Inediti On line
 
 Marisa Starace

presenta la sua opera inedita

Impronta di donna
(romanzo)

INDICE


Storia di Giuditta

Alla memoria di Beniamino Fracassa, Mario Ingle, Edward Downer e Lisandro Lopez, tutti miei buoni e indimenticabili amici.
 

 

STORIA DI GIUDITTA

 

Giuditta vedeva il cielo dal balcone dell'unica stanza ancora abitabile della sua casa paterna. Stesa sopra il pavimento, avvolta in una vecchia coperta, non sembrava avvertire la durezza del pavimento né il freddo della mattina incipiente. Rimaneva immobile, come schiacciata dai suoi pensieri. I ricordi l'assaltavano e la molestavano come una moltitudine di mosche nonostante cercasse di non pensare, d'identificarsi in quell'istante che non torna più, quell'istante di annullamento di se stessa dopo una vita convulsa e caotica.

Le avevano detto, semplicemente e senza nessun giro di parole, che le rimanevano solo pochi mesi di vita o forse un anno. L'impatto era stato tremendo. Che fare? Era sola, nonostante alcuni amici di circostanza, era sola in un mondo che improvvisamente le si rivelava come ostile e limitato.

Tornare a casa, soltanto questo le venne in mente. Tornare indietro per cercare nel tempo passato, il coraggio di affrontare un presente inevitabile. Lì sperava di trovare la forza per affrontare l'altra faccia della sua esistenza. Ora però era viva ancora. Si sentiva viva e piena di desideri in quel suo corpo giovane e ardente; si sentiva parte della vita nel contatto con l'aria fresca della mattina, il cui chiarore appariva con aria trionfante dietro le montagne nelle tante mattine uguali. Con lei e senza di lei. Si sentiva viva nel piacere di toccare il pavimento e di sentirlo duro sotto il caldo palmo della sua mano.

La sua casa paterna, costruita nella falda di una montagna, era tutto ciò che le rimaneva, tutto ciò che la legava alla sua infanzia e alla sua adolescenza: uno splendido e tenero passato cristallizzato con il tempo e immagazzinato nella sua mente. Fino a quando la città, con tutte le sue promesse e le lusinghe delle esperienze da fare, per vivere pienamente, le aveva sviluppato quella maledetta frenesia che con il tempo le aveva consumato il corpo e lo spirito. Era tornata così nella sua casa ed era frastornata al pensiero di cercare un modo per chiudere il cerchio della sua vita ora che era piena solo di ricordi, ombre degli anni nelle pagine bianche della vita.

"Abbi cura, cerca di non sporcarti. Almeno oggi...". La voce di sua madre la segue mentre lei si allontana per la stradina che porta alla piazza grande della sua cittadina. Oggi è un giorno importante nella sua vita di ragazzina. Ha fatto la prima comunione. Sebbene non si renda conto della solennità del giorno che le tocca vivere, nota nel bianco del suo vestito di seta, che c'è qualcosa di nuovo nella sua vita. Un giorno da ricordare. "Devo essere buona oggi...". Giuditta era quasi sempre buona e comprensiva, però era testarda come pochi ed aveva quella caparbietà che a volte le dava un'aria di... disubbidiente. Però oggi, no. Oggi si sarebbe comportata bene, ma proprio bene. Giuditta cammina con la testa eretta, con aria altera, portando chiusi dentro di sé i pensieri di una bambina, con il suo vestitito di seta bianca, le scarpe anch'esse bianche ed una borsetta di merletti, naturalmente bianca, dalla quale spunta un fazzolettino... Sì, in verità, Giuditta era l'immagine stessa della purezza. Ed era decisa a comportarsi bene, come una signorina, anche se non era esattamente una signorina dato che aveva appena dieci anni.

Improvvisamente le sembrò di udire come un miagolìo di un gatto in difficoltà, e questo la allontanò immediatamente da tutti i suoi buoni propositi. Un branco di bravacci, più piccoli di lei, stava torturando un gattino così piccolo che appena si potevano udire i suoi lamenti.

Il senso di protezione verso i più deboli che era molto sviluppato in Giuditta, fece sì che si lanciasse furiosa contro il gruppo di monelli malvagi ai quali dovette apparire come l'Arcangelo Gabriele con tanto di spada sguainata, poiché si diedero tutti alla fuga gridando anche se le loro grida furono superate abbondantemente da quelle di Giuditta. S'inchinò, raccolse il gattino, spaventato e dolente, si strinse a lei con le poche forze che gli erano rimaste, strappandole e insudiciandole così il suo candido vestito. Era così sporco di fango che Giuditta tirò fuori dalla sua borsetta il fazzolettino bianco di merletto per ripulirlo un poco. Però fu inutile. Ebbe allora una idea luminosa: decise che doveva lavarlo e afferratolo per la collottola, lo mise sotto il getto d'acqua di una fonte che sgorgava nel mezzo della piazza. A questo punto, il povero animale, che doveva avere raggiunto il massimo della sopportazione, fece sforzi sovrumani per liberarsi e dopo averle morso e graffiato una mano, si allontanò correndo a morire in santa pace, il più lontano possibile dagli esseri umani. Come Giuditta apprenderà più avanti nella sua vita, gli uomini hanno, a volte, molto poco di umano.

In ogni modo Giuditta ci rimase male e interpretò la fuga del gattino come un affronto personale. Tornò a casa piangendo e rassegnata ai rimproveri inevitabili di sua madre: "Aspetta solo che veda in quale stato pietoso hai ridotto il vestito." si diceva Giuditta. Però non successe niente di ciò che temeva. La madre capì: in verità quasi sempre comprendeva. Ancora una volta comprese che sua figlia aveva il cuore più grande del cervello e che, mano mano che cresceva, la sua sensibilità le avrebbe complicato la vita. Preferì non spiegarle che a volte è meglio evitare situazioni sgradevoli. La madre non aveva le idee molto chiare su ciò che si deve fare e ciò che è preferibile evitare. Fu per questo, sapendo che sua figlia era una creatura molto buona, che non fece nessun commento.

Fu un bene o fu un male? Fu in ogni modo una occasione perduta perché Giuditta apprendesse alcuni aspetti della vita, qualcosa che più tardi la vita le avrebbe insegnato con una mano più dura e pesante.

Giuditta si era già dimentica della sorte del gattino (oh, meraviglioso periodo dell'innocenza) e stava giocando con il suo cane, vestita con un paio di pantaloni che non la obbligavano ad avere cura di non sporcarsi. Lei aveva un cuore troppo tenero e una fantasia molto sviluppata: era fatale che dovesse soffrire. Come, per esempio, le successe con Riccardo. Lui poteva avere quattordici anni, lei appena dodici. Lei aveva la testolina piena di sogni romantici, lui aveva la testa piena di racconti erotici. Un giorno si trovarono soli e lui si comportò in modo prepotente. Prima che Giuditta potesse rendersi conto delle sue intenzioni, questi l'afferrò per la vita e la baciò. Un bacio vero, sulla bocca. Oh Dio! Una cosa che la farebbe ridere oggi, però in quel momento, che schifo! Sì, Giuditta sentì un vero ribrezzo, fuggì dritta a casa sua e mise la testa sotto il cuscino. Non pianse però. Ricorda solo che rimase rigida e immobile come ad aspettare che qualcosa accadesse. Avvertiva sopra le sue labbra l'odore di Riccardo, un odore stomachevole, di latte in povere e lavanda a buon mercato. Fino a quando reagì, andò in bagno e si sciacquò la bocca a lungo dopo essersi lavata i denti. Poi si fece coraggio, si guardò nello specchio e si sorprese di trovarsi uguale a prima: come se quella esperienza avesse dovuto cambiarla, invecchiarla o per lo meno alterarle lo sguardo. In verità, non le era piaciuto quel bacio. Proprio per niente. Non era così che si era immaginata il suo primo bacio. Si sentì defraudata e decise in quell'istante che non avrebbe mai più guardato Riccardo in faccia, né gli avrebbe rivolto la parola. Finalmente, tirò fuori la lingua, fece una smorfia nello specchio e uscì dalla camera, sentendosi effettivamente più vecchia. Solo dentro se stessa, naturalmente. "Ci voglio andare... ci voglio andare... e se tu non mi lasci... farò una pazzia!".

Giuditta parlava così a sua madre. In quel tempo il mondo era sconvolto dalla guerra sanguinosa che imperversava per tutta l'Europa: la seconda guerra mondiale. E Giuditta voleva andare in calessino ad un villaggio vicino con la sua amica Ninetta e suo padre, Don Beniamino, un contadino eccentrico ma molto simpatico. Ciò che attraeva Giuditta era proprio la ragione opposta che motivava il rifiuto di sua madre: il probabile incontro con soldati tedeschi (già era passato l'8 di settembre del 1943, trattato unilaterale dell'Italia con gli Alleati per porre fine alla guerra ed era in atto la conseguente occupazione di tutto il territorio italiano da parte dell'esercito tedesco) o forse un incontro ancor più pericoloso con gli Alleati che avevano il dito facile con i mitragliatori. L'una e l'altra possibilità offrivano delle emozioni che Giuditta con la sua fantasia depurava di qualsiasi pericolo. Tutto questo nonostante una volta, in un'altra cittadina vicina, aveva sperimentato ciò che significava un bombardamento e quante vittime poteva procurare. Ma Giuditta viveva nel suo mondo di adolescente, un mondo dove manca la conoscenza delle cose dolorose della vita. Viveva ogni esperienza a fior di pelle, superficialmente, sebbene con entusiasmo ed interesse sincero. Inoltre voleva andare a spasso col calessino, cosa che non poteva fare frequentemente e pertanto non voleva perdere l'occasione che le si presentava: guerra o no.

Sua madre però s'impuntò. Fu allora che Giuditta decise d'obbligarla a darle il suo consenso. Per fare ciò ricorse al ricatto. Era inverno e faceva un freddo polare. Quella stessa notte, Giuditta si denudò e si chiuse fuori sul balcone. Quello stesso balcone dal quale ora vedeva lo spuntar del giorno. Era decisa ad ammalarsi per farsi dare il famoso permesso. E sua madre ancora una volta cedette.

A distanza di tanti anni, Giuditta si domanda: "Perché, perché questa sfida? Che cosa rappresentava per lei, in quel momento della sua vita, quella famosa passeggiata? Forse si trattava solo di un capriccio o piuttosto di voler affermare la sua volontà, la ribellione alla disciplina, il poter seguire il suo istinto, i suoi desideri. Non importava ciò che poteva accadere".

La madre perse nuovamente una occasione per insegnarle qualcosa che un giorno avrebbe potuto servirle nella vita nel suo cammino verso la maturità. L' obiettività nelle scelte e anche il sapere soppesare ciò che conviene e quello che può nuocere.

Erano partiti presto in quella mattina particolarmente fredda e gelida. Giuditta era seduta tra la sua amica ed il padre di lei. Quella giornata trascorse e sparì nell'imbuto del tempo, divenne polvere, come tutti gli altri giorni passati e futuri.

Tuttavia rimase impresso per sempre dentro di lei il piacere che le suscitava il galoppare del cavallo ed il rimbalzare del calessino sopra la strada non asfaltata, il freddo che le tagliava la faccia ma paradossalmente era gradevole perché la faceva sentire viva e parte della natura. Poi il villaggio dove erano andati a comprare il vino, con le sue case nuove ed i volti sconosciuti, il vagabondare lento nel silenzio della piazza deserta all'ora del pranzo quando tutti sono riuniti intorno alla mensa. Si potevano vedere solo alcune galline e asini aggirarsi in libertà nella piazza, così come alcune motociclette dei soldati tedeschi, unico segnale della presenza della guerra. Al ritorno Giuditta cantò con la sua voce forte e chiara, mentre i suoi amici sembravano assorti nei loro pensieri. O semplicemente dormivano. Fu un ritorno tranquillo come in un qualsiasi altro giorno, senza guerra. Un giorno, comunque, da ricordare. E mai lo dimenticò.

Giuditta aveva vissuto la guerra come una grande avventura. Come se non fosse avvenuto lo sterminio indiscriminato, le azioni orribili e selvagge, la distruzione e la morte. Aveva vissuto la guerra in quella età nella quale non si capisce la crudeltà umana né quando si scatenano e affiorano i più bassi istinti dell'uomo. Dovunque. La vita di Giuditta era stata sempre una continua attesa: sulla soglia della sua casa. Aveva atteso la vita con ansia, rabbia, tenacità, caparbietà. L'aveva cercata e incontrata in ogni nuovo giorno, in ogni faccia sconosciuta che aveva incontrato per la sua strada.

La vita con il suo bagaglio di idee nuove, con le relazioni umane, l'aveva vissuta proprio nella sua cittadina. Aveva conosciuto e trattato con persone di diverse nazionalità che la guerra aveva trascinato fino a lei. Tutti avevano qualcosa da farsi perdonare: gli stessi italiani non si erano comportati molto bene. Giuditta era nata e cresciuta in una famiglia piccolo borghese, onorata e buona, dove tutto procedeva secondo l'ordine pedante e noioso dell'ambiente che lo esigeva anche se era caldo e sicuro. Per lei il cambio fu enorme, un cambio che non la colse d'improvviso, ma bensì che la trasformò poco a poco, facendo di lei una donna contrastata tra l'educazione che aveva ricevuto nella sua famiglia fino all'adolescenza e la donna che divenne dopo. Una donna aperta ai cambiamenti anche se si rendeva conto che la verità apparteneva al dopo.

Ricordava Giuditta e tremava, forse per il freddo della mattina o per quei ricordi che la riportavano indietro, lontana nel tempo, come se stesse cadendo in un abisso senza fine. Sempre più rapidamente. E le venivano le vertigini...

Sudava freddo, però non si muoveva. Rimaneva immobile con gli occhi aperti guardando verso il cielo, però non vedeva il cielo tingersi di colori sempre più forti anzi sembrava che il sole non volesse affacciarsi per non molestarla. Lei continuava a rimanere nel suo stato d'animo, tra la realtà e il sogno, rivivendo il tempo di quando era più giovane. E sana.

Era alto Tom, con i capelli color carota e tante efelidi disperse su di una faccia simpatica dove dominavano un paio di occhi verdi bellissimi. E Giuditta si era innamorata quando lo aveva visto, seduto ai piedi del monumento nella piazza principale della sua cittadina, con il volto illuminato dal sole mentre osservava interessato il passaggio della gente locale, cosa che doveva risultargli molto interessante. Era un soldato nordamericano. Thomas Mullins della Quinta Armata. Era giovane, bello e sano. E Giuditta aveva sentito per la prima volta nella sua giovane vita una rara angustia stringerle il cuore.

Lei aveva sedici anni e come la canzone dice "not yet been kissed" (non baciata ancora). Fu una relazione che durò solo pochi giorni poiché quella stessa guerra che li aveva fatti incontrare, li separò immediatamente. Ci fu una cena di commiato, dato che la Quinta Armata si allontanava dalla zona di Roma verso altri lidi. Ad altre lotte. Si mangiò, si bevve vino, si raccontarono barzellette e si scherzò. Si rise in quella notte come se ne sarebbero seguite tante altre, allegri e felici. Senza nessuna preoccupazione.

La notte passò ma Giuditta non dimenticò. Né potrà mai dimenticare il bacio gentile e lieve che le diede Tom, ai piedi della scala di casa, prima che la vita e la guerra se lo portassero via per sempre. Forse fu il bacio meno appassionato che mai diedero a Giuditta, tuttavia, nessun altro bacio seppe darle quella sensazione di piacere, di turbamento e di agitazione che dentro di lei il bacio di Tom. Mai fu tanto vicina a comprendere l'amore. Però Tom non era che un'ombra anche se rimase per sempre dentro di lei, nei suoi pensieri, nei suoi sentimenti, nei suoi desideri più intimi: per tutto il resto della sua vita. Il pensiero della morte era ancora separato da lei, come si trattasse di qualcosa senza consistenza, senza principio né fine.

Aveva dato l'esame del terzo anno di tedesco alla facoltà di lingue dell'università di Napoli. Un esame importante per la sua carriera. Giuditta osservò con apprensione la testa bionda dell'assistente mentre, in piedi, aspettava che le scrivesse la nota nel suo libretto.

Giuditta pensava di avere risposto bene a tutte le domande che le aveva fatto il professore e che il suo tedesco non fosse tanto male dopo tutto. Tuttavia, quando l'assistente le chiese con voce fredda e distante: "Scusi, lei non è mai caduta?" Giuditta pensò che l'assistente le stava domandando, con aria severa, se non fosse un po' stordita come conseguenza di una caduta e come aveva osato presentarsi ad un esame così importante non essendo pronta... Come se si fosse trattato di uno scherzo e non di un esame serio, che le aveva procurato anche un gran mal di stomaco, le uscì dalla bocca un tremulo no. In quell'esame ebbe un trenta (voto massimo). E quella non fu una occasione perduta. Però tante altre volte, quella su maniera di distorcere, d'interpretare falsamente la verità, aveva fatto sì che lei stessa chiudesse la porta davanti alla buona sorte o facesse naufragare nel nulla la possibilità di un destino migliore per la sua vita.

Quel suo andare a conclusioni sbagliate, quel suo voler vedere l'offesa o il dubbio quando invece si trattava di un complimento sincero o solo di una semplice domanda. La fantasia di Giuditta non conosceva limiti. Negativa su tutta la linea. Sempre. Vedeva nuovamente il volto asettico dell'assistente mentre le comunicava il voto ottenuto con aria assente e disinteressata. Non aveva capito niente e neanche intuito il dramma che Giuditta aveva vissuto in quei pochi secondi.

Ricordi vivi che come le emozioni che li motivavano, erano intatti, pronti a risorgere con il loro odore di naftalina, per presentarsi con tutto il loro peso, come fantasmi amici, come se il tempo li avesse purificati togliendogli di dosso tutte le scorie e lasciandoli integri e profondamente radicati.

Le immagini la opprimevano. Pensieri, ricordi, sentimenti, tutti ingredienti del mondo dei vivi.

Giuditta si rese conto tardi dell'importanza del sesso. Il mondo (quante volte glielo avevano detto) gira esclusivamente intorno al sesso. Stringi, stringi, tutto si riduce al sesso, dovunque si guardi, tutto fa direttamente o indirettamente riferimento al sesso.

Giuditta era andata a ballare con un amico, un ragazzo simpatico e suo amico da anni. Così dopo il ballo, le sembrò una cosa naturale il passaggio in "Vespa" verso un posto fresco del bosco in un luogo lontano da occhi indiscreti. Per un bacio. Del bacio Giuditta ricorda solo un sapore di trifoglio. Ciò che non aveva scordato era "qualcosa" duro che aveva sentito comprimerle il ventre, senza nessuna cattiva intenzione da parte dell'amico, ma una conseguenza logica del ballo, del posto nel bosco e del bacio.

A lei non piacque né d'altra parte la scosse. Non era ancora arrivato per lei il tempo di quelle relazioni che, come dice la gente, governano il mondo.

Il terremoto scatenato dalla guerra era terminato. La terra e la sua popolazione sperimentavano le ultime scosse di assestamento. Giuditta era passata dal periodo tumultuoso della deflagrazione a quello rumoroso della pace come se avesse cambiato casa. Non era turbata, solo eccitata e desiderosa di apprendere e capire. Soprattutto vivere.

La guerra con tutto il suo carico di sangue, dolori e immoralità che aveva trascinato con sé, oltre ad abusi e vessazioni, non avevano disincantato Giuditta.

Piuttosto, come a molti altri adolescenti della sua generazione, la maledetta guerra aveva aperto non una finestra bensì una porta alla vita. Le aveva tolto di dosso le scorie informi della sua inesperienza per fare di lei una creatura libera ed aperta a tutti i problemi. Aveva fatto di lei una persona vitale, un essere pronto a ricevere, sebbene non sempre disposta ad accettare una idea qualsiasi. Era un miscuglio disordinato di sensazioni, sentimenti e nozioni anche se un po' superficiali. Aveva cominciato a pensare e riflettere.

La sua estrema sensibilità o forse la sua maniera "romantica" di vedere la vita a soli diciotto anni dopo una educazione piccolo-borghese in netto contrasto con il suo mondo più intimo di idee ribelli e nebulose, l'aveva portata spesso a sbagliare o aveva impedito che il suo carattere si sviluppasse secondo una logica normale e armoniosa.

Giuditta non sa ancora, dopo tanti anni, se fu un bene o un male: particolarmente adesso che deve affrontare l'ultima tappa della sua esistenza. Tutto sommato, le sembra che la vita, vissuta impetuosamente, non l'abbia defraudata. Aveva vissuto e non era forse questo ciò che più aveva desiderato? In ogni modo in quel periodo ancora non riusciva a capire molte cose, nonostante avesse vissuto l'orrore della guerra senza comprenderla del tutto, conobbe anche, per la prima volta nella sua vita, lo spettro del razzismo.

Un ragazzo che sembrava essere innamorato di lei, quando seppe che si chiamava Giuditta, le chiese in modo decisamente brutale: "Però non sarai ebrea, per caso?". A una domanda formulata in un modo così diretto, lei avrebbe dovuto rispondere con un sì o un no. A Giuditta non era mai passato per la mente di pensare alla differenza di razza o di religione, e sentì come una avvisaglia nel fondo del suo cuore. Fu come se si fosse accesa una luce nella profonda oscurità del suo subcosciente. La sua mente non reagì subito, il suo cuore sì. Non rispose. Si limitò solo a guardare il ragazzo negli occhi.

Giuditta non sa se fu un bene o un male. E' un bene conoscere l'ingiustizia che governa questo nostro mondo? E' salutare mettere in discussione valori fondamentali che mai prima di allora erano stati messi sotto processo? Che Dio ci protegga! Le sembra di udire la voce di una sua vecchia zia, timorata di Dio, alla quale aveva voluto un gran bene. Questi valori umani le si presentavano ora da un nuovo punto di vista in tutta la loro miseria umana: criteri che erano stati accettati supinamente nel passato, senza mai sottoporli a giudizio, e ora apparivano totalmente negativi?

Improvvisamente tutto diventa chiaro e prende forma. Forse per quel senso di auto-conservazione, ci chiudiamo in noi stessi, ci mettiamo gli occhiali neri o peggio ancora chiudiamo addirittura gli occhi per non vedere le cose come veramente sono, per non guardare le cose e fatti che ci feriscono e ci fanno soffrire?

Da quando Giuditta aveva cominciato a fare i primi passi nella comprensione delle relazioni umane, era come se stesse passando dalla cecità alla luce, però non vedeva ancora i profili esterni dei fatti. La realtà aveva tante facce, tanti aspetti diversi, e Giuditta, nella sua ansia di capire e di essere giusta nei suoi giudizi, aveva finito per giustificare tutto e tutti. Sdoppiandosi in due personalità permanentemente contrastanti, riusciva a vedere le diverse facce della stessa realtà fino a quando la confusione si faceva così pesante che diventava quasi impossibile da sopportare e si sentiva come impazzire. E non se ne rendeva conto.

Quando aveva cominciato ad avere idee, a formulare giudizi, a incamerare criteri? Quando qualcuno aveva impresso delle idee nella sua mente, idee forti e precise, senza nessuna finzione? Giuditta cercava di mettere a fuoco i ricordi, però le immagini le risultavano sfocate ed imprecise. Improvvisamente, chissà da quale angolo nascosto della sua mente, apparirono tutti insieme, gli amici della sua adolescenza. Aveva ventitré anni. Le aprirono la mente con un taglio di bisturi, senza pietà, però con grande amore. Sergio, un pittore di nazionalità argentina, Antonio e Marco entrambi aspiranti attori ed il più importante di tutti per la sua trasformazione spirituale: Lucio, lo scrittore. Giuditta aprì le braccia, non sapeva se per abbracciarli o per respingerli, come se fossero parte di un incubo. Rappresentavano una parte importante e decisiva della sua vita. E le doleva, quasi fisicamente, tornare a rivivere quel periodo. Paura dei ricordi. A volte succede.

Era tornata a vivere dopo un parto lungo e laborioso. Finalmente aveva capito come andava il mondo. Ripensò alle risposte a tante domande che nel passato l'avevano tormentata e che aveva accantonato, per pigrizia mentale e a causa del vuoto nel quale si agitava. Un vuoto culturale, nonostante i suoi studi, evidentemente superficiali e le sue letture che dovevano essere state casuali e disordinate. Né lo studio né la lettura sembravano esserle serviti per capire come funzionavano le regole del gioco in questo nostro mondo.

S'innamorò di Antonio però cedette a Marco, che era un ragazzo geniale, intelligente e molto persuasivo. Lo aveva accettato forse senza troppo entusiasmo, decisa a trasformarsi in una donna. Aveva venticinque anni. Non si pentì mai di ciò che fece, piuttosto della mancanza di coraggio nell'affrontare certe situazioni o per le occasioni perdute soltanto perché non si era impegnata a coglierle. Solo per quelle le era rimasto un sapore amaro in bocca.

Ora le tornavano alla memoria le occasioni non accettate, a volte, solo per un senso di dignità o caparbietà e anche le esperienze evitate che invece avrebbero potuto cambiarle la vita integralmente.

Il suo carattere intessuto d'incredulità e fatalismo l'aveva inchiodata nel suo sentiero, nei suoi propri binari (le venivano alla memoria i versi di A. Machado "Camminante, non c'è cammino, si fa il cammino all'andare..."). I baci dati alla persona sbagliata e rifiutati a quella giusta, per uno stupido orgoglio. Errori, sbagli.. quanti !. Però si vive sbagliando e tutti commettiamo errori: forse era una filosofia a buon mercato, però la sua vita avrebbe potuto svilupparsi in modo più monotono. Tutto le era servito per imparare ad apprezzare il fatto di essere viva, ogni ora di ogni giorno, anche quando il dolore e la disperazione si erano uniti contro di lei.

Giuditta amava il suo prossimo, anche con le sue debolezze, con le sue meschinità che a volte apparivano sordide e brutali, con le sue manifestazioni di egoismo, con la sua vigliaccheria, perfino nella sua avidità: tutti aspetti terribilmente umani che aveva rilevato poco a poco.

Nonostante le varie attitudini, quasi tutte negative, di molti esseri umani (forse la maggior parte) riusciva a identificarsi con loro, perché anche lei era un essere umano. Anche lei aveva dovuto lottare contro gli stessi mostri e non sempre era riuscita a vincerli.

Le idee di Lucio erano idee forti per qualcuno forte e lei era debole. Fu per questo che ebbe paura. E finì per rinchiudersi in sé stessa con queste verità tanto pesanti da sopportare e difficili da concretizzare.

Anni giovanili, anni duri, densi di problemi e pertanto anni di vita intensa e grande vitalità. Ora tutto questo le sembrava lontano, evanescente e torbido come una macchia di colore senza contorni. Ora che doveva affrontare il suo ultimo problema: come separarsi della vita senza rinnegarla né minimizzarla, senza ridurne i confini, né chiudere gli occhi davanti alle verità che era riuscita a riunire attraverso anni di sforzi e di lotte. Voleva morire cosciente. Ci sarebbe riuscita?

Aveva accettato tutto dalla vita: sentimenti violenti, sensazioni di paura, umiliazioni, fallimento e successo: tutto con la stessa dose di serenità (Kipling docet). Soprattutto con disaffezione. Ed ora doveva dire addio a tutto e a tutti. Come avrebbe potuto farlo, lei che era ancora giovane e che aveva tante cose da dire e da fare. Tuttavia, erano state sufficienti poche parole e tutto era crollato.

"Bisogna essere coraggiosi...". Facile a dirsi, difficile esserlo.

In ogni caso Giuditta si consolava nel sapere e conoscere ciò che occorreva e quando. Sapeva che aveva ancora, più o meno, un anno di vita. Voleva, doveva organizzare quest'anno, questo prezioso e meraviglioso anno. Quanta gente moriva improvvisamente a qualsiasi età, senza neanche avere il tempo di congedarsi dai suoi. Lei sapeva e poteva approfittare di questo breve periodo di tempo che le rimaneva. Ciononostante, aveva rinunciato alle sue amicizie recenti e passate per tornare nella sua cittadina natale, dove i suoi amici d'infanzia e dell'adolescenza dovevano essersi trasformati, dopo tanto tempo, in estranei.

Che cosa cercava in quelle montagne, quelle stesse montagne che anni prima le avevano dato l'impressione di soffocarla? Forse era il desiderio di stare da sola con sé stessa o l'illusione di poter tornare ad incontrarsi con la sua gioventù e la verginità del suo carattere o la speranza che lì il tempo passasse più lento... O forse solo perché non voleva la pietà o la compassione dei suoi amici.

Ma forse aveva solo bisogno di tempo per pensare e riflettere. Perché la morte non la cogliesse di sorpresa.

E lì come fosse crocifissa. Esanime, con le braccia stese e le gambe aperte, una grande bocca nera che gocciola sangue e materia, gli occhi sbarrati in uno sguardo fisso, terribile... Non insulta più le infermiere: non ha occhi che per l'orologio che segna lento e inesorabile i minuti. I dottori hanno detto che se la "cosa" esce presto, la paziente si salverà. I dottori sanno quanto soffra.

Si trattava della sorte tra la madre o il bebè. Ma dato che il cuore del piccolo non si sentiva più battere e ormai doveva essere morto, allora si salvò la madre.

Che cosa si poteva fare per quella povera donna? Giuditta stava facendo un corso per infermiera e le si avvicinò. Fece per accarezzarle la fronte, ma lo sguardo pieno d'odio che le lanciò la donna, la immobilizzò. Capì in quel momento che era troppo debole, troppo sensibile al male altrui, per occuparsi dei malati. Aveva desiderato poter avere cura del corpo del suo prossimo, però chi si sarebbe preso cura di lei? Si rese conto che avrebbe finito per identificarsi con ognuno dei malati, con ogni malattia. No, forse, sarebbe stato meglio aiutarlo psichicamente, dato che a volte, salvando il corpo s'infligge una ferita profonda ed insanabile allo spirito.

Lo aveva amato. Aveva sofferto per lui di gelosia, di rancore,

di paura, d'angustia. Una angustia sottile, che le faceva male dentro. Era stato la sua vita stessa. Per lui aveva cercato di morire. Ed ora dopo tanta sofferenza, finalmente si rendeva conto che si era trattato di attimi che già si erano diluiti nel niente, non lasciando alcuna traccia. Quasi le veniva voglia di sorridere pensando che, a volte, si vivono situazioni che ti portano alla pazzia, rubano momenti preziosi della nostra vita, ci torturano, ci spezzano e ci spingono come ciechi verso la distruzione di noi stessi... il suicidio. Poi passa il tempo e tutto si dimentica e si trasforma.

Giuditta sorride nel suo dormiveglia, sorride perché quel dolore antico le riscalda paradossalmente il cuore. Ora che potrebbe finalmente sentirsi serena perché ha superato l'epoca degli amori difficili, delle relazioni impossibili, delle rincorse per conseguire il niente, dell'inutile molestarsi inconcludente, ora che potrebbe tornare ad incontrarsi con se stessa, nella pace dei sensi. Ora è troppo tardi.

Il sole era già alto dietro le montagne quando Giuditta aprì finalmente gli occhi. Qualcosa l'aveva svegliata. In un primo momento non si rese conto dove stava. Avvertì il freddo che le saliva per il corpo dal pavimento, si guardò intorno e prese coscienza del suo stato, della sua realtà. Si mise a piangere. Lacrime leggere dapprima, poi un forte pianto amaro, di paura e disperazione. Ciò che l'aveva svegliata era la voce di qualcuno che stava gridando il suo nome. Un voce di bambino. Si alzò trascinandosi sopra le ginocchia, dato che la prolungata posizione notturna le aveva tolto le forze. La porta della casa si aprì lentamente e vide apparirle un ragazzino di dieci anni, vestito poveramente, con in mano una bottiglia piena di un liquido che aveva tutto l'aspetto del latte. Era latte. Giuditta lo guardò cercando di ritrovare nella sua memoria quegli splendidi occhi verdi che la fissavano, senza curiosità. Con franchezza e naturalità. Come se lei non fosse una estranea per lui. Fu lui a parlare per primo: "Mi chiamo Franco e sono il figlio di Monica, la figlia della vecchia Maria, sua vicina. Mia nonna mi ha chiesto di portarle questa bottiglia di latte e di chiederle se ha bisogno di qualcosa. Io la posso aiutare".

Giuditta si passò una mano sugli occhi come per vedere meglio, ma fu solo un gesto di nervosismo. Perché improvvisamente le era parso vedere Monica, una sua compagna di scuola e buona amica ai tempi della sua gioventù, così come l'aveva vista l'ultima volta: giovane, bionda e con i suoi grandi occhi verdi.

"E tua madre, come sta?"

"Mia madre è morta. Io non la conobbi. Morì dandomi alla luce."

"E tuo padre ?" "Neanche lui ho conosciuto. Emigrò in cerca di lavoro..."

Giuditta rimase silenziosa per alcuni minuti mentre Franco continuava a guardarla con una serietà negli occhi che contrastava con la sua faccia di bambino. Ma il suo silenzio non molestava né pesava. Era un silenzio d'attesa. L'attesa di chi non è abituato a discutere, bensì ad accettare le decisioni degli altri. Improvvisamente Giuditta sentì pena per lui.

"Però, Franco, non dovresti essere a scuola a quest'ora della mattina?"

"Io non vado a scuola. Mia nonna ha bisogno di me in casa."

"Però a te piacerebbe andarci, non è vero?"

Franco le diede uno sguardo d'adulto, di bambino cresciuto troppo alla svelta, e questa sembrava essere una delle sue caratteristiche più salienti.

"Sì, credo che mi piacerebbe imparare a leggere e a scrivere, però come dice la nonna, uno deve adattarsi a ciò che si ha e accontentarsi di ciò che si può ottenere onestamente, particolarmente quando si è poveri. Per questo, dato che sono solo al mondo e che l'unica persona che ha cura di me è lei... se lei dice che ha bisogno di me..."

Giuditta non seppe che rispondergli. Sembrava giusto ciò che aveva detto. Però lei sentì, per la prima volta nella sua vita, una voglia pazza di ribellarsi, non per se stessa, bensì per gli altri. Una voglia di mettersi a gridare per dire che anche Franco aveva diritto di migliorare la sua situazione, di progredire come qualsiasi essere vivente in questo mondo dove regna un egoismo bestiale, un mondo di merda.

Cosa non le passò per la testa in quel momento, nello spazio di pochi secondi. Parole pesanti e piene d'odio e di rancore. Pensò a se stessa: aveva vissuto una vita piena perché si era ribellata al destino che la voleva inchiodata lì, senza nessuna apparente possibilità di via d'uscita e tuttavia era sfuggita alla mediocrità di una vita squallida forse perché era stato più forte il suo desiderio di riscattarsi e di vivere la sua vita piuttosto che la paura di confrontarsi con essa. Era riuscita a farlo perché aveva potuto studiare: i libri, le letture e soprattutto la guerra, la maledetta guerra, l'avevano aiutata a maturare sebbene si trovasse in mezzo alla violenza. Doveva la sua libertà, quella dello spirito e della mente, alla caduta fragorosa del vecchio mondo ed alla nascita di nuove relazioni umane. Sicuramente doveva ammettere che c'era ancora molto da fare perché l'umanità potesse raggiungere un più alto livello culturale perché la guerra aveva portato con sé molto cambiamenti. Questi pensieri passarono per la sua mente come le sequenze di un film degli anni venti, rapidi e altalenanti, e come sempre la lasciarono confusa, senza sapere bene come aveva fatto a perdersi nel labirinto delle immagini che la sua fantasia aveva disegnato. Come sempre le succedeva che un pensiero la deviava per altre strade portandola verso altri ricordi e sensazioni. Senza binario.

Però l'espressione sulla faccia di Franco la portò di nuovo all'inizio dei suoi pensieri: ecco un bambino solo al mondo che apparentemente aveva bisogno d'aiuto. Non le erano mai piaciuti molto i bambini: li considerava fondamentalmente crudeli e con poca immaginazione (non si era mai dimenticata del giorno della sua prima comunione e del povero gattino). Forse perché nella sua vita non aveva pensato a nessun altro che non fosse se stessa e non si era mai preoccupata di guardarsi intorno e di vedere quanta gente aveva bisogno d'aiuto o di una semplice spinta per non affondare nella sporcizia che giorno dopo giorno gli si accumulava addosso.

Improvvisamente Giuditta si sentì come in preda alle vertigini e barcollò. Franco corse dal suo lato per soccorrerla. Capì in quel momento che entrambi avevano bisogno l'uno dell'altro.

"Ascolta, Franco, torna a casa tua e dì a tua nonna che più tardi andrò a parlare con lei".

Non sapeva bene ciò che voleva fare, però già qualcosa si stava delineando nella sua mente sempre pronta a gettarsi in nuove storie o fare voli con la fantasia. Questa volta però era decisa: avrebbe dedicato il suo ultimo anno di vita a Franco. Lui aveva bisogno di una madre e lei di qualcuno che le occupasse il tempo, la mente, lo spirito e il cuore. Qualcuno lassù in alto doveva sapere ciò che faceva. Forse non era ciò che gli uomini chiamano Dio ma doveva esserci qualcosa di superiore. Di nuovo si stava perdendo nel marasma dei suoi pensieri e delle sue riflessioni e stava andando alla deriva. Forse questa volta la sua fantasia si stava materializzando. Spinse il bambino fuori e lo vide allontanarsi correndo per il sentiero che conduceva a casa sua.

Poi voltandosi per entrare a casa, fissò il cartello dove il suo cognome era come nascosto sotto un velo di polvere e tirato fuori un fazzolettino lo passò sopra per togliere il primo strato di sudiciume. Apparì il suo nome anche se non era molto leggibile. Era la prova che la casa non era più vuota. Era tornata a vivere. Domani e dopo domani, che importava il futuro. Era il presente che contava. Forse il suo cuore debole avrebbe sopportato un'altra stagione. Si sentì improvvisamente forte e vitale con molta voglia di fare le cose. Tornava ad interessarsi alla vita e questa volta non era per pensare a se stessa bensì ad un altro essere. Sì, non c'era né passato né futuro: solo il presente.

Entrò in casa ripromettendosi di comprare un pulitore perché il suo nome tornasse a brillare sulla porta della casa come quando i suoi genitori erano vivi. Pulì la casa a fondo con l'aiuto di Franco, anche perché lei non poteva stancarsi. E avrebbe chiesto l'assistenza della nonna o di qualsiasi altra persona e avrebbe... avrebbe... avrebbe...

Per Dio !.

 

 
 
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agg. 15 novembre 2001