque cos'era: tornava, ma non per restare, tornava con una donna. Dopo tanti anni di silenzio. Agnese non glielo avrebbe perdonato, lei che l'aveva già perso una volta e ancora non ci si era rassegnata. Una donna? Chi? La fidanzata? Un insulto in più per la vecchia La Guardia. Agnese sedeva immobile, guardava lontano, ché la sua mente stanca sapeva ancora vedere... e le cime dei monti non erano troppo lontane per lei: tante volte le aveva raggiunte e i piedi calzati negli scarponi pesanti parevano danzare e il suo cuore volava sulle orme stampate innanzi a lei sulla neve fresca.
E quando tornava alla casa e andava nella stalla, animata dal calore delle bestie, sentiva il sangue battere forte nei polsi e, mentre alzava il fieno con il forcone, il gesto di nutrire le vacche floride la riempiva di forza e di felicità; il marito alle sue spalle rideva della sua energia e del rosso delle guance, fra il fieno che odorava di fragranze sempre nuove e la vita che muggiva, respirava, ruminava intorno a lei, su di lei, dentro di lei.
 
 
Parte 2
 
«C'è Stefano! È arrivato!» gridò Toni all'estremità del campo nord. Con calma Ottavio si volse verso la casa, vi si diresse attraverso il prato, la falce sulla spalla, lentamente.
Non era cambiato Stefano, era quello di sempre: allegro, agile, bello, forse un po' troppo vivace, forse qualche ruga sul volto, ma niente di più. C'era la donna con lui: era esile, di pelle chiara, con grandi occhi scuri: era la fidanzata. Agnese era rigida, ma non scortese, con il figlio poi parlava tranquillamente. Ottavio si tranquillizzò.
«Eccoti qui! Grande e grosso e sempre attaccato alla terra!» gridò Stefano.
Il saluto fece ricordare ad Ottavio quanto egli avesse insistito affinché anche lui lasciasse la casa: avrebbero convinto la madre a vendere, avrebbero aperto un'officina loro due insieme: Officina La Guardia, anche il nome aveva trovato. Ma Ottavio aveva detto di no, ché lui restava e così era stato.
Stefano parlava: lui e la Luisa si sarebbero sposati di lì a qualche mese, l'aveva portata alla cascina perché la madre la conoscesse; Agnese assentiva. La giovane era silenziosa, sorrideva leggermente, quasi con sforzo.
«Non è la donna per Stefano». Furono le parole di Agnese, quando insieme ad Ottavio andò alla stalla a chiudere le bestie. Ottavio non rispose: gli era venuto da pensare che forse era Stefano a non essere l'uomo per lei. Più tardi, dopo che la madre se ne fu andata, mentre riponeva gli attrezzi sulla scansia vicino alla porta, sentì la voce del fratello venire dal sentiero dietro la stalla, quello verso i campi.
«Ma non sei buona di parlare? La lingua ce l'hai, dunque parla! Vuoi che mia madre pensi che sposo un'oca? Non che mi interessi poi molto quello che pensa, la vecchia è matta, ma voglio che parli, che tu le piaccia, lo sai, parla, oca!». Ottavio si sentì irritato dal tono querulo, infantile del fratello: gli sembrava di vederlo: spalle rigide, viso corrucciato, mani in tasca.
La voce della donna era piana e gentile: «Tu non capisci: non è la mia casa, quella donna non è mia madre, non mi vuole qui e forse non vuole neanche te. Vuoi che le piaccia, vuoi che ti aiuti a convincerla a vendere questa terra, non ci hai ancora rinunciato: è il tuo sogno». «Ne avevamo pur parlato, lo sapevi, è l'ultima possibilità che ho, che abbiamo, posso ancora diventare qualcuno e se la vecchia si crede d'impedirmelo...».
«C'è tuo fratello...».
«Ottavio? storie... non vede più d'un palmo davanti al suo naso».
«Guarda là, cos'è? Una stella? La luce di un aereo? Dio, che pace, sembra che non esista niente di brutto qui, è tutto così...».
«Così come? Ma dico ti sei rincretinita? Qui tutto è vecchio, sporco e sa di vacca...». I passi risuonarono sulla terra battuta, le voci si allontanarono.
Ottavio s'accorse d'aver tenuto il fiato, si vergognò d'aver ascoltato, si vergognò per quello che aveva udito, guardò le sue bestie con amore: «Odor di vacca!» borbottò. Chiuse la porta della stalla e, mentre si dirigeva verso la casa, guardò due o tre volte in su il cielo stellato e si domandò quale luce mai fra tante aveva colpito così con il suo splendore la Luisa.
La mattina successiva Stefano scese al paese portando il Toni con sé: la donna no. Fu così che Ottavio se la vide venire incontro attraverso il campo, mentre conduceva i buoi verso la valletta verde: toccava a lui se il Toni non c'era. Era bella la donna. Ma parlava poco davvero. Era timida forse: forse non aveva niente da dire o non trovava il modo di esprimersi, chissà, forse era solo a disagio.
Si fermò di fianco all'uomo e chiese: «Mi giudicate sciocca?».
Ottavio non rispose: da quel gran parlatore che era anche lui, non sapeva che dire e poi l'imbarazzava il solo rendersi conto che a lei importava sapere come lui la giudicasse.
Mosse la testa e accarezzò la testa della vacca bianca. Sapeva che la madre li poteva vedere e questo lo imbarazzava di più. Ma la donna scendeva verso la valletta, svelta, con passo elastico. Si voltò ad un tratto, agitò la mano, poi si mise a correre. Quando Ottavio e le vacche la raggiunsero, la donna era seduta sull'erba.
«Siete felice voi qui, vero?». Questa volta Ottavio fece segno di sì. Forse non avrebbe potuto dire se lo era davvero o no dal momento che il significato pieno della parola felicità gli sfuggiva. Ma se felicità era ciò che lui intendeva o anche meno, lui era felice. La donna disse; «Ci credo». Si alzò e si mosse per tornare e mentre andava aggiunse: «Partiamo domani».
La sera a casa vennero con Stefano anche Marta e il marito macellaio. Si assomigliavano Marta e Stefano. Risero e scherzarono molto; si fermarono tutti a dormire.
Quella sera nessuno passò vicino alla stalla, ma Ottavio, andando a riprendere il badile che aveva lasciato accanto al pozzo, vide il fratello baciare la donna.
L'indomani Marta e il marito se ne andarono con grandi promesse di tornare e auguri di felicità per i due prossimi sposi. «Non saranno felici». Pensava Agnese fra sé e sé, asciugandosi le mani nel grembiule di tela; si girò un poco verso l'interno della stanza e disse rivolta a Stefano che stava seduto al tavolo di cucina: «Non venderò la terra Stefano».
«Tu vuoi rovinarmi... Ti aspetti che diventi come quel bue di Ottavio, tu mi odi perché me ne sono andato, tu...».
«Non venderò la terra. Puoi tornare qui se sei rovinato».«No, mai e lo sai! lo sai bene!» gridò l'uomo e sbatté con forza la tazza bianca piena del forte caffè nero sul tavolo. La tazza si ruppe, il liquido si riversò sulla cerata azzurra. Stefano guardò la macchia scura allargarsi e bestemmiò forte. Agnese La Guardia lo fissò e non c'erano né rimprovero né delusione nei suoi occhi, solo indifferenza, apatica accettazione di una reazione aspettata. Questo lo spaventò: capì che niente avrebbe smosso la madre, una madre che non l'amava abbastanza da fare ciò che lui le chiedeva. Che cosa poi, in ultima analisi? Togliersi da quella vita selvatica, permettere ad Ottavio di lavorare decentemente con lui in un'officina loro, comprata con i soldi ricavati dalla vendita della terra, trascorrere i suoi ultimi anni in un appartamento, con una camera tutta sua, con lui e la Luisa.
Diavolo d'una vecchia rimbambita. Uscì sbattendo la porta e andò diritto verso i campi deciso a parlare con Ottavio. Potevano farla interdire infine la vecchia. Ottavio lo ascoltò, gli fece anche qualche domanda e quando fu sicuro di aver ben compreso ciò che il fratello andava dicendo, sentì le gambe irrigidirsi e una vampata attraversargli il ventre fino alla gola. Agnese non era pazza, era sua madre, la terra era sua, era nel suo diritto. La collera lo prese alla gola forte e irrefrenabile, non seppe, non tentò neppure di trattenerla. Picchiò una volta sola con forza, mirando alla bocca del fratello e lo lasciò che sputava sangue sul margine del campo. «Brutto idiota... soldi e soldi e soldi e quella maledetta città!» Si sentì triste per il cretino e si sentì triste per la Luisa: gli era simpatica e adesso gli faceva un po' pena.
Sul tavolo c'era solo il suo piatto quella sera. Agnese gli disse che Stefano e la donna erano partiti, Stefano non aveva detto che sarebbero tornati e lei pensava di no. Ottavio mangiò in silenzio mentre Agnese leggeva una pagina della Bibbia: non c'era serenità in loro, ma l'istinto diceva che presto, molto presto ogni cosa sarebbe tornata a posto, che il loro mondo aveva subito una scossa, ma aveva resistito.
Così fu infatti. Il ritmo delle ore e dei giorni tornò a scandire la vita dei due La Guardia nei campi ai piedi dei monti. C'era molto lavoro: s'era in autunno inoltrato, presto sarebbe stato inverno; le scorte per il bestiame andavano fatte e riposte, i campi, dopo il raccolto, erano pronti per il sonno invernale. Ottavio pregustava l'odore della legna che bruciava nel grande camino, le lunghe serate passate a leggere la rivista dell'agricoltore e a scolpire le figure in legno, cosa che faceva con passione, aveva fatto le statuine per il presepio della pieve alcuni anni prima. Ma l'intaglio era solo uno svago per lui, un passatempo cui si dedicava in inverno, quando il lavoro nei campi era sospeso.
Quando cadde la prima neve sui monti Ottavio fece un lungo giro per la terra dei La Guardia e controllò bene ogni cosa, ispezionò accuratamente gli steccati, le due stalle e il grande fienile, fece una lista di ciò che mancava per le riserve della dispensa e sottopose tutto ad Agnese.
«Va bene, bene» disse la vecchia guardandolo «Va bene, Ottavio. Se pensi che ci voglia più foraggio per le bestie, ordinalo e anche per il resto, ... va bene, fa' tu». Da qualche tempo Agnese sembrava stanca, svogliata, svuotata e Ottavio era preoccupato per lei. Aveva pensato di parlare alla madre per capire che cosa avesse, poi pensò di no, che era meglio chiedere al dottore, il Bianchi, che passava dal paese proprio quel giorno, di fare un salto su alla cascina, con la scusa di una chiaccherata e darle così un'occhiata.
Nel pomeriggio sul presto Ottavio scese in paese e andò dal Bianchi, proprio mentre questi, dopo aver mangiato in sacrestia, ché infatti per quanto ateo convinto, intratteneva cordiali rapporti col curato con cui condivideva il gusto per la discussione e per lo scambio spesso caustico e irriverente d'idee, se ne andava lentamente ad aprire la porta dell'ambulatorio. C'erano già due donne che l'aspettavano. Ottavio attese il suo turno e poi entrò. Non era ben sicuro di come incominciare il discorso e, a dire la verità, il Bianchi, buono, ma burbero, non gli facilitò le cose. «Bene, allora, La Guardia che c'è? Siediti, dai, che devo andare da una che partorisce. In 'sto posto c'è sempre qualcuno che partorisce. Allora? Che hai? L'aspetto è buono».
«È mia madre, dottore...» Aveva deciso di chiamarlo solo dottore e non, come aveva sentito far gli altri, signor dottore, non sapeva neanche lui perché.
«La vecchia La Guardia! Toh! E che ha? Perché non me l'hai portata?» Ottavio cercò di spiegare il perché: era un'idea sua che sua madre non stesse bene, una paura sua.
«Mah, ha già una bella età ormai, l'Agnese. Senti, adesso ho quel parto, poi vedo se ce la faccio a venire stasera a darle un'occhiata. Ti sta bene così? E guarda che un bicchiere di quello buono lo voglio però, anzi, meglio, facciamo due. Siamo intesi?» Ottavio fece di sì, certo, lo ringraziò e fece per uscire, quando il Bianchi disse a voce alta, ma quasi a se stesso: «Però c'hai un bel fratello fetente, figlio mio. Non che siano affari miei, ma al paese giù ne parlano tutti di Stefano».
«Perché, che è successo a Stefano?»
«Dico, non lo sai? a lui proprio niente, ma quella ragazza, la Luisa è gravida e lui l'ha piantata e dicono che andrà in Germania e la Luisa che vada al diavolo, lei e il bambino.
«Di' su, non te la prendere a questo modo; guarda che faccia hai... Dai son cose che capitano , solo che nei paesi se ne parla di più. Va' a casa. A stasera e non ci pensare».
Ma Ottavio non poteva non pensare alla Luisa. Ci aveva pensato tanto in tutti quei mesi. Gli veniva in mente quando meno se lo aspettava, ma sempre allontanava il pensiero: era la donna di Stefano. Oh, se lo era stata la donna di Stefano! aveva suo figlio in pancia. Avrebbe voluto che la Luisa avesse il suo di figlio. Dio, l'aveva pensato, aveva avuto il coraggio di pensarlo alla fine e non se ne rimproverava. Ma la Luisa era andata a letto con Stefano e lui l'aveva mollata. Incominciò a cadere acqua mista a neve dal cielo che s'inscuriva rapidamente. Doveva pensare e capire perché si sentiva confuso e agitato e infelice: per la Luisa? Per il suo bastardo che era poi un La Guardia? Incominciò a camminare lungo il viottolo in salita e salì e salì su per il sentiero fin che il fiato non gli mancò e s'accorse solo allora d'aver quasi corso per gli ultimi metri e di sentirsi in fondo all'animo ferito , sconvolto, deluso. Si fermò allora, ansimando. Ormai era buio e nevicava, fiocchi piccoli e fitti che gli ferivano il viso. Aveva voglia di piangere, lui che di donne ne aveva avute ben poche, che nessuna aveva amato, che nessuna aveva conosciuto come la Luisa: chiara di pelle, scura d'occhi, fine di lineamenti, snella, quasi troppo, con i suoi lunghi silenzi e quelle sue poche parole. Non riusciva ad immaginarsela gonfia per il figlio che portava, sola e derisa da quelli del paese a mezzacosta dove Stefano l'aveva conosciuta, figlia di un mezzadro vedovo e povero, per illuderla d'un amore e forse d'un benessere che non sarebbe mai arrivato. L'avrebbe voluta lui una donna così, dalla voce dolce e bassa, lui l'avrebbe voluta. Non ci aveva mai neanche lontanamente pensato, solo, a volte, aveva immaginato per un attimo, qualcosa di simile «Sì, proprio io, il mulo!» Piangeva e rideva, schernendo se stesso. La terra era la sua donna, era il suo amore. S'inginocchiò piano e rimase là con le spalle rivolte al monte e il viso in giù verso le luci baluginanti delle fattorie.
 
***
 
«È vecchia, Ottavio, solo vecchia, stanca di vivere anche. Ne ha passate tante, ha lavorato troppo... Se ne andrà piano piano, figlio mio, e credo senza paura e rimpianti. È forte d'animo, ma anche la candela più splendente finisce per spegnersi. Dai, è la vita». Il Bianchi gli disse e gli batté la mano sulla spalla.
«Ho capito. Le starò vicino».
«Sì, bravo. L'hai sempre fatto. Senti, quella faccenda di Stefano, non dirgliela, tanto...»
«Non lo so, non ci ho ancora pensato....Ma la Luisa adesso dov'è?».
«Dove vuoi che sia? È tornata dal padre, al paese a mezzomonte e gli tiene la casa, gli fa da serva. Il bambino nascerà a primavera. Se ce la fa».
«Se ce la fa?».
«Non è mica una La Guardia, lei! È come era sua madre: delicata. Mah, speriamo bene». Il Bianchi s'incamminò verso la vecchia jeep con cui si spostava nella valle, di fattoria in fattoria.
«Dottore!»
«Che vuoi?»
«Vedrà la Luisa?»
«No. Perché?»
«Ma passa dal paese?»
«Sì, dopodomani».
«Se la vede, le dica che mi dispiace, sì mi dispiace, l'ho vista una volta sola, ma m'è piaciuta e mi dispiace, vorrei aiutarla e...».
«E che cosa ? Va be', glielo dico. Addio Ottavio».
«Le dica che se ha bisogno io son qua. No, le dica che giovedì prossimo vado giù, c'è mercato, vado io al posto del Toni. Vorrei vederla». Il Bianchi guardò l'uomo un attimo, poi distolse lo sguardo e scosse il capo. «Non devi sentirti responsabile per Stefano».
«Non è per Stefano, è per la Luisa. Voglio vederla».Testardo come la madre, pensò il Bianchi, avviando il motore. L'avrebbe vista, come no. Era perplesso, perché conosceva Ottavio da molto e gli voleva bene a quel campione di razza montanara ormai in estinzione. Ne avrebbe parlato con l'amico, il nemico parroco. Bella discussione sarebbe stata quella! Ghignò, soddisfatto.
 
 
Parte 3
 
La corriera fermò nella piazzetta del paese, il giovedì, proprio davanti al sagrato della chiesa. Il mercato era nel piazzale dietro il municipio, stipato di paesani che coglievano l'occasione per incontrarsi, far affari, scambiar chiacchiere e farsi un bel bicchiere.
Ottavio scese dalla corriera e s'incamminò verso il mercato, a passi lenti, guardandosi attorno. Non aveva detto al Bianchi dove avrebbe incontrato la Luisa e non sapeva di preciso dove stava la casa del padre, non che fosse un problema, qualcuno gliela avrebbe indicata, ma avrebbe preferito non chiedere. La mattina era fredda e l'aria gli gelava le mani grosse arrossandogliele. Aveva ormai superato la chiesa, quando vide la Luisa, con quello scialle scuro che dal capo le scendeva giù sotto la vita, era quasi irriconoscibile. «Oddio, non è la donna di Stefano, è un'altra» pensò. La donna non mosse un passo, non fece un gesto. Ottavio si fermò un attimo prima di andare verso di lei. Le si fermò davanti. Gli sembrò stupido chiederle; «Come va? Come stai?» Idiozie per gente senza problemi. «Eccomi qui». Le disse e voleva dire:
«Sono venuto apposta per te, perché voglio aiutarti, e lo voglio fare per te e per il bambino, se vuoi». E c'era anche: «Mi sei piaciuta sempre e t'ho sognata... sognata... sognata...».
Lei non mosse un muscolo. Ottavio la prese per un braccio e la scosse leggermente: «Adesso andiamo al mercato insieme e parliamo».
«No».
«E invece sì». La forzò a muoversi per il mercato e la gente vide l'uomo grande e grosso con i pantaloni di velluto marrone a coste e la giaccona di fustagno che camminava con quella povera Luisa: «Avete visto la figlia del Filippi, quella incinta? Ma avete visto con chi è? Lui è il fratello di Stefano». «L'Ottavio, dai!» «Ma è proprio l'Ottavio». «È un giovane a posto l'Ottavio. sarà venuto per vedere come stanno le cose, un po' di soldi magari...» Così le voci del mercato ciarlavano. Nessuno sapeva che Ottavio, mentre salutava i conoscenti, sempre tenendo stretta la Luisa come per paura che gli scappasse, pensava e pensava. Alla fine si fermò vicino al bancone delle granaglie e disse alla Luisa: «Tu vieni alla cascina».
«No».
«Tu vieni a casa da mia madre, è suo nipote che deve nascere. Vieni a casa nostra».
«No»
«Luisa, io ti sposo». La donna tremò così forte che per poco non cadde. Lui la tenne su.
«Perché?»
«Perché t'ho sognata». Era il massimo per Ottavio.
«Perché?»
«Perché sì. Da quando ci siamo parlati alla malga, t'ho sognata e quanto a Stefano...»
«No, non voglio...»
«D'accordo, vai a prendere le tue cose, torniamo a casa, ci sposiamo, se vuoi: non sono come mio fratello e lo sai e questo è il discorso più lungo che ho mai fatto e non lascerò mai la valle: questo lo devi sapere».
La guardò e la vide sorridere appena. Aveva il ventre già gonfio per il figlio che sarebbe nato a primavera. Ottavio allentò la stretta quasi per vedere se sarebbe fuggita o no. «La corriera è alle tre. Ti aspetto davanti alla chiesa. Ci verrai?».
La Luisa non disse nulla, né sì, né no. Solo si strinse lo scialle più stretto attorno alle spalle. Rimase un attimo immobile, poi si voltò e si allontanò. Ottavio rimase piantato in mezzo alla strada. Non sapeva che cosa pensare. Non poteva impedirsi di paragonare la Luisa di oggi a quella di Stefano. Aveva perso di lucentezza, di gioventù, non solo per gli abiti tanto diversi che l'avevano fatta sembrare una di città, ma per il modo di guardare ora così fisso, per il modo di camminare, ma forse era per il bambino... realizzò di colpo che l'aveva chiesta in moglie, quella donna estranea che pure aveva sentito e sentiva tanto vicina, pensò alla madre, a quello che avrebbe detto quando l'avesse visto arrivare con lei, se pure lei fosse venuta.
Aveva due ore da far passare prima della corriera e doveva togliersi dalla strada, ormai la gente lo guardava incuriosita: sembrava un albero piantato in un prato con tante galline chioccianti attorno. Girò dietro le case, dove un muro limitava la borgata; sotto si stendevano i campi coltivati.
Si appoggiò al muro e guardò giù e lui che quasi mai aveva pensato all'amore per una donna, si trovò a pensarci. Amore, passione, volersi bene, vivere insieme, invecchiare insieme. Si sentiva confuso. Di certo sapeva che la Luisa l'aveva colpito la prima volta, l'aveva sentita capace di capire le cose che per lui erano importanti, forse di goderle come lui le godeva. L'amava? Oddio. «Non lo so». Sentiva di certo di volerle bene, di voler provare a darle quel suo bene, ma non sapeva se questo era amore. Non si domandò se e che cosa la Luisa potesse mai provare per lui.
Alle tre la corriera arrivò e della Luisa nessuna traccia.
«Non viene» si disse deluso. Quando la gente incominciò a salire, Ottavio rimase indietro, ad aspettare fino all'ultimo e all'ultimo la vide. Era vicino alla chiesa, anzi ne era appena uscita. Aveva una valigia con sé. La chiamò, gridò all'autista: «Un momento!» Le andò incontro, le prese la valigia, la fece salire sulla corriera. Si sedettero e Ottavio fece i biglietti.
«Arriveremo a casa tardi» disse. La Luisa stava piangendo. Ottavio si sentì inutile.
 
***
 
Agnese La Guardia aveva acceso un gran fuoco nel camino e la cucina era calda ed accogliente. Aveva anche preparato una zuppa calda per quando Ottavio fosse tornato. Il Toni aveva già cenato e se n'era andato a dormire. Agnese guardava il fuoco, gran lingue lucenti levate contro il nero del camino e scintille, scintille senza fine, mentre smuoveva le braci ardenti del fondo con la punta dell'attizzatoio scurito dal tempo. Il tempo. Gran scherzo giocava il tempo, gran giostra era la vita. Da giovane donna era solita vedere figure nell'agitarsi delle fiamme, figure dai morbidi contorni sfumanti: ora non vi vedeva più niente, non c'era più niente da vedere: agitò forte l'attizzatoio, una nuvola di rosse scintille si alzò, brillò e scomparve. «C'era una volta...» Le tornavano alla mente le fiabe che le avevano raccontato da bambina, le favole delle montagne, di alberi parlanti, di gnomi benevoli, di stelle cadenti, di regine di neve e di ghiaccio, le stesse che lei aveva raccontato ai figli bambini e filastrocche lunghe e senza senso che aveva cantilenato per loro al tramonto. Ogni filastrocca le tornava alla mente e i volti dei figli piccini e sentì Luigi chiamare: «Agnese», forte. L'attizzatoio le sfuggì di mano e rimase un attimo come sospesa, dolente, ma non spaventata né sorpresa. Non ci fu più nulla a cui pensare per Agnese La Guardia: il suo tempo s'era concluso e fuori dalla sua casa, sui suoi campi, sui suoi monti la neve cadeva a ricoprire la valle.
 
S'infittiva mentre Ottavio e la Luisa salivano verso la casa. Lui portava la valigia della donna. La tenne per il braccio, quando s'accorse che scivolava. Non c'erano lacrime negli occhi della Luisa. Mentre Ottavio apriva la porta della cascina, ella si fermò prima d'entrare, un momento solo, e guardò nell'oscurità i fiocchi bianchi contro il lucore del cielo di neve, si mise la mano sul ventre, ché suo figlio, un La Guardia, si muoveva dentro di lei.
 
 
"Dedicato a un uomo che nella vecchiezza, nella malattia e con la morte seppe esprimere tutto l'amore che provava per la vita: dedicato a mio padre."

Si è classificata 1° al concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. narrativa.
Si è classificata 6a p.m. nel concorso Marguerite Yourcenar 1996, sez. poesia.
Si è classificata 8° nel concorso Il Club dei poeti 1997, sez. poesia.
 
Si è classificata 1° al concorso Città di Orzinuovi 1998, sez. narrativa.
 
 
Daniela Manzini Kuschnig vi offre la lettura
di due racconti:
"A passeggio fra le nuvole"
"Le cose"
 
 
Per leggere il romanzo inedito "Farfalle"
 
Per leggere la prefazione del libro con "Incontri"
Per leggere la prefazione del libro con "Con ali raccolte"
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