È uscito il n° 134-135
Ottobre-Novembre 2003
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 17 ottobre 2003
 
In vendita nelle seguenti librerie
 
 
Analisi dell'Arte Poetica:
1) Il verso
di Pietro Cirillo

A cominciare da questo numero della Rivista, proviamo a pubblicare brevi dissertazioni, più o meno approfondite, sull'arte poetica, con l'intento di proporre l'analisi di talune particolarità tecniche che sono, in sostanza, i supporti più validi su cui si regge il linguaggio poetico.
Cominciamo con l'esame del «verso», l'elemento base di ogni discorso poetico.
Chi si ponesse, per assurdo, a leggere per la prima volta una poesia, rimarrebbe probabilmente sorpreso, innanzi a ogni altra cosa, dall'insolita positura dello scritto, formato da righe che non raggiungono il margine destro della pagina, ma tornano a capo, repentinamente, come volessero soddisfare un capriccio e non un'esigenza precisa. L'ipotetico lettore, a quel punto, verrebbe a conoscere il tanto famoso e discusso verso, l'elemento base che distingue, a prima vista, la poesia dalla prosa.
Il termine deriva dal verbo latino vertere, che significa volgere, in chiara contrapposizione al vocabolo prosa che, sempre nel linguaggio latino, indica andare diritto, nel nostro caso fino al margine destro della pagina.
Nella nostra poesia, i versi si suddividono in semplici, liberi e sciolti. Quelli semplici e sciolti, relativamente alla loro lunghezza, prendono il nome dal numero delle sillabe che li compongono (dal bisillabo all'endecasillabo).
Ai versi semplici e sciolti, che sono quelli tradizionali della nostra poesia, devono essere aggiunti i cosiddetti versi composti, che sono il risultato di accoppiamenti di versi semplici. Questa particolarità è prevista, però, per il quinario, il senario, il settenario e l'ottonario, e non per i tre versi minori (bisillabo, trisillabo e quadrisillabo) in quanto, ove fossero accoppiati, darebbero luogo rispettivamente a dei quaternari, senari, e ottonari.
Va precisato che per accoppiamento deve intendersi anche l'abbinamento di due versi minori composti da differenti numeri di sillabe.
Tra i versi accoppiati, una particolare rilevanza rivestono il dodecasillabo e il settenario doppio, denominati martelliano (da P.J. Martello, poeta del XVIII secolo) o alessandrino, per una certa rassomiglianza con il verso francese, formato da un quinario e da un settenario, notoriamente usato per celebrare le imprese di Carlo Magno.
La divisione in sillabe dei versi avviene applicando licenze e accorgimenti previsti dalla retorica (dieresi, sineresi, dialefe, sinalefe, ecc.) che consistono in determinati abusi di ordine sintattico tendenti a conseguire accorpamenti di sillabe, sdoppiamenti di dittonghi, onde pervenire alla quantità di sillabe prevista per ogni specifico verso.
Quando il verso è impostato secondo le regole della poesia classica, è formato da una successione ordinata e calcolata di elementi, quali la quantità delle sillabe, la posizione degli accenti ritmici, le pause, le cesure, la punteggiatura, la sonorità delle parole, il tono. Di queste particolarità ci occuperemo nel prossimo articolo, concernente il ritmo, tenuto conto che si tratta di caratteristiche aventi con esso maggiore attinenza. Per ora, ci pare importante porre nella dovuta evidenza che nel verso classico sono individuabili tre indirizzi di regole metriche: il sillabico, l'accentuale e il tonomatico. Sono questi tre indirizzi, le cellule germinative del verso classico ed è con la loro osservanza che diventa possibile mettere insieme dei versi di sicura rilevanza poetica. In caso contrario ogni lettura di poesie suonerebbe come una monotona iterazione d'elementi meccanicamente costituiti.
Riprendendo il filo della nostra digressione, soffermiamoci, ora, sulla struttura e sulla specificità del verso libero.
Cosa si deve intendere con quest'enunciazione, costituisce un interrogativo non ancora risolto, se riflettiamo sulle due seguenti definizioni che i testi specializzati ci forniscono:
- una serie di versi variamente impostati che, presi uno per uno, possono anche essere riconducibili al verso tradizionale, ma che si susseguono senza ubbidire ad alcun vincolo o schema. Liberamente e imprevedibilmente associati;
- versi non rapportabili alle misure tradizionali, con numero di sillabe assoggettate all'estro e alla tensione sentimentale del poeta. Come non ricordare, a tale proposito, il verso formato da una singola parola, tecnica mirante solo ad ampliare la significazione della parola medesima?
Con riferimento alla prima delle due definizioni, riportiamo, quale esempio, alcuni versi del componimento «A mia moglie», di Umberto Saba:
 
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest'arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un'altra primavera…
 
Con riferimento poi alla seconda delle due definizioni, riportiamo altri versi rispettivamente di Ungaretti e Montale:
 
Chiuso fra le cose mortali
(Anche il cielo stellato finirà)
Perché bramo Dio?
 
(Ungaretti)
 
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.
 
(Ungaretti)
 
A vortice s'abbatte
sul mio capo reclinato
un suono d'agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
da sghembe ombre di pinastri
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo, l'afa che a tratti erompe
dal suolo che s'avvena…
 
(Montale)
 
Com'è facile rilevare, nel verso libero il linguaggio è una forza dinamica che sovrasta la metrica proponendo una diversa combinazione degli elementi che la costituiscono. L'assenza del ritmo è spesso voluta per rispondere ad una sorta di disordine programmato che può rappresentare, in definitiva, un ordine diverso, precipuamente interiore. E non si può del tutto negare che potrebbe essere l'espressione di una poetica che si propone con linguaggio personalizzato, tale da dovere essere decodificato a più livelli, sulla base d'interpretazioni che possono essere diverse da quelle che il poeta voleva notificare. Bisogna allora convenire che il verso libero è soggetto ad un'organizzazione, anomala o meno, metrica o meno, che andrebbe approfondita e meglio definita, altrimenti saremmo costretti a parlare di prosa lirica. Ecco perché, poco prima, abbiamo accennato ad una questione in parte irrisolta.
Pensare che si possa avere la conoscenza completa del concetto di verso sulla scorta delle regole dettate dalla metrica e facendo astrazione delle significazioni insite nel verso libero, ci pare sinceramente un'assurdità.
Con nessun dato di fatto, che si possa definire inconfutabile, a noi pare che si possa sostenere che i versi liberi di Dino Campana e di Giovanni Pascoli, qui di seguito riprodotti, non abbiano un ritmo e una musicalità incontestabili:
.....................................................C'è
nella stanza un odor di putredine: c'è
nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
e tremula la sera fatua: è fatua la sera e tremula ma c'è,
nel cuore della sera c'è,
sempre una piaga rossa languente.
 
........................................Di tante parvenze
che s'ammirano al mondo, io bel so a quali
possa la mia bambina assomigliare.
Certo alla schiuma, alla marina schiuma
che sull'onde biancheggia, a quella scia
ch'esce azzurra dai tetti e il vento sperde;
anche alle nubi, insensibili nubi
che si fanno e disfanno in chiaro cielo;
e ad altre cose leggere e vaganti.
 
A conclusione di queste note va fatto ancora un cenno ai versi sciolti: sono versi che non danno luogo a rigorose strutture strofiche. Generalmente non si assoggettano a rima, ma osservano il ritmo degli accenti previsti dalla metrica. Ecco un brano tratto da «I sepolcri» di Ugo Foscolo, nel quale sono evidenti le particolarità or accennate:
 
A egregie cose il forte animo accendono
l'urna de' forti, o Pindemonte; e bella
e santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. Io quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande
che temprando lo scettro a' regnatori
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue…
 
Ed ecco ancora altri versi tratti da «Alle falde dei salici», di Salvatore Quasimodo, a confermare che musicalità e ritmo, nei versi sciolti, sono sempre presenti:
 
E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull'erba dura di ghiaccio, al lamento
d'agnello dei fanciulli, all'urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?…
 

(continua nel prossimo numero)

 

Pietro Cirillo

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