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Linguistica
e Glottodidattica
- Giuliana
Garzone
-
- THE
CULTURAL TURN.
- TRADUTTOLOGIA,
INTERCULTURALITÀ
- E
MEDIAZIONE LINGUISTICA
-
-
- C'erano una volta la
traduzione e l'interpretazione, i translation
studies e gli interpreting studies.
Esistono tuttora, ma oggi la scena è dominata
da un concetto più ampio, che include e al
contempo trascende quelle categorie e viene applicato
sia alla descrizione dell'area disciplinare sia alle
attività professionali che ne sono l'oggetto:
il concetto di mediazione linguistica e
culturale.
- L'uso di questo sintagma, ora
presente nelle tabelle del Ministero
dell'Università e nell'organigramma del
Ministero degli Interni e di tante istituzioni
pubbliche, ha origine relativamente recente. Potrebbe
sembrare quindi una innovazione nata per ben figurare
tra le denominazioni, talora abbastanza fantasiose e
accattivanti, delle nuove classi di
laurea.
- Al contrario, vorrei
dimostrare qui come la nuova categorizzazione, che
riunisce traduzione e interpretazione sotto un'unica
"etichetta", rifletta una radicale trasformazione
nell'ambito delle scienze della traduzione, che in
anni recenti hanno visto da un lato importanti
evoluzioni di tipo disciplinare, sia nei
translation studies sia negli interpreting
studies, e dall'altra hanno registrato un profondo
mutamento in alcuni dei profili professionali del
settore.
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- 1.
Evoluzione dei translation studies
-
- Esaminiamo innanzi tutto gli
sviluppi recenti dei translation studies. Nel
corso della storia, in fase pre-traduttologica, e poi
nei primi decenni di esistenza della disciplina
specifica, la riflessione sulla traduzione ha dedicato
attenzione pressoché esclusiva agli aspetti
più prettamente linguistici, primariamente a
quelli di ordine micro-sintattico ed in seguito anche
a quelli macro-sintattici e testuali, ponendo il
problema della traduzione in termini di fedeltà
al testo fonte e concentrandosi sul prescrittivismo
del "come si traduce". Con il paradigm shift
verificatosi a partire dai primi anni '80,
è emersa una concezione più aperta e
più flessibile della traduzione come
riscrittura e come processo generatore di testi
destinati a funzionare non solo in senso
intersistemico, ma anche come atti comunicativi
intrasistemici all'interno della cultura destinataria.
In particolare, nella prospettiva funzionalista e in
quella descrittivista è emersa la tendenza a
concentrare l'attenzione rispettivamente sullo
Skopos del testo tradotto nel contesto della
società a cui esso è destinato,
postulando il requisito dell'adeguatezza
(Adäquatheit) a tale Skopos, e
sulla posizione della traduzione all'interno della
compagine della cultura ricevente1.
- Ecco allora che la dimensione
culturale viene ad assumere importanza primaria, si fa
elemento portante nell'ambito delle scienze
traduttologiche, che superano la concezione
positivista della lingua e della traduzione come
scienza "esatta". In questo contesto si colloca il
cultural turn che André Lefevere e Susan
Bassnett (1990) invocavano in un loro noto saggio,
riprendendo un'idea di Mary Snell-Hornby (1990): la
traduzione non deve e non può più essere
concepita esclusivamente come linguistic
transcoding, ma piuttosto come un processo che
implica un'importante operazione di cultural
transfer. Mutuando - come ha fatto sovente la
sociolinguistica contemporanea - il concetto di
ordine di discorso da M. Foucault (1970), si
può affermare che l'ordine culturale del
discorso costituisce la dimensione fondamentale
entro la quale si colloca il processo traduttivo,
dimensione che controlla le scelte traduttive a tutti
gli altri vari livelli (lessico-grammaticale,
semantico, pragmatico). Questo non equivale a negare
la natura fondamentalmente linguistica della
traduzione, che è per definizione
attività primariamente linguistica da cui si
generano tutti gli altri ordini di significazione, ma
vuole sottolineare il fatto che, in realtà, per
operare le proprie scelte in modo coerente il buon
traduttore fa riferimento innanzi tutto proprio a una
logica di tipo essenzialmente culturale, essendo
consapevole delle ripercussioni che ogni singola
decisione può avere ai livelli superiori della
significazione e sul valore del testo tradotto
nell'ambito della cultura ricevente.
- Per quanto riguarda il
cultural transfer, non esiste alcuna formula o
alcuna "ricetta" prefissata che suggerisca o prescriva
le modalità con cui lo si può realizzare
in ogni singolo caso. A decidere su tali
modalità concorrono numerosi elementi che il
traduttore valuta prima di scegliere l'approccio da
adottare, tanto più che - come ha ben messo in
luce la traduttologia contemporanea (Toury: 1995;
Apel: 1993, 61) - il concetto stesso di traduzione non
è univoco, ma culturalmente mediato: il
traduttore si trova necessariamente a condividere e a
rispettare, e quindi ad applicare, la concezione
traduttologica immanente della società a cui la
traduzione è destinata.
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- 2.
Gli interpreting studies
-
- Nel campo degli
Interpreting Studies i cambiamenti non sono
stati meno profondi, pilotati in parte dall'evoluzione
poc'anzi delineata nella traduttologia, a cui questa
giovane disciplina è strettamente correlata, ma
soprattutto provocati da spinte di tipo politico e
sociale davvero epocali.
- Fino ad una decina di anni
fa, in questo settore le sole attività di
interpretazione considerate degne di esercizio
nell'ambito della professione e di attenzione a
livello di ricerca erano la simultanea e la
consecutiva, cioè le due modalità
dell'interpretazione di conferenza. Anche ai fini
della formazione, si riteneva che il training
in tali modalità potesse essere più che
sufficiente ad affrontare qualsiasi altra forma di
mediazione linguistica orale che non rientrasse
nell'interpretazione di conferenza, dal
chuchotage all'interpretazione di trattativa.
Infatti, anche in passato gli interpreti erano
presenti nelle aziende, nei tribunali, nella
diplomazia ed in altri contesti di contatto
internazionale diretto, ma con un'immagine
professionale di scarso profilo e bassi livelli
retributivi: per questo venivano ignorati dalla
boothed gentry 2
che operava nell'ambito dell'interpretazione di
conferenza e dominava la disciplina.
- Anche nel settore degli
Interpreting Studies la ricerca partiva da una
concezione scientista del fenomeno traduttivo e
interpretativo, concentrandosi sui processi mentali
grazie ai quali l'interprete riesce quasi
miracolosamente a riprodurre un testo in tempo reale,
e si affidava in parte ad approcci empirici, basati
sull'osservazione o sull'introspezione, oppure si
poneva in una prospettiva multidisciplinare,
attingendo alla neurofisiologia ed alla
psicolinguistica, alle quali peraltro la simultanea
fornisce un interessante campo di indagine proprio
perché dà luogo a condizioni affatto
particolari di uso della lingua. Numerosi anche gli
studi sul prodotto dell'interpretazione, focalizzati
soprattutto sull'analisi degli errori e sulla
misurazione degli standard di qualità.
Considerazione davvero scarsa, se non nulla, era
invece riservata alla componente culturale, un
atteggiamento che rifletteva l'esigua attenzione e
l'ancor più esiguo margine di manovra concessi
al cultural transfer nella modalità
simultanea e, seppure in modo forse meno evidente, in
quella consecutiva a causa non solo della restrizione
temporale, ma anche della marginalità
dell'interprete rispetto al participation
framework dell'evento comunicativo. Infatti, come
W. Dressler ha ben puntualizzato, l'interprete
è solo bystander o overhearer
nella simultanea e tutt'al più ratified side
participant nella consecutiva:
-
- In terms of
participant roles, in conference interpreting
the interpreter is not a participant in her/his
own right: s/he is only a co-speaker who has to
imitate and transfer the immediate interpretant
of the source text into the target text
(Dressler: 1994, 104-105).
-
- Quindi, come fa osservare
Franz Pöchhacker, in queste modalità
l'interpretazione "rather resembles a sort of
'voice-over' than a culturally autonomous text in the
target language" (Pöchhacker: 1994, 176-177) ed
è in sostanza molto simile al doppiaggio, che
lascia intatte le coordinate comunicative dell'evento
originario e vi sovrappone una voce che dà
accesso ai contenuti della comunicazione
stessa.
- Ma i profondi cambiamenti
politici e sociali avvenuti negli ultimi anni hanno
accresciuto a dismisura il volume e l'importanza delle
modalità di interpretazione al di fuori del
contesto di conferenza. L'emergenza immigrazione ed i
sempre più intensi contatti interetnici e
interculturali hanno richiamato l'attenzione sulle
attività di mediazione linguistica orale che
oggi vanno complessivamente sotto la denominazione di
interpretazione dialogica (dialogue
interpreting), a sottolineare la partecipazione
diretta dell'interprete all'interazione
comunicativa.
- Inizialmente, anche in questo
settore la ricerca si è portata dietro alcuni
pregiudizi maturati nella ricerca sull'interpretazione
di conferenza ed è stata dominata da un
concezione dell'interprete come "non-involved
'conduit'", un attore invisibile, una sorta di lastra
di vetro, o un interfono la cui presenza ha l'unico
scopo di rendere possibile la comunicazione tra i
partecipanti veri e propri. Si tratta di una
concezione che diversi autori, su vari versanti, si
sono impegnati a sfatare (per es. Roy: 1990;
Wadensjö: 1998), a mano a mano che la pratica
dell'interpretazione dialogica faceva emergere in modo
prepotente l'assoluta centralità del ruolo
dell'interprete non solo come macchina per tradurre,
ma anche e soprattutto come mediatore culturale.
- Questo vale in particolare
per l'interpretazione di comunità,
"usually conducted within public or private
institutions, in health, legal, education, labour
market and social service settings" (Niska: 2002,
135), che comprende tutta una serie di situazioni di
tipo istituzionale e sociale, come quelle che vanno
sotto la denominazione di Public Service
Interpreting (PSI) e tutte le forme di servizi di
traduzione orale svolti nel contesto medico (medical
interpreting) e in quello giuridico e giudiziario
(court interpreting), nelle quali il ruolo di
mediazione culturale acquista rilevanza fondamentale,
costituendo un imprescindibile complemento
all'attività di mediazione linguistica vera e
propria: in considerazione delle situazioni in cui si
svolge e dello status delle persone coinvolte,
il lavoro di trasferimento linguistico può
risultare praticamente inutile se non è
integrato dalla mediazione culturale e l'interprete
non assume anche il ruolo di cultural broker
(Niska: 2002, 137-139). Un ruolo peraltro tutt'altro
che semplice, che solleva non pochi interrogativi di
ordine etico in relazione alla auspicabile
"neutralità" del mediatore (cfr. Rudvin:
2002).
-
- 3.
La componente culturale
-
- Pertanto, per vie diverse, ma
sempre per effetto di un mutamento nell'atteggiamento
di fondo verso le attività traduttive, oggi
meno rigido e pronto ad alzare lo sguardo dal processo
di codificazione e ricodificazione nella sua
componente meramente linguistica ed estenderlo alla
comunicazione nel suo complesso in quanto scambio
interpersonale e strumento di azione sociale
all'interno di un preciso contesto situazionale e
culturale, si giunge ad una nuova visione del ruolo
del mediatore linguistico, traduttore o interprete che
sia. Questa rinnovata visione consente di mettere a
fuoco gli elementi che accomunano la traduzione e
l'interpretazione, in tutte le loro diverse
realizzazioni ed applicazioni: il loro essere
attività di mediazione su due fronti che
reciprocamente si implicano, quello linguistico e
quello culturale. Un intimo rapporto tra lingua e
cultura messo in luce ed enfatizzato dagli autori di
parte relativista e neo-relativista che postulano che
ogni lingua implichi un diverso modello di pensiero e
di categorizzazione della realtà, appreso e
trasmesso con la lingua stessa (cfr. Gumperz -
Levinson: 1996), ma oggi ampiamente riconosciuto anche
in altri settori della cultura
contemporanea.
- Vale la pena a questo punto
di concentrarsi sulla componente culturale, in modo da
discuterne la rilevanza effettiva all'interno del
processo traduttivo e interpretativo.
- Il concetto di cultura non
è certo univoco ed è stato oggetto di
numerose definizioni in ambiti diversi, per lo
più valide e convincenti, ma inevitabilmente
parziali a causa dell'ampiezza e della forte
articolazione del concetto stesso. Per questo, in
ambito scientifico è emersa la tendenza a
scomporre tale concetto in diversi livelli, dimensioni
o categorie, in modo da poterne esaminare
separatamente gli numerosi aspetti e le componenti.
Molto note, anche al di fuori dell'ambito disciplinare
specialistico, sono per es. - tra le tante - le
categorizzazioni di Gregory Bateson e quelle, a
orientamento più specificamente aziendale, di
Geert Hofstede e di Charles Hampden-Turner; degna di
essere ricordata, seppure assai meno consciuta e
prestigiosa, è quella di Bistra Alexieva (in
Kondo et. al.: 1994), in quanto riferita
specificamente all'interpretazione. Ovviamente il
numero dei livelli descritto dipende dal dettaglio e
della articolazione con cui si desidera trattare
l'argomento.
- Per amore di semplificazione,
ci si accontenterà qui di distinguere a titolo
preliminare le principali dimensioni disciplinari del
concetto di cultura che risultano rilevanti ai fini
della mediazione linguistica.
- Vi è innanzi tutto la
dimensione più specificamente "culturologica",
che riguarda aspetti empiricamente osservabili della
vita di una nazione, basata su una concezione di
cultura in quanto condivisione di conoscenze, di
valori e di un repertorio di saperi razionalmente
descrivibili e catalogabili, che costituiscono il suo
patrimonio enciclopedico. Ne fanno parte la
letteratura, la storia, la religione, la legge, le
istituzioni di un popolo e tutto un patrimonio di
shared knowledge relativo alla vita
contemporanea, la stampa, i programmi televisivi, lo
sport, i personaggi pubblici, le mode ecc.
- Vi è poi una
concezione più genericamente antropologica
delle cultura, che si situa a un maggior livello di
generalizzazione e a rigore comprende anche gli
aspetti poc'anzi discussi. Nella sua componente
formale (e mutuo qui da E.T. Hall la distinzione tra
livello formale ed informale della cultura),
cioè nella sua componente concreta e
descrivibile, questa concezione di cultura riguarda
gli usi, i costumi, i valori e le credenze di una data
comunità, con un'influenza profonda e diretta
sul modo di comportarsi e di esprimersi dei suoi
membri.
- Vi è inoltre una
dimensione "informale" della cultura, che comprende
aspetti invisibili e difficilmente catalogabili; E.T.
Hall (1959/1984: 82) li descrive come "l'insieme delle
attività che un giorno abbiamo imparato, ma che
sono talmente integrate nella nostra vita quotidiana
da diventare automatiche: è un livello senza
regole scritte ma fatto di modelli subconsci ai quali
si risponde".
- Queste categorie riguardano
il modo di pensare, di comportarsi e di esprimersi di
un gruppo etnolinguistico: Geert Hofstede (1991) parla
di "patterns of thinking, feeling, and acting" e le
presenta come forme di programmazione della mente,
"software of the mind", come recita il titolo di un
suo fortunato volume. Nella teoria di Hofstede
è interessante anche la differenziazione tra i
programmi culturali condivisi da un'intera nazione,
"that component of our mental programming which we
share with most of our compatriots as opposed to most
other world citizens", e quelli propri di singole
sotto-culture, "components associated with our
profession, regional background, sex, age group, and
the organizations to which we belong". La medesima
distinzione si ritrova infatti in ambito
traduttologico, proposta da Hans J. Vermeer (1983),
che distingue tra paracultura, la cultura dei
grandi gruppi etnici e nazionali, e la
diacultura, corrispondente al concetto
sociologico di sotto-cultura, propria di gruppi
ristretti.
- Ai fini più
propriamente traduttivi (sia nella traduzione scritta
sia in quella orale), i primi due aspetti della
specificità culturale, quelli concretamente
osservabili, risultano particolarmente significativi e
problematici, sia in fase ricettiva sia nella
prospettiva della cultura ricevente. Infatti, se, come
fa notare U. Eco (1995: 138-139), l'atto ermeneutico
che il traduttore compie nell'interpretare il
testo-fonte è pur sempre una scommessa, la fase
di ricodifica comporta l'esigenza di produrre nella
stesura della traduzione una rappresentazione concreta
di tale interpretazione ed è seguita nella fase
successiva da un nuovo processo interpretativo da
parte dei lettori del testo tradotto, che
presumibilmente nella maggior parte dei casi sono di
gran lunga meno consapevoli delle divergenze
interculturali di quanto non lo sia il traduttore. Il
problema consiste quindi non solo nel riconoscere e
valutare correttamente il valore e la funzione di un
dato culturema (così è stato proposto di
chiamare l'unità semiotica dei fenomeni
culturali; cfr. Vermeer: 1983, 8) presente nel testo
di partenza, ma soprattutto di trovare modalità
adeguate per realizzarne la trasposizione all'interno
di un'altra cultura. Infatti, anche nei casi fortunati
in cui questa trasposizione sembra realizzabile per
mezzo di un'operazione puramente linguistica, non
è detto che il culturema abbia il medesimo
significato nella cultura ricevente. Per es.,
banalmente, si può pensare al significato ed
alla effettiva realizzazione di frasi come "prendere
il tè" e "to have (one's) tea" nella cultura
italiana e in quella inglese. Anche la trasposizione
di elementi comuni e semplici non può seguire
procedure prefissate, ma richiede un'operazione
più complessa, un progetto traduttivo ad
hoc, specifico e diverso per ogni singolo testo,
che parta dalla valutazione di tutta una serie di
elementi, tra i quali l'uso a cui la traduzione
è destinata e la natura del testo, e
soprattutto tenga conto della concezione
traduttologica e dei valori dominanti propri della
cultura destinataria. In questa prospettiva,
particolare rilevanza riveste la valutazione della
posizione o, meglio, del valore del testo di partenza
nella cultura originaria e la funzione, lo
Skopos, a cui è destinato il testo
tradotto nella cultura ricevente. Sulla base di questi
elementi, lucidamente, il traduttore sceglie un dato
tipo di soluzione tra le tante
disponibili3
e, sulla base dell'approccio selezionato, parte alla
ricerca di corrispondenze o di omologie o di simmetrie
tra elementi dei due codici coinvolti, sia sul
versante linguistico sia - soprattutto - su quello
semiotico. In buona sostanza, il traduttore parte da
certi presupposti con certi obiettivi e produce una
"buona traduzione" se agisce con coerenza rispetto a
tali presupposti.
- Com'è ovvio, queste
osservazioni hanno notevole importanza ai fini della
formazione del mediatore linguistico.
- Per quanto riguarda la
competenza relativa alla componente concreta e formale
della cultura di una data comunità
etnolinguistica, si tratta di un tipo di conoscenza
che è possibile maturare attraverso
l'osservazione e lo studio e pertanto deve
necessariamente essere oggetto di attenzione e di
apprendimento all'interno di un programma di
formazione per mediatori linguistici. Invece, la
componente informale, che non costituisce una forma di
sapere, ma piuttosto una competenza procedurale,
è meno facilmente "insegnabile", ovvero
inseribile in un progetto didattico, e viene acquisita
essenzialmente attraverso l'esposizione e l'esperienza
individuale. Ciò rende consigliabile che chi
aspira alla professione di mediatore linguistico
maturi un'esperienza diretta di contatto con la
comunità dei parlanti di ciascuna delle sue
lingue di lavoro. Peraltro, bisogna anche considerare
che non sono pochi i casi in cui una lingua è
parlata come nativa in più di un paese, essendo
magari utilizzata anche in altre aree come lingua
seconda o lingua veicolare o, più in generale,
come lingua per la comunicazione internazionale.
Risulta pertanto fondamentale a livello di formazione
fornire strumenti di attenzione e di acquisizione nei
confronti delle culture altre, in modo che oltre alle
competenze culturali formali e informali
effettivamente apprendibili nella fase di studio
preparatorio, il mediatore linguistico e culturale
sappia autonomamente sviluppare competenze culturali
nuove ed aggiornare quelle pregresse.
-
- 4.
Osservazioni conclusive
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- Dalla discussione è
emerso in modo chiaro come l'avvento del concetto
stesso di mediazione linguistica e culturale rifletta
una concezione rinnovata delle attività che vi
rientrano. Infatti, di per sé il ricorso
all'idea di "mediazione" è segno di una
concezione più flessibile e aperta del tradurre
e dell'interpretare come processi di comunicazione e
di confronto, laddove i termini "traduzione" e
"interpretazione" si riferivano più
specificamente alle operazioni svolte sul testo nel
passaggio da una lingua all'altra rispettivamente
nella modalità scritta e in quella orale.
L'aggiunta poi dell'aggettivo culturale nella
denominazione "mediazione linguistica e
culturale" o anche, semplicemente, "mediazione
culturale" enuncia apertamente la presenza e la
centralità della componente culturale. Nella
prospettiva della formazione, questo implica un
impegno di gran lunga più articolato e
complesso rispetto a quello che caratterizzava i corsi
universitari tradizionali di traduzione e
interpretazione (in Italia, le Scuole Superiori di
Lingue Moderne - vere e proprie facoltà di
traduzione e interpretazione - e le Scuole Superiori
per Interpreti e Traduttori). Un impegno che non
può fare a meno di assumere carattere
multidisciplinare e che certamente servirà a
trasformare gli studenti dei Corsi di Laurea in
Mediazione Linguistica e Culturale in operatori capaci
e competenti e al contempo, certamente più di
quanto non avvenga in molti altri corsi di studi
universitari, contribuirà a promuovere in loro
la sensibilità nei confronti dell'Altro, del
diverso, e una mentalità aperta alle
prospettive ed ai problemi di un'età in cui
l'eurocentrismo del passato deve lasciare il posto ad
una comprensione profonda della natura multietnica e
variegata del mondo contemporaneo.
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