Rivista Club degli autori n° 139-140
Marzo-Aprile 2004
 
 
Dissertazioni di Pietro Cirillo sulle "regole" della poesia:
4) I generi

In relazione al contenuto, i componimenti poetici, sin dai tempi più antichi, sono schedati in partizioni distinte denominate generi.
Furono i filosofi greci Platone ed Aristotele ad affrontare per primi il problema della classificazione, dettando alla fine le relative conclusioni. Sulla base degli studi intrapresi, che nel I secolo a.C. furono poi accolti e condivisi anche nel mondo latino, tutta la poesia fu compresa in tre settori di ordine generale: poesia lirica, poesia drammatica, poesia epica.
Nella poesia lirica fu stabilito di includere i generi di componimenti di ordine sentimentale e d'intonazione chiaramente soggettiva; nel genere drammatico furono invece annoverati componimenti quali la tragedia, la commedia, la sacra rappresentazione, il dramma pastorale, il melodramma; nella poesia epica, infine, si ritenne opportuno inserire generi poetici di natura eroica, cavalleresca, storica, mitica.
Questa suddivisione rimase valida per lungo tempo anche se, con lo scorrere dei millenni e con l'evolvere delle mode, i confini tra un genere e l'altro divennero labili tanto che si determinarono delle fusioni fra tipi di poetiche similari. Con l'avvento del "romanticismo", si registrarono poi alcune prese di posizione da parte di numerosi critici e poeti che intesero rivendicare il diritto a una libera scelta, circa il settore cui assegnare i componimenti poetici, in un'epoca nella quale i componimenti medesimi venivano prodotti, fra l'altro, con abbondanza notevole. Le conseguenze generate da tali situazioni furono la scomparsa di alcuni generi ed il decadimento o il travisamento di altri. La poesia d'indirizzo didascalico, per esempio, rimase viva solo in pochi autori, tra i quali Pascoli e Gozzano furono i più rappresentativi, e quella d'indirizzo drammatico trovò sfogo quasi esclusivamente, nelle rappresentazioni teatrali.
 
- Il genere lirico. Ebbe i natali nella Grecia antica, in epoca arcaica. Agli inizi era poesia che veniva declamata o cantata durante le feste e i banchetti, con l'accompagnamento della lira. Era caratterizzata dall'espressione diretta dei sentimenti e delle emozioni dell'autore ed è con queste peculiarità che rimase in auge fino e oltre il Medioevo sia nelle letterature occidentali, sia in quelle indiana e dell'Estremo Oriente.
Nel XIII secolo, poi, il genere lirico si arricchì di nuovi spunti, tratti dalla letteratura provenzale e, per quanto più direttamente ci riguarda, acquisì in Italia una maggiore forza espressiva nella scia dello stilnovo e del petrarchismo, modello poetico, quest'ultimo, che tanto successo riscosse in tutta Europa.
Ai fini di quanto intendiamo evidenziare, va poi detto che con il romanticismo si pose in evidenza, in Italia, un indirizzo poetico che mirava ad avvantaggiare tematiche legate all'ineluttabilità del destino, allo scorrere del tempo, alla ricerca dell'assoluto e dell'infinito. A tutto ciò si aggiunga che, nel XX secolo, poeti come Roberto Rebora, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Umberto Saba e tanti altri sostennero la divulgazione di una poesia cruda e, nel tempo stesso, pregnante, concreta e fortemente suggestiva. Un indirizzo che poneva al centro della poetica il mondo moderno, con tutti i suoi problemi, i suoi estremi e le sue contraddizioni. Una poesia in cui "l'io" del poeta rimaneva quasi assente per dare spazio al sensazionalismo. È poi da tenere presente che critica e stampa, quasi concordemente, contrassegnarono detta poesia con l'etichetta di lirica, ma che tale non poteva essere definita se ci poniamo a considerarla sulla base delle indicazioni aristoteliche.
A sostegno di quanto stiamo affermando, proviamo ad esporre alcuni versi d'autori vari nei quali, a nostro avviso, il tono lirico ci appare distante da quello anticamente stabilito. Quale spiegazione, siamo indotti a supporre che la parola poesia debba oggi essere intesa come sinonimo di lirica:
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che "non" siamo, ciò che "non" vogliamo.
 

(E. Montale)

 
***
 
La rondine vi porta
fili d'erba, non vuole che la vita passi.
Ma tra gli argini, a notte, l'acqua morta
logora i sassi.
Sotto le torce fumicose sbanda
sempre qualche ombra sulle prode vuote.
Nel cerchio della piazza una sarabanda
s'agita al mugghio dei battelli a ruota.
 

(E. Montale)

 
***
 
 
Ma se, più violenta, più profonda,
Un'anima, sdegnosa o disdegnata,
Arriverà, la sua ombrosa bellezza maculata
Del colore dell'anno inaridito,
Autoimmolandosi sul Tumulo
Al giunger della crisi, udrà
Un ghigno soffocato sottoterra...
 

(T.S.Eliot)

 
***
 
 
Il nostro pianeta, riverso
fra piaghe e gonfiori
nei viperini orizzonti
come insetto scovato si torce.
 

(C. Rebora)

 
***
 
 
La vita, la mia vita ha la tristezza
del nero magazzino di carbone...
Io vedo per oltre alle sue porte aperte, il cielo
azzurro...
 

(U. Saba)

 
***
 
 
-Il genere epico. È il genere di poesia che celebra le imprese leggendarie di un eroe e di una collettività che abbiano dato lustro alla storia del paese cui appartengono.
La filologia moderna distingue due tipi di epica, una popolare, una di arte. La prima comprende poemi o cicli di poemi, anche anonimi o collettivi, quali l'epopea omerica, l'epopea dei Nibelunghi, ecc.; la seconda è, invece, la risultante di opere di poeti colti, quali ad esempio l' Eneide; la Gerusalemme liberata; le Chansons de geste; il Poema del mio Cid, ecc.
Nella poesia epica d'intonazione popolare troviamo le celebrazioni d'eventi memorabili, episodi incentrati su miti e saghe primordiali, le venture d'eroi spietati e sublimi, personaggi che assommano virtù profondamente umane a dissolutezze inconcepibili, protagonisti che si rendono padroni assoluti delle proprie azioni. Nell'epica d'arte, scopriamo invece vicende ricche di sentimenti nobili e di religiosità. Basti pensare ai paladini della fede, emblemi e propagatori delle verità, della giustizia e di virtù cristiane: a tale riguardo, ricordiamo i capolavori di Boccaccio, Boiardo, Ariosto e Tasso, epici cantori di fama universale.
Ciò posto, dovendoci intrattenere su poesia di genere epico, nel contesto della poetica attuale, siamo indotti ad affermare che la letteratura moderna ha perso interesse per ogni tipo di componimento che presenti elementi d'intonazione eroica o cavalleresca. Si potrebbe anche sostenere che, travisandone il concetto, ha trasferito il significato di epica in avvenimenti caratteristici che contraddistinguono la società di oggi in termini di lotta, di primati superati, di mete raggiunte che dispensano notorietà e poteri. Considerato poi che il linguaggio epico ben si adatta alla celebrazione del mito, diventa conseguenziale che oggi venga usato per osannare il grande atleta, l'indiscusso divo, quegli che impropriamente viene appunto denominato "mito". In effetti, soltanto episodi di una certa risonanza storica possono essere oggi presentati con il linguaggio dell'epica.
E tale ed è tanta la nostalgia che avvertiamo per tale linguaggio, che ci attribuiamo il piacere di riprodurre, qui di seguito, alcuni versi e brani che di vera epica sono superbamente adorni. È doveroso farlo, perché l'epica è una preziosa eredità che dovremmo gelosamente custodire e più spesso coltivare.
Leggiamo, per esempio, di una madre di Sparta che perse in guerra tutti i suoi otto figli, che poi seppellì sotto un'unica stele.
 
Da Antologia palatina, di A. Presta:
 
'Contro le schiere nemiche inviò Demanete gli otto
figli, e li pose tutti sotto un'unica stele.
Né ruppe in lagrime al suo dolore, ma questo soltanto
disse: A te, Sparta, avevo partorito i miei figli
 
***
 
 
Da i Frammenti, di Simonide di Ceo, questi pochi versi, di alta impronta epica, dedicati ai morti nella battaglia delle Termopili, durante la guerra fra Spartani e Persiani, nel 480 a.C.:
 
Di quelli che caddero alle Termopili
famosa è l'avventura, bella sorte
e la tomba un'ara. Ad essi, memoria
e non lamenti; ed elogio il compianto.
Non il muschio né il tempo che devasta
ogni cosa, potrà su questa morte.
Coi prodi, nella stessa pietra,
abita ora la gloria della Grecia.
 
***
 
 
Dal poema della guerra e degli eroi, l'Iliade, quando il dramma è ormai giunto al suo epilogo, riprendiamo i versi con i quali il re Priamo, affranto di vecchiezza e di sventura, chiede ad Achille la restituzione del cadavere di Ettore, il più nobile e il più valoroso figlio della sua stirpe:
 
Del padre tuo ricordati, Achille simile ai Numi,
annoso al par di me, su la soglia di triste vecchiezza;
ed i vicini, forse, che intorno gli stanno, anche lui
crucciano, e alcuno non v'è che allontani da lui la
sciagura.
Ma pure, quegli, udendo parlare di te che sei vivo,
certo s'allegra nel cuore, sperando, ogni giorno che spunta,
di rivedere il figlio diletto che torni da Troia.
Io non ho che sventure: chè tanti valenti figliuoli
ho generato in Troia, né alcuno più vivo mi resta.
Cinquanta, io, sì, n'avea, quando giunsero i figli d'Acaia...
Ai più di loro, Marte feroce fiaccò le ginocchia:
quello ch'era da solo presidio alla rocca e a noi tutti,
tu l'uccidesti or ora, mentre ei combattea per la patria,
Ettore: ed ora io vengo d'Acaia alle navi per lui,
per riscattarlo da te, recandoti doni infiniti
Achille, abbi rispetto dei Numi, ricorda tuo padre,
abbi di me compassione: di lui molto più n'ho bisogno,
chè io patito ho quanto niun altri patì dei mortali,
io che alle labbra appressai la mano che il figlio m'uccise.
***
 
A finire, un componimento di Archiloco, poeta greco del VII secolo a. C., in cui sono stati espressi, con realistici accenti, l'ira e la bramosia di vendetta nei confronti di un compagno che s'era macchiato di tradimento:
 
Lungamente travolto dai marosi
tu sia sbattuto contro Salmidesso,
nudo, di notte, mentre in noi fa quiete.
E spossato, con ansia dalla riva
tu rimanga a ciglio del frangente,
nel freddo, stridendo i denti,
come un cane, riverso sulla bocca;
e il flusso continuo dell'acque
ti copra fitto d'alghe.
Così ti prendano i Traci, che in alto
annodate portano le chiome,
e con loro tu nutra molti mali
mangiando il pane dello schiavo.
Questo vorrei vedere che tu soffra,
tu che m'eri amico un tempo
e poi mi camminasti sopra il cuore.
 
-Il genere cavalleresco. È costituito dall'insieme dei testi medievali e rinascimentali che ebbero per oggetto le guerre, le avventure, gli amori e gli ideali delle società feudale e cavalleresca.
Le donne, i cavalier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto...
declamò Ludovico Ariosto allor che diede inizio all'Orlando furioso, e
 
Canto l'arme pietose e 'l capitano
che il gran sepolcro liberò di Cristo...
 
gli fece eco Torquato Tasso nell'accingersi a compilare la Gerusalemme liberata: entrambi grandi poemi di genere cavalleresco che tanto si confà alla poesia epica. Anche in Germania, il testo più importante di poesia cavalleresca, la Canzone dei Nibelunghi, è stato impostato con terminologia dell' epica. Nel corso del tempo, però, con il mutamento dei costumi, il genere cavalleresco ha conosciuto un declino inevitabile tanto che, a cominciare dal XV secolo, la critica l'ha ritenuto superato, collocandolo in un nuovo genere denominato eroicomico.
Quale segno di doveroso apprezzamento al tramontato genere cavalleresco, che nel Medioevo ebbe tanta rinomanza, vogliamo qui di seguito trascrivere due ottave dei due poemi cavallereschi più famosi della nostra poesia.
 
-Il genere didascalico. Si tratta di un genere poetico che mira principalmente a educare con la divulgazione di testi che variano dai contenuti di ordine morale a quelli comportamentali, dall'etica alla religione, dal senso di giustizia al concetto di dignità dell'uomo. Iniziatore di questo tipo di poesia fu, nei secoli VIII - VII a. C., il poeta greco Esiodo, mentre nel mondo latino il primato fu appannaggio di Lucrezio Caro e Virgilio Marone, nel I secolo a. C.
Nel Medioevo, numerosi componimenti d'impostazione didascalica costituirono dimostrazione dello spirito enciclopedico che contraddistinse quell'epoca.
In Italia, poi, all'insegna del motto "insegnare dilettando" vennero scritti, nel '500, diversi poemi didascalici in endecasillabi sciolti come, ad esempio, "Le api", di G. Rucellai. Di alto valore didascalico è stato poi definito Il giorno, poema di G. Parini, di cui trascriviamo qualche brano per porne in evidenza il tono ironico e, nel tempo stesso, affabile e colloquiale:
Occorre dire che oggi è difficile annotare poemi o testi di siffatta impostazione, considerato che il genere didascalico pare sia divenuto prerogativa della prosa (saggi, giornalismo, ecc.) e, in parte, della commedia teatrale-
-Il genere eroicomico. Come esiste ancora, sia pure in quantità limitata, una poesia didascalica, con il compito di ammaestrare, così esiste, in misura assai ridotta, una poesia eroicomica, che ha lo scopo di divertire con contenuti comici e gioiosi. In effetti, si tratta di una poetica particolare caratterizzata dall'accostamento d'intonazioni epiche a toni caricaturali, incentrata su descrizioni di situazioni ambigue, con protagonisti personaggi umili, invischiati in futili vicende o in accadimenti che sovrastano la loro natura semplicistica, il loro piccolo mondo. È strutturata preferibilmente con versi brevi in un linguaggio facile, con ritmo marcato e, per questo, attraente.
Nella nostra letteratura, il capolavoro poetico di genere eroicomico è costituito da La secchia rapita, di A. Tassoni, in cui è narrata la guerra tra bolognesi e modenesi per il possesso di una secchia di legno. Ne riproduciamo solo alcuni versi per dare appena l'idea del contenuto:
Vorrei cantar quel memoramdo sdegno,
ch'infiammò già ne' fieri petti umani,
un'infelice e vil secchia di legno,
che tolsero ai Petroni i Gemignani.
..................................................
Aperta avea la temeraria bocca
Brandano appunto ad oltraggiar quel forte,
quando il ferro crudel giugne e l'imbrocca
tra denti e denti, e lo conduce a morte.
Ricovra l'asta il valoroso, e tocca
a la cima de l'elno Ilario Corte,
giovine irresoluto e spensierato;
e 'l fa cader disteso in un fossato.
..................................................
Non fu rapita mai con più fatica
Elena bella al tempo di Sadocco
né combattuta Aristoclea pudìca,
al par di quella secchia da un bauiocco...
...........................................................
Così finir le guerre e le tenzoni:
e il giorno d'Ognissanti al dì nascente
ognun partì da la campagna rasa,
e tornò lieto a mangiar l'oca a casa.
 
-I generi grottesco e satirico. Il genere grottesco, detto anche burlesco, è di natura più amena di quello eroicomico, in quanto prevede l'impiego di parole "inventate, nuove, assurde" ed è contraddistinto da tematiche ridanciane, spesso licenziose.
La poesia satirica è, invece, una specie di associazione tra il comico ed il didascalico ed ha lo scopo non solo di divertire, ma pure quello di evidenziare le stranezze di situazioni e di personaggi, le incongruenze sociali, le ingiustizie più minute e più ricorrenti, le manie e i difetti dei ricchi e dei potenti.
Per quanto concerne i tempi antichi, è necessario rammentare che di rilevanza eccezionale furono le satire dei poeti latini Orazio e Giovenale che si accanirono contro le piaghe della società del tempo e resero contemporaneamente apprezzabile il fine positivo e moralistico di tale genere di poesia.
In epoca moderna, per quanto ci riguarda direttamente, una notevole produzione di poesia satirica ha prodotto il poeta romano G.G. Belli: si tratta di una raccolta di ben 2279 sonetti, la cui pubblicazione integrale si è avuta solo nel 1952.
«Io ho deliberato di lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe di Roma... il popolo è questo; e questo io ricopio, non per proporre un modello ma sì per dare un'immagine fedele di cosa già esistente e, più, abbandonata senza miglioramento», scriveva Belli nell'introduzione di una pubblicazione datata 1831. La plebe romana è il frutto di un sovrapporsi plurimillenario di esperienze, civiltà, lotte, invettive, furbizie che il poeta descrive perché in siffatto mondo si è trovato, ha vissuto la sua parte, ha sofferto e gioito.
Nel sonetto che proponiamo, il Belli, maestro indiscusso dell'amplificazione caricaturale, vede le virtù della donna amata quali fossero innaturalmente riprodotte in una vecchia laida e sdentata e tutto ciò allo scopo di fotografare il tipico poeta petrarchesco che tanto si pavoneggiava nella società di quei tempi:
 
Chiome d'argento fine, irte e attorte,
senz'arte intorno ad un bel viso d'oro;
fronte crespa, u' mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali amore e morte;
occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obbietto disuguale a loro;
ciglia di neve, e quelle, ond'io m'accoro,
dita, e man dolcemente grosse e corte;
labbra di latte, bocca ampia celeste,
denti d'ebano, rari e pellegrini,
inaudita ineffabile armonia;
costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d'amor, palese fo, che queste
son le bellezze della donna mia.
 
In quest'altro sonetto, dal titolo Er giorno der giudizio, ammiriamo tutta l'ironia dissacrante di questo poeta:
 
Quattro angioloni co le tromme in bocca
se metteranno uno pe cantone
a ssonà; poi co tanto de voscione
cominceranno a ddì: "Ffora a chi ttocca."
 
Allora vierà ssù una filastrocca
di schertri da la terra a ppecorone,
pe rripijja ffigura di persone,
come purcini attorno de la bbiocca.
 
E sta bbiocca sarà Dio bbenedetto,
che ne farà du' parte, bbianca, e nera:
una pe annà in cantina, una sur tetto.
 
All'urtimo usscirà na sonajjera
d'angeli, e, ccome si ss'annassi a letto,
smorzeranno i lumi, e bbona sera.
 
A chiudere queste note, poniamo in rilievo la tendenza dei poeti moderni che, nel genere di poesia grottesca, sono per lo più ribelli alle tradizioni nostre. Un'avversione che potrebbe trovare spiegazione nella quasi obbligatorietà della rima e del ritmo specifico e particolare che questo genere di poesia indubbiamente richiede. Si aggiunga a ciò una sorta di difficoltà nell'individuazione di contenuti veramente nuovi e un'evidente avversità ad esporli con parole ed espressioni d'intonazione popolaresca.
 

(continua nel prossimo numero) Pietro Cirillo


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