STORIA DI GIUDITTA
               
                
               
               Giuditta vedeva il cielo dal balcone dell'unica
               stanza ancora abitabile della sua casa paterna. Stesa
               sopra il pavimento, avvolta in una vecchia coperta,
               non sembrava avvertire la durezza del pavimento
               né il freddo della mattina incipiente. Rimaneva
               immobile, come schiacciata dai suoi pensieri. I
               ricordi l'assaltavano e la molestavano come una
               moltitudine di mosche nonostante cercasse di non
               pensare, d'identificarsi in quell'istante che non
               torna più, quell'istante di annullamento di se
               stessa dopo una vita convulsa e caotica.
               
               Le avevano detto, semplicemente e senza nessun giro
               di parole, che le rimanevano solo pochi mesi di vita o
               forse un anno. L'impatto era stato tremendo. Che fare?
               Era sola, nonostante alcuni amici di circostanza, era
               sola in un mondo che improvvisamente le si rivelava
               come ostile e limitato.
               
               Tornare a casa, soltanto questo le venne in mente.
               Tornare indietro per cercare nel tempo passato, il
               coraggio di affrontare un presente inevitabile.
               Lì sperava di trovare la forza per affrontare
               l'altra faccia della sua esistenza. Ora però
               era viva ancora. Si sentiva viva e piena di desideri
               in quel suo corpo giovane e ardente; si sentiva parte
               della vita nel contatto con l'aria fresca della
               mattina, il cui chiarore appariva con aria trionfante
               dietro le montagne nelle tante mattine uguali. Con lei
               e senza di lei. Si sentiva viva nel piacere di toccare
               il pavimento e di sentirlo duro sotto il caldo palmo
               della sua mano.
               
               La sua casa paterna, costruita nella falda di una
               montagna, era tutto ciò che le rimaneva, tutto
               ciò che la legava alla sua infanzia e alla sua
               adolescenza: uno splendido e tenero passato
               cristallizzato con il tempo e immagazzinato nella sua
               mente. Fino a quando la città, con tutte le sue
               promesse e le lusinghe delle esperienze da fare, per
               vivere pienamente, le aveva sviluppato quella
               maledetta frenesia che con il tempo le aveva consumato
               il corpo e lo spirito. Era tornata così nella
               sua casa ed era frastornata al pensiero di cercare un
               modo per chiudere il cerchio della sua vita ora che
               era piena solo di ricordi, ombre degli anni nelle
               pagine bianche della vita.
               
               "Abbi cura, cerca di non sporcarti. Almeno
               oggi...". La voce di sua madre la segue mentre lei si
               allontana per la stradina che porta alla piazza grande
               della sua cittadina. Oggi è un giorno
               importante nella sua vita di ragazzina. Ha fatto la
               prima comunione. Sebbene non si renda conto della
               solennità del giorno che le tocca vivere, nota
               nel bianco del suo vestito di seta, che c'è
               qualcosa di nuovo nella sua vita. Un giorno da
               ricordare. "Devo essere buona oggi...". Giuditta era
               quasi sempre buona e comprensiva, però era
               testarda come pochi ed aveva quella caparbietà
               che a volte le dava un'aria di... disubbidiente.
               Però oggi, no. Oggi si sarebbe comportata bene,
               ma proprio bene. Giuditta cammina con la testa eretta,
               con aria altera, portando chiusi dentro di sé i
               pensieri di una bambina, con il suo vestitito di seta
               bianca, le scarpe anch'esse bianche ed una borsetta di
               merletti, naturalmente bianca, dalla quale spunta un
               fazzolettino... Sì, in verità, Giuditta
               era l'immagine stessa della purezza. Ed era decisa a
               comportarsi bene, come una signorina, anche se non era
               esattamente una signorina dato che aveva appena dieci
               anni.
               
               Improvvisamente le sembrò di udire come un
               miagolìo di un gatto in difficoltà, e
               questo la allontanò immediatamente da tutti i
               suoi buoni propositi. Un branco di bravacci,
               più piccoli di lei, stava torturando un gattino
               così piccolo che appena si potevano udire i
               suoi lamenti.
               
               Il senso di protezione verso i più deboli
               che era molto sviluppato in Giuditta, fece sì
               che si lanciasse furiosa contro il gruppo di monelli
               malvagi ai quali dovette apparire come l'Arcangelo
               Gabriele con tanto di spada sguainata, poiché
               si diedero tutti alla fuga gridando anche se le loro
               grida furono superate abbondantemente da quelle di
               Giuditta. S'inchinò, raccolse il gattino,
               spaventato e dolente, si strinse a lei con le poche
               forze che gli erano rimaste, strappandole e
               insudiciandole così il suo candido vestito. Era
               così sporco di fango che Giuditta tirò
               fuori dalla sua borsetta il fazzolettino bianco di
               merletto per ripulirlo un poco. Però fu
               inutile. Ebbe allora una idea luminosa: decise che
               doveva lavarlo e afferratolo per la collottola, lo
               mise sotto il getto d'acqua di una fonte che sgorgava
               nel mezzo della piazza. A questo punto, il povero
               animale, che doveva avere raggiunto il massimo della
               sopportazione, fece sforzi sovrumani per liberarsi e
               dopo averle morso e graffiato una mano, si
               allontanò correndo a morire in santa pace, il
               più lontano possibile dagli esseri umani. Come
               Giuditta apprenderà più avanti nella sua
               vita, gli uomini hanno, a volte, molto poco di
               umano.
               
               In ogni modo Giuditta ci rimase male e
               interpretò la fuga del gattino come un affronto
               personale. Tornò a casa piangendo e rassegnata
               ai rimproveri inevitabili di sua madre: "Aspetta solo
               che veda in quale stato pietoso hai ridotto il
               vestito." si diceva Giuditta. Però non successe
               niente di ciò che temeva. La madre capì:
               in verità quasi sempre comprendeva. Ancora una
               volta comprese che sua figlia aveva il cuore
               più grande del cervello e che, mano mano che
               cresceva, la sua sensibilità le avrebbe
               complicato la vita. Preferì non spiegarle che a
               volte è meglio evitare situazioni sgradevoli.
               La madre non aveva le idee molto chiare su ciò
               che si deve fare e ciò che è preferibile
               evitare. Fu per questo, sapendo che sua figlia era una
               creatura molto buona, che non fece nessun
               commento.
               
               Fu un bene o fu un male? Fu in ogni modo una
               occasione perduta perché Giuditta apprendesse
               alcuni aspetti della vita, qualcosa che più
               tardi la vita le avrebbe insegnato con una mano
               più dura e pesante.
               
               Giuditta si era già dimentica della sorte
               del gattino (oh, meraviglioso periodo dell'innocenza)
               e stava giocando con il suo cane, vestita con un paio
               di pantaloni che non la obbligavano ad avere cura di
               non sporcarsi. Lei aveva un cuore troppo tenero e una
               fantasia molto sviluppata: era fatale che dovesse
               soffrire. Come, per esempio, le successe con Riccardo.
               Lui poteva avere quattordici anni, lei appena dodici.
               Lei aveva la testolina piena di sogni romantici, lui
               aveva la testa piena di racconti erotici. Un giorno si
               trovarono soli e lui si comportò in modo
               prepotente. Prima che Giuditta potesse rendersi conto
               delle sue intenzioni, questi l'afferrò per la
               vita e la baciò. Un bacio vero, sulla bocca. Oh
               Dio! Una cosa che la farebbe ridere oggi, però
               in quel momento, che schifo! Sì, Giuditta
               sentì un vero ribrezzo, fuggì dritta a
               casa sua e mise la testa sotto il cuscino. Non pianse
               però. Ricorda solo che rimase rigida e immobile
               come ad aspettare che qualcosa accadesse. Avvertiva
               sopra le sue labbra l'odore di Riccardo, un odore
               stomachevole, di latte in povere e lavanda a buon
               mercato. Fino a quando reagì, andò in
               bagno e si sciacquò la bocca a lungo dopo
               essersi lavata i denti. Poi si fece coraggio, si
               guardò nello specchio e si sorprese di trovarsi
               uguale a prima: come se quella esperienza avesse
               dovuto cambiarla, invecchiarla o per lo meno alterarle
               lo sguardo. In verità, non le era piaciuto quel
               bacio. Proprio per niente. Non era così che si
               era immaginata il suo primo bacio. Si sentì
               defraudata e decise in quell'istante che non avrebbe
               mai più guardato Riccardo in faccia, né
               gli avrebbe rivolto la parola. Finalmente, tirò
               fuori la lingua, fece una smorfia nello specchio e
               uscì dalla camera, sentendosi effettivamente
               più vecchia. Solo dentro se stessa,
               naturalmente. "Ci voglio andare... ci voglio andare...
               e se tu non mi lasci... farò una pazzia!".
               
               Giuditta parlava così a sua madre. In quel
               tempo il mondo era sconvolto dalla guerra sanguinosa
               che imperversava per tutta l'Europa: la seconda guerra
               mondiale. E Giuditta voleva andare in calessino ad un
               villaggio vicino con la sua amica Ninetta e suo padre,
               Don Beniamino, un contadino eccentrico ma molto
               simpatico. Ciò che attraeva Giuditta era
               proprio la ragione opposta che motivava il rifiuto di
               sua madre: il probabile incontro con soldati tedeschi
               (già era passato l'8 di settembre del 1943,
               trattato unilaterale dell'Italia con gli Alleati per
               porre fine alla guerra ed era in atto la conseguente
               occupazione di tutto il territorio italiano da parte
               dell'esercito tedesco) o forse un incontro ancor
               più pericoloso con gli Alleati che avevano il
               dito facile con i mitragliatori. L'una e l'altra
               possibilità offrivano delle emozioni che
               Giuditta con la sua fantasia depurava di qualsiasi
               pericolo. Tutto questo nonostante una volta, in
               un'altra cittadina vicina, aveva sperimentato
               ciò che significava un bombardamento e quante
               vittime poteva procurare. Ma Giuditta viveva nel suo
               mondo di adolescente, un mondo dove manca la
               conoscenza delle cose dolorose della vita. Viveva ogni
               esperienza a fior di pelle, superficialmente, sebbene
               con entusiasmo ed interesse sincero. Inoltre voleva
               andare a spasso col calessino, cosa che non poteva
               fare frequentemente e pertanto non voleva perdere
               l'occasione che le si presentava: guerra o no.
               
               Sua madre però s'impuntò. Fu allora
               che Giuditta decise d'obbligarla a darle il suo
               consenso. Per fare ciò ricorse al ricatto. Era
               inverno e faceva un freddo polare. Quella stessa
               notte, Giuditta si denudò e si chiuse fuori sul
               balcone. Quello stesso balcone dal quale ora vedeva lo
               spuntar del giorno. Era decisa ad ammalarsi per farsi
               dare il famoso permesso. E sua madre ancora una volta
               cedette.
               
               A distanza di tanti anni, Giuditta si domanda:
               "Perché, perché questa sfida? Che cosa
               rappresentava per lei, in quel momento della sua vita,
               quella famosa passeggiata? Forse si trattava solo di
               un capriccio o piuttosto di voler affermare la sua
               volontà, la ribellione alla disciplina, il
               poter seguire il suo istinto, i suoi desideri. Non
               importava ciò che poteva accadere".
               
               La madre perse nuovamente una occasione per
               insegnarle qualcosa che un giorno avrebbe potuto
               servirle nella vita nel suo cammino verso la
               maturità. L' obiettività nelle scelte e
               anche il sapere soppesare ciò che conviene e
               quello che può nuocere.
               
               Erano partiti presto in quella mattina
               particolarmente fredda e gelida. Giuditta era seduta
               tra la sua amica ed il padre di lei. Quella giornata
               trascorse e sparì nell'imbuto del tempo,
               divenne polvere, come tutti gli altri giorni passati e
               futuri.
               
               Tuttavia rimase impresso per sempre dentro di lei
               il piacere che le suscitava il galoppare del cavallo
               ed il rimbalzare del calessino sopra la strada non
               asfaltata, il freddo che le tagliava la faccia ma
               paradossalmente era gradevole perché la faceva
               sentire viva e parte della natura. Poi il villaggio
               dove erano andati a comprare il vino, con le sue case
               nuove ed i volti sconosciuti, il vagabondare lento nel
               silenzio della piazza deserta all'ora del pranzo
               quando tutti sono riuniti intorno alla mensa. Si
               potevano vedere solo alcune galline e asini aggirarsi
               in libertà nella piazza, così come
               alcune motociclette dei soldati tedeschi, unico
               segnale della presenza della guerra. Al ritorno
               Giuditta cantò con la sua voce forte e chiara,
               mentre i suoi amici sembravano assorti nei loro
               pensieri. O semplicemente dormivano. Fu un ritorno
               tranquillo come in un qualsiasi altro giorno, senza
               guerra. Un giorno, comunque, da ricordare. E mai lo
               dimenticò.
               
               Giuditta aveva vissuto la guerra come una grande
               avventura. Come se non fosse avvenuto lo sterminio
               indiscriminato, le azioni orribili e selvagge, la
               distruzione e la morte. Aveva vissuto la guerra in
               quella età nella quale non si capisce la
               crudeltà umana né quando si scatenano e
               affiorano i più bassi istinti dell'uomo.
               Dovunque. La vita di Giuditta era stata sempre una
               continua attesa: sulla soglia della sua casa. Aveva
               atteso la vita con ansia, rabbia, tenacità,
               caparbietà. L'aveva cercata e incontrata in
               ogni nuovo giorno, in ogni faccia sconosciuta che
               aveva incontrato per la sua strada.
               
               La vita con il suo bagaglio di idee nuove, con le
               relazioni umane, l'aveva vissuta proprio nella sua
               cittadina. Aveva conosciuto e trattato con persone di
               diverse nazionalità che la guerra aveva
               trascinato fino a lei. Tutti avevano qualcosa da farsi
               perdonare: gli stessi italiani non si erano comportati
               molto bene. Giuditta era nata e cresciuta in una
               famiglia piccolo borghese, onorata e buona, dove tutto
               procedeva secondo l'ordine pedante e noioso
               dell'ambiente che lo esigeva anche se era caldo e
               sicuro. Per lei il cambio fu enorme, un cambio che non
               la colse d'improvviso, ma bensì che la
               trasformò poco a poco, facendo di lei una donna
               contrastata tra l'educazione che aveva ricevuto nella
               sua famiglia fino all'adolescenza e la donna che
               divenne dopo. Una donna aperta ai cambiamenti anche se
               si rendeva conto che la verità apparteneva al
               dopo.
               
               Ricordava Giuditta e tremava, forse per il freddo
               della mattina o per quei ricordi che la riportavano
               indietro, lontana nel tempo, come se stesse cadendo in
               un abisso senza fine. Sempre più rapidamente. E
               le venivano le vertigini...
               
               Sudava freddo, però non si muoveva. Rimaneva
               immobile con gli occhi aperti guardando verso il
               cielo, però non vedeva il cielo tingersi di
               colori sempre più forti anzi sembrava che il
               sole non volesse affacciarsi per non molestarla. Lei
               continuava a rimanere nel suo stato d'animo, tra la
               realtà e il sogno, rivivendo il tempo di quando
               era più giovane. E sana.
               
               Era alto Tom, con i capelli color carota e tante
               efelidi disperse su di una faccia simpatica dove
               dominavano un paio di occhi verdi bellissimi. E
               Giuditta si era innamorata quando lo aveva visto,
               seduto ai piedi del monumento nella piazza principale
               della sua cittadina, con il volto illuminato dal sole
               mentre osservava interessato il passaggio della gente
               locale, cosa che doveva risultargli molto
               interessante. Era un soldato nordamericano. Thomas
               Mullins della Quinta Armata. Era giovane, bello e
               sano. E Giuditta aveva sentito per la prima volta
               nella sua giovane vita una rara angustia stringerle il
               cuore.
               
               Lei aveva sedici anni e come la canzone dice "not
               yet been kissed" (non baciata ancora). Fu una
               relazione che durò solo pochi giorni
               poiché quella stessa guerra che li aveva fatti
               incontrare, li separò immediatamente. Ci fu una
               cena di commiato, dato che la Quinta Armata si
               allontanava dalla zona di Roma verso altri lidi. Ad
               altre lotte. Si mangiò, si bevve vino, si
               raccontarono barzellette e si scherzò. Si rise
               in quella notte come se ne sarebbero seguite tante
               altre, allegri e felici. Senza nessuna
               preoccupazione.
               
               La notte passò ma Giuditta non
               dimenticò. Né potrà mai
               dimenticare il bacio gentile e lieve che le diede Tom,
               ai piedi della scala di casa, prima che la vita e la
               guerra se lo portassero via per sempre. Forse fu il
               bacio meno appassionato che mai diedero a Giuditta,
               tuttavia, nessun altro bacio seppe darle quella
               sensazione di piacere, di turbamento e di agitazione
               che dentro di lei il bacio di Tom. Mai fu tanto vicina
               a comprendere l'amore. Però Tom non era che
               un'ombra anche se rimase per sempre dentro di lei, nei
               suoi pensieri, nei suoi sentimenti, nei suoi desideri
               più intimi: per tutto il resto della sua vita.
               Il pensiero della morte era ancora separato da lei,
               come si trattasse di qualcosa senza consistenza, senza
               principio né fine.
               
               Aveva dato l'esame del terzo anno di tedesco alla
               facoltà di lingue dell'università di
               Napoli. Un esame importante per la sua carriera.
               Giuditta osservò con apprensione la testa
               bionda dell'assistente mentre, in piedi, aspettava che
               le scrivesse la nota nel suo libretto.
               
               Giuditta pensava di avere risposto bene a tutte le
               domande che le aveva fatto il professore e che il suo
               tedesco non fosse tanto male dopo tutto. Tuttavia,
               quando l'assistente le chiese con voce fredda e
               distante: "Scusi, lei non è mai caduta?"
               Giuditta pensò che l'assistente le stava
               domandando, con aria severa, se non fosse un po'
               stordita come conseguenza di una caduta e come aveva
               osato presentarsi ad un esame così importante
               non essendo pronta... Come se si fosse trattato di uno
               scherzo e non di un esame serio, che le aveva
               procurato anche un gran mal di stomaco, le uscì
               dalla bocca un tremulo no. In quell'esame ebbe un
               trenta (voto massimo). E quella non fu una occasione
               perduta. Però tante altre volte, quella su
               maniera di distorcere, d'interpretare falsamente la
               verità, aveva fatto sì che lei stessa
               chiudesse la porta davanti alla buona sorte o facesse
               naufragare nel nulla la possibilità di un
               destino migliore per la sua vita.
               
               Quel suo andare a conclusioni sbagliate, quel suo
               voler vedere l'offesa o il dubbio quando invece si
               trattava di un complimento sincero o solo di una
               semplice domanda. La fantasia di Giuditta non
               conosceva limiti. Negativa su tutta la linea. Sempre.
               Vedeva nuovamente il volto asettico dell'assistente
               mentre le comunicava il voto ottenuto con aria assente
               e disinteressata. Non aveva capito niente e neanche
               intuito il dramma che Giuditta aveva vissuto in quei
               pochi secondi.
               
               Ricordi vivi che come le emozioni che li
               motivavano, erano intatti, pronti a risorgere con il
               loro odore di naftalina, per presentarsi con tutto il
               loro peso, come fantasmi amici, come se il tempo li
               avesse purificati togliendogli di dosso tutte le
               scorie e lasciandoli integri e profondamente
               radicati.
               
               Le immagini la opprimevano. Pensieri, ricordi,
               sentimenti, tutti ingredienti del mondo dei vivi.
               
               Giuditta si rese conto tardi dell'importanza del
               sesso. Il mondo (quante volte glielo avevano detto)
               gira esclusivamente intorno al sesso. Stringi,
               stringi, tutto si riduce al sesso, dovunque si guardi,
               tutto fa direttamente o indirettamente riferimento al
               sesso.
               
               Giuditta era andata a ballare con un amico, un
               ragazzo simpatico e suo amico da anni. Così
               dopo il ballo, le sembrò una cosa naturale il
               passaggio in "Vespa" verso un posto fresco del bosco
               in un luogo lontano da occhi indiscreti. Per un bacio.
               Del bacio Giuditta ricorda solo un sapore di
               trifoglio. Ciò che non aveva scordato era
               "qualcosa" duro che aveva sentito comprimerle il
               ventre, senza nessuna cattiva intenzione da parte
               dell'amico, ma una conseguenza logica del ballo, del
               posto nel bosco e del bacio.
               
               A lei non piacque né d'altra parte la
               scosse. Non era ancora arrivato per lei il tempo di
               quelle relazioni che, come dice la gente, governano il
               mondo.
               
               Il terremoto scatenato dalla guerra era terminato.
               La terra e la sua popolazione sperimentavano le ultime
               scosse di assestamento. Giuditta era passata dal
               periodo tumultuoso della deflagrazione a quello
               rumoroso della pace come se avesse cambiato casa. Non
               era turbata, solo eccitata e desiderosa di apprendere
               e capire. Soprattutto vivere.
               
               La guerra con tutto il suo carico di sangue, dolori
               e immoralità che aveva trascinato con
               sé, oltre ad abusi e vessazioni, non avevano
               disincantato Giuditta.
               
               Piuttosto, come a molti altri adolescenti della sua
               generazione, la maledetta guerra aveva aperto non una
               finestra bensì una porta alla vita. Le aveva
               tolto di dosso le scorie informi della sua
               inesperienza per fare di lei una creatura libera ed
               aperta a tutti i problemi. Aveva fatto di lei una
               persona vitale, un essere pronto a ricevere, sebbene
               non sempre disposta ad accettare una idea qualsiasi.
               Era un miscuglio disordinato di sensazioni, sentimenti
               e nozioni anche se un po' superficiali. Aveva
               cominciato a pensare e riflettere.
               
               La sua estrema sensibilità o forse la sua
               maniera "romantica" di vedere la vita a soli diciotto
               anni dopo una educazione piccolo-borghese in netto
               contrasto con il suo mondo più intimo di idee
               ribelli e nebulose, l'aveva portata spesso a sbagliare
               o aveva impedito che il suo carattere si sviluppasse
               secondo una logica normale e armoniosa.
               
               Giuditta non sa ancora, dopo tanti anni, se fu un
               bene o un male: particolarmente adesso che deve
               affrontare l'ultima tappa della sua esistenza. Tutto
               sommato, le sembra che la vita, vissuta
               impetuosamente, non l'abbia defraudata. Aveva vissuto
               e non era forse questo ciò che più aveva
               desiderato? In ogni modo in quel periodo ancora non
               riusciva a capire molte cose, nonostante avesse
               vissuto l'orrore della guerra senza comprenderla del
               tutto, conobbe anche, per la prima volta nella sua
               vita, lo spettro del razzismo.
               
               Un ragazzo che sembrava essere innamorato di lei,
               quando seppe che si chiamava Giuditta, le chiese in
               modo decisamente brutale: "Però non sarai
               ebrea, per caso?". A una domanda formulata in un modo
               così diretto, lei avrebbe dovuto rispondere con
               un sì o un no. A Giuditta non era mai passato
               per la mente di pensare alla differenza di razza o di
               religione, e sentì come una avvisaglia nel
               fondo del suo cuore. Fu come se si fosse accesa una
               luce nella profonda oscurità del suo
               subcosciente. La sua mente non reagì subito, il
               suo cuore sì. Non rispose. Si limitò
               solo a guardare il ragazzo negli occhi.
               
               Giuditta non sa se fu un bene o un male. E' un bene
               conoscere l'ingiustizia che governa questo nostro
               mondo? E' salutare mettere in discussione valori
               fondamentali che mai prima di allora erano stati messi
               sotto processo? Che Dio ci protegga! Le sembra di
               udire la voce di una sua vecchia zia, timorata di Dio,
               alla quale aveva voluto un gran bene. Questi valori
               umani le si presentavano ora da un nuovo punto di
               vista in tutta la loro miseria umana: criteri che
               erano stati accettati supinamente nel passato, senza
               mai sottoporli a giudizio, e ora apparivano totalmente
               negativi?
               
               Improvvisamente tutto diventa chiaro e prende
               forma. Forse per quel senso di auto-conservazione, ci
               chiudiamo in noi stessi, ci mettiamo gli occhiali neri
               o peggio ancora chiudiamo addirittura gli occhi per
               non vedere le cose come veramente sono, per non
               guardare le cose e fatti che ci feriscono e ci fanno
               soffrire?
               
               Da quando Giuditta aveva cominciato a fare i primi
               passi nella comprensione delle relazioni umane, era
               come se stesse passando dalla cecità alla luce,
               però non vedeva ancora i profili esterni dei
               fatti. La realtà aveva tante facce, tanti
               aspetti diversi, e Giuditta, nella sua ansia di capire
               e di essere giusta nei suoi giudizi, aveva finito per
               giustificare tutto e tutti. Sdoppiandosi in due
               personalità permanentemente contrastanti,
               riusciva a vedere le diverse facce della stessa
               realtà fino a quando la confusione si faceva
               così pesante che diventava quasi impossibile da
               sopportare e si sentiva come impazzire. E non se ne
               rendeva conto.
               
               Quando aveva cominciato ad avere idee, a formulare
               giudizi, a incamerare criteri? Quando qualcuno aveva
               impresso delle idee nella sua mente, idee forti e
               precise, senza nessuna finzione? Giuditta cercava di
               mettere a fuoco i ricordi, però le immagini le
               risultavano sfocate ed imprecise. Improvvisamente,
               chissà da quale angolo nascosto della sua
               mente, apparirono tutti insieme, gli amici della sua
               adolescenza. Aveva ventitré anni. Le aprirono
               la mente con un taglio di bisturi, senza pietà,
               però con grande amore. Sergio, un pittore di
               nazionalità argentina, Antonio e Marco entrambi
               aspiranti attori ed il più importante di tutti
               per la sua trasformazione spirituale: Lucio, lo
               scrittore. Giuditta aprì le braccia, non sapeva
               se per abbracciarli o per respingerli, come se fossero
               parte di un incubo. Rappresentavano una parte
               importante e decisiva della sua vita. E le doleva,
               quasi fisicamente, tornare a rivivere quel periodo.
               Paura dei ricordi. A volte succede.
               
               Era tornata a vivere dopo un parto lungo e
               laborioso. Finalmente aveva capito come andava il
               mondo. Ripensò alle risposte a tante domande
               che nel passato l'avevano tormentata e che aveva
               accantonato, per pigrizia mentale e a causa del vuoto
               nel quale si agitava. Un vuoto culturale, nonostante i
               suoi studi, evidentemente superficiali e le sue
               letture che dovevano essere state casuali e
               disordinate. Né lo studio né la lettura
               sembravano esserle serviti per capire come
               funzionavano le regole del gioco in questo nostro
               mondo.
               
               S'innamorò di Antonio però cedette a
               Marco, che era un ragazzo geniale, intelligente e
               molto persuasivo. Lo aveva accettato forse senza
               troppo entusiasmo, decisa a trasformarsi in una donna.
               Aveva venticinque anni. Non si pentì mai di
               ciò che fece, piuttosto della mancanza di
               coraggio nell'affrontare certe situazioni o per le
               occasioni perdute soltanto perché non si era
               impegnata a coglierle. Solo per quelle le era rimasto
               un sapore amaro in bocca.
               
               Ora le tornavano alla memoria le occasioni non
               accettate, a volte, solo per un senso di
               dignità o caparbietà e anche le
               esperienze evitate che invece avrebbero potuto
               cambiarle la vita integralmente.
               
               Il suo carattere intessuto d'incredulità e
               fatalismo l'aveva inchiodata nel suo sentiero, nei
               suoi propri binari (le venivano alla memoria i versi
               di A. Machado "Camminante, non c'è cammino, si
               fa il cammino all'andare..."). I baci dati alla
               persona sbagliata e rifiutati a quella giusta, per uno
               stupido orgoglio. Errori, sbagli.. quanti !.
               Però si vive sbagliando e tutti commettiamo
               errori: forse era una filosofia a buon mercato,
               però la sua vita avrebbe potuto svilupparsi in
               modo più monotono. Tutto le era servito per
               imparare ad apprezzare il fatto di essere viva, ogni
               ora di ogni giorno, anche quando il dolore e la
               disperazione si erano uniti contro di lei.
               
               Giuditta amava il suo prossimo, anche con le sue
               debolezze, con le sue meschinità che a volte
               apparivano sordide e brutali, con le sue
               manifestazioni di egoismo, con la sua vigliaccheria,
               perfino nella sua avidità: tutti aspetti
               terribilmente umani che aveva rilevato poco a
               poco.
               
               Nonostante le varie attitudini, quasi tutte
               negative, di molti esseri umani (forse la maggior
               parte) riusciva a identificarsi con loro,
               perché anche lei era un essere umano. Anche lei
               aveva dovuto lottare contro gli stessi mostri e non
               sempre era riuscita a vincerli.
               
               Le idee di Lucio erano idee forti per qualcuno
               forte e lei era debole. Fu per questo che ebbe paura.
               E finì per rinchiudersi in sé stessa con
               queste verità tanto pesanti da sopportare e
               difficili da concretizzare.
               
               Anni giovanili, anni duri, densi di problemi e
               pertanto anni di vita intensa e grande
               vitalità. Ora tutto questo le sembrava lontano,
               evanescente e torbido come una macchia di colore senza
               contorni. Ora che doveva affrontare il suo ultimo
               problema: come separarsi della vita senza rinnegarla
               né minimizzarla, senza ridurne i confini,
               né chiudere gli occhi davanti alle
               verità che era riuscita a riunire attraverso
               anni di sforzi e di lotte. Voleva morire cosciente. Ci
               sarebbe riuscita?
               
               Aveva accettato tutto dalla vita: sentimenti
               violenti, sensazioni di paura, umiliazioni, fallimento
               e successo: tutto con la stessa dose di
               serenità (Kipling docet). Soprattutto con
               disaffezione. Ed ora doveva dire addio a tutto e a
               tutti. Come avrebbe potuto farlo, lei che era ancora
               giovane e che aveva tante cose da dire e da fare.
               Tuttavia, erano state sufficienti poche parole e tutto
               era crollato.
               
               "Bisogna essere coraggiosi...". Facile a dirsi,
               difficile esserlo.
               
               In ogni caso Giuditta si consolava nel sapere e
               conoscere ciò che occorreva e quando. Sapeva
               che aveva ancora, più o meno, un anno di vita.
               Voleva, doveva organizzare quest'anno, questo prezioso
               e meraviglioso anno. Quanta gente moriva
               improvvisamente a qualsiasi età, senza neanche
               avere il tempo di congedarsi dai suoi. Lei sapeva e
               poteva approfittare di questo breve periodo di tempo
               che le rimaneva. Ciononostante, aveva rinunciato alle
               sue amicizie recenti e passate per tornare nella sua
               cittadina natale, dove i suoi amici d'infanzia e
               dell'adolescenza dovevano essersi trasformati, dopo
               tanto tempo, in estranei.
               
               Che cosa cercava in quelle montagne, quelle stesse
               montagne che anni prima le avevano dato l'impressione
               di soffocarla? Forse era il desiderio di stare da sola
               con sé stessa o l'illusione di poter tornare ad
               incontrarsi con la sua gioventù e la
               verginità del suo carattere o la speranza che
               lì il tempo passasse più lento... O
               forse solo perché non voleva la pietà o
               la compassione dei suoi amici.
               
               Ma forse aveva solo bisogno di tempo per pensare e
               riflettere. Perché la morte non la cogliesse di
               sorpresa.
               
               E lì come fosse crocifissa. Esanime, con le
               braccia stese e le gambe aperte, una grande bocca nera
               che gocciola sangue e materia, gli occhi sbarrati in
               uno sguardo fisso, terribile... Non insulta più
               le infermiere: non ha occhi che per l'orologio che
               segna lento e inesorabile i minuti. I dottori hanno
               detto che se la "cosa" esce presto, la paziente si
               salverà. I dottori sanno quanto soffra.
               
               Si trattava della sorte tra la madre o il
               bebè. Ma dato che il cuore del piccolo non si
               sentiva più battere e ormai doveva essere
               morto, allora si salvò la madre.
               
               Che cosa si poteva fare per quella povera donna?
               Giuditta stava facendo un corso per infermiera e le si
               avvicinò. Fece per accarezzarle la fronte, ma
               lo sguardo pieno d'odio che le lanciò la donna,
               la immobilizzò. Capì in quel momento che
               era troppo debole, troppo sensibile al male altrui,
               per occuparsi dei malati. Aveva desiderato poter avere
               cura del corpo del suo prossimo, però chi si
               sarebbe preso cura di lei? Si rese conto che avrebbe
               finito per identificarsi con ognuno dei malati, con
               ogni malattia. No, forse, sarebbe stato meglio
               aiutarlo psichicamente, dato che a volte, salvando il
               corpo s'infligge una ferita profonda ed insanabile
               allo spirito.
               
               Lo aveva amato. Aveva sofferto per lui di gelosia,
               di rancore,
               
               di paura, d'angustia. Una angustia sottile, che le
               faceva male dentro. Era stato la sua vita stessa. Per
               lui aveva cercato di morire. Ed ora dopo tanta
               sofferenza, finalmente si rendeva conto che si era
               trattato di attimi che già si erano diluiti nel
               niente, non lasciando alcuna traccia. Quasi le veniva
               voglia di sorridere pensando che, a volte, si vivono
               situazioni che ti portano alla pazzia, rubano momenti
               preziosi della nostra vita, ci torturano, ci spezzano
               e ci spingono come ciechi verso la distruzione di noi
               stessi... il suicidio. Poi passa il tempo e tutto si
               dimentica e si trasforma.
               
               Giuditta sorride nel suo dormiveglia, sorride
               perché quel dolore antico le riscalda
               paradossalmente il cuore. Ora che potrebbe finalmente
               sentirsi serena perché ha superato l'epoca
               degli amori difficili, delle relazioni impossibili,
               delle rincorse per conseguire il niente, dell'inutile
               molestarsi inconcludente, ora che potrebbe tornare ad
               incontrarsi con se stessa, nella pace dei sensi. Ora
               è troppo tardi.
               
               Il sole era già alto dietro le montagne
               quando Giuditta aprì finalmente gli occhi.
               Qualcosa l'aveva svegliata. In un primo momento non si
               rese conto dove stava. Avvertì il freddo che le
               saliva per il corpo dal pavimento, si guardò
               intorno e prese coscienza del suo stato, della sua
               realtà. Si mise a piangere. Lacrime leggere
               dapprima, poi un forte pianto amaro, di paura e
               disperazione. Ciò che l'aveva svegliata era la
               voce di qualcuno che stava gridando il suo nome. Un
               voce di bambino. Si alzò trascinandosi sopra le
               ginocchia, dato che la prolungata posizione notturna
               le aveva tolto le forze. La porta della casa si
               aprì lentamente e vide apparirle un ragazzino
               di dieci anni, vestito poveramente, con in mano una
               bottiglia piena di un liquido che aveva tutto
               l'aspetto del latte. Era latte. Giuditta lo
               guardò cercando di ritrovare nella sua memoria
               quegli splendidi occhi verdi che la fissavano, senza
               curiosità. Con franchezza e naturalità.
               Come se lei non fosse una estranea per lui. Fu lui a
               parlare per primo: "Mi chiamo Franco e sono il figlio
               di Monica, la figlia della vecchia Maria, sua vicina.
               Mia nonna mi ha chiesto di portarle questa bottiglia
               di latte e di chiederle se ha bisogno di qualcosa. Io
               la posso aiutare".
               
               Giuditta si passò una mano sugli occhi come
               per vedere meglio, ma fu solo un gesto di nervosismo.
               Perché improvvisamente le era parso vedere
               Monica, una sua compagna di scuola e buona amica ai
               tempi della sua gioventù, così come
               l'aveva vista l'ultima volta: giovane, bionda e con i
               suoi grandi occhi verdi.
               
               "E tua madre, come sta?"
               
               "Mia madre è morta. Io non la conobbi.
               Morì dandomi alla luce."
               
               "E tuo padre ?" "Neanche lui ho conosciuto.
               Emigrò in cerca di lavoro..."
               
               Giuditta rimase silenziosa per alcuni minuti mentre
               Franco continuava a guardarla con una serietà
               negli occhi che contrastava con la sua faccia di
               bambino. Ma il suo silenzio non molestava né
               pesava. Era un silenzio d'attesa. L'attesa di chi non
               è abituato a discutere, bensì ad
               accettare le decisioni degli altri. Improvvisamente
               Giuditta sentì pena per lui.
               
               "Però, Franco, non dovresti essere a scuola
               a quest'ora della mattina?"
               
               "Io non vado a scuola. Mia nonna ha bisogno di me
               in casa."
               
               "Però a te piacerebbe andarci, non è
               vero?"
               
               Franco le diede uno sguardo d'adulto, di bambino
               cresciuto troppo alla svelta, e questa sembrava essere
               una delle sue caratteristiche più salienti.
               
               "Sì, credo che mi piacerebbe imparare a
               leggere e a scrivere, però come dice la nonna,
               uno deve adattarsi a ciò che si ha e
               accontentarsi di ciò che si può ottenere
               onestamente, particolarmente quando si è
               poveri. Per questo, dato che sono solo al mondo e che
               l'unica persona che ha cura di me è lei... se
               lei dice che ha bisogno di me..."
               
               Giuditta non seppe che rispondergli. Sembrava
               giusto ciò che aveva detto. Però lei
               sentì, per la prima volta nella sua vita, una
               voglia pazza di ribellarsi, non per se stessa,
               bensì per gli altri. Una voglia di mettersi a
               gridare per dire che anche Franco aveva diritto di
               migliorare la sua situazione, di progredire come
               qualsiasi essere vivente in questo mondo dove regna un
               egoismo bestiale, un mondo di merda.
               
               Cosa non le passò per la testa in quel
               momento, nello spazio di pochi secondi. Parole pesanti
               e piene d'odio e di rancore. Pensò a se stessa:
               aveva vissuto una vita piena perché si era
               ribellata al destino che la voleva inchiodata
               lì, senza nessuna apparente possibilità
               di via d'uscita e tuttavia era sfuggita alla
               mediocrità di una vita squallida forse
               perché era stato più forte il suo
               desiderio di riscattarsi e di vivere la sua vita
               piuttosto che la paura di confrontarsi con essa. Era
               riuscita a farlo perché aveva potuto studiare:
               i libri, le letture e soprattutto la guerra, la
               maledetta guerra, l'avevano aiutata a maturare sebbene
               si trovasse in mezzo alla violenza. Doveva la sua
               libertà, quella dello spirito e della mente,
               alla caduta fragorosa del vecchio mondo ed alla
               nascita di nuove relazioni umane. Sicuramente doveva
               ammettere che c'era ancora molto da fare perché
               l'umanità potesse raggiungere un più
               alto livello culturale perché la guerra aveva
               portato con sé molto cambiamenti. Questi
               pensieri passarono per la sua mente come le sequenze
               di un film degli anni venti, rapidi e altalenanti, e
               come sempre la lasciarono confusa, senza sapere bene
               come aveva fatto a perdersi nel labirinto delle
               immagini che la sua fantasia aveva disegnato. Come
               sempre le succedeva che un pensiero la deviava per
               altre strade portandola verso altri ricordi e
               sensazioni. Senza binario.
               
               Però l'espressione sulla faccia di Franco la
               portò di nuovo all'inizio dei suoi pensieri:
               ecco un bambino solo al mondo che apparentemente aveva
               bisogno d'aiuto. Non le erano mai piaciuti molto i
               bambini: li considerava fondamentalmente crudeli e con
               poca immaginazione (non si era mai dimenticata del
               giorno della sua prima comunione e del povero
               gattino). Forse perché nella sua vita non aveva
               pensato a nessun altro che non fosse se stessa e non
               si era mai preoccupata di guardarsi intorno e di
               vedere quanta gente aveva bisogno d'aiuto o di una
               semplice spinta per non affondare nella sporcizia che
               giorno dopo giorno gli si accumulava addosso.
               
               Improvvisamente Giuditta si sentì come in
               preda alle vertigini e barcollò. Franco corse
               dal suo lato per soccorrerla. Capì in quel
               momento che entrambi avevano bisogno l'uno
               dell'altro.
               
               "Ascolta, Franco, torna a casa tua e dì a
               tua nonna che più tardi andrò a parlare
               con lei".
               
               Non sapeva bene ciò che voleva fare,
               però già qualcosa si stava delineando
               nella sua mente sempre pronta a gettarsi in nuove
               storie o fare voli con la fantasia. Questa volta
               però era decisa: avrebbe dedicato il suo ultimo
               anno di vita a Franco. Lui aveva bisogno di una madre
               e lei di qualcuno che le occupasse il tempo, la mente,
               lo spirito e il cuore. Qualcuno lassù in alto
               doveva sapere ciò che faceva. Forse non era
               ciò che gli uomini chiamano Dio ma doveva
               esserci qualcosa di superiore. Di nuovo si stava
               perdendo nel marasma dei suoi pensieri e delle sue
               riflessioni e stava andando alla deriva. Forse questa
               volta la sua fantasia si stava materializzando. Spinse
               il bambino fuori e lo vide allontanarsi correndo per
               il sentiero che conduceva a casa sua.
               
               Poi voltandosi per entrare a casa, fissò il
               cartello dove il suo cognome era come nascosto sotto
               un velo di polvere e tirato fuori un fazzolettino lo
               passò sopra per togliere il primo strato di
               sudiciume. Apparì il suo nome anche se non era
               molto leggibile. Era la prova che la casa non era
               più vuota. Era tornata a vivere. Domani e dopo
               domani, che importava il futuro. Era il presente che
               contava. Forse il suo cuore debole avrebbe sopportato
               un'altra stagione. Si sentì improvvisamente
               forte e vitale con molta voglia di fare le cose.
               Tornava ad interessarsi alla vita e questa volta non
               era per pensare a se stessa bensì ad un altro
               essere. Sì, non c'era né passato
               né futuro: solo il presente.
               
               Entrò in casa ripromettendosi di comprare un
               pulitore perché il suo nome tornasse a brillare
               sulla porta della casa come quando i suoi genitori
               erano vivi. Pulì la casa a fondo con l'aiuto di
               Franco, anche perché lei non poteva stancarsi.
               E avrebbe chiesto l'assistenza della nonna o di
               qualsiasi altra persona e avrebbe... avrebbe...
               avrebbe...
               
               Per Dio !.