-
Linguistica
e Glottodidattica
- Francesca
Santulli
-
- POLIGLOSSIA
SENZA MULTILINGUISMO: L'INCOMPRENSIBILE DIVENTA
COMUNICATIVO NELLA
PUBBLICITÀ
-
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- Diglossia,
per cominciare
-
- Negli ultimi anni il
dibattito sulla "invasione" di cui sarebbe oggetto la
lingua italiana (e non solo quella) da parte
dell'inglese si è frequentemente esteso al di
là dell'ambito delle riviste specialistiche,
occupando non di rado anche le pagine dei quotidiani.
Tra le voci autorevoli degli studiosi e degli esperti
il Corriere della sera, qualche anno fa,
ospitava anche quella di Mario Negri, già
intervenuto su quello stesso quotidiano nello spazio
riservato ai lettori (e maltrattato nella risposta da
un Beppe Severgnini troppo provocatorio), il quale, da
linguista, prospettava ai lettori meno consapevoli le
caratteristiche essenziali di una situazione di
diglossia. Che, dall'autore del pezzo, era subito
percepita o comunque presentata al pubblico incauto
come un "incubo" (che come tale non può che
avere un nome ostico e curioso, forse persino
cacofonico). Spaventarsi della propria ignoranza non
è però il modo migliore per iniziare ad
apprendere, ché, anzi, riconoscere i propri
limiti è il primo e più importante passo
sulla strada della conoscenza (il motto su cui
simbolicamente si fonda la nascita della sapienza
occidentale) e i modelli dei linguisti non sono (solo)
astrusi edifici in cui si complica e si disperde la
realtà, possibilmente sintetizzati in oscure ed
esotiche etichette, vuote quanto incomprensibili e,
dunque, inutili. Ciò dimostra con particolare
evidenza la parola (e il concetto di) diglossia.
Quando Ferguson, nel 1959, portando all'attenzione
degli studiosi situazioni sociolinguistiche già
ampiamente note e analizzate cui riconosceva un comune
denominatore, intitolava così un suo saggio
(Ferguson: 1959)1,
operava una sintesi efficace e, attraverso
l'introduzione di un chiarimento terminologico
esplicito, induceva a valutare separatamente
situazioni di convivenza di due lingue presso una
stessa comunità cariche di implicazioni
sociologiche2.
Ma il destino di diglossia non è stato,
almeno finora e soprattutto in Italia, felice (persino
il mio sapiente computer mi mostra, con una riga
rossa, che non ha diritto di esistenza nel vocabolario
comune più di Ferguson o
Severgnini), benché il fenomeno sia,
proprio hic et nunc, ben noto e solo mutato nei
tempi più recenti. La mia personale impressione
(ricavata anche dalla frequentazione di convegni in
cui si discute di integrazione e di
interculturalità) è che un po' di
confusione e talvolta tanta approssimazione nei
giudizi e sbrigativa essenzialità nel delineare
proposte e prospettive derivi non da ultimo proprio
dall'inconsapevole ignoranza di categorie e modelli
(socio)linguistici, sicché si taglia coll'ascia
là dove, almeno, occorrerebbe un coltello. Ma
questa è una divagazione ormai troppo
lunga.
- Il termine diglossia,
come ben sa ogni studioso (e studente) di linguistica,
descrive una situazione in cui, all'interno in una
comunità, vengono usate due o più lingue
con funzioni differenziate, che difficilmente si
sovrappongono3.
Non è qui il caso di esaminare le varie
possibilità e implicazioni che ciò
comporta, con tutte le considerazioni relative alla
(possibile) parentela genetica tra le lingue coinvolte
o al prestigio e ai valori, anche letterari, che a
queste in varia misura si attribuiscono: si tenga solo
ben presente che questa situazione non ha in
realtà molto a che fare con la capacità
individuale di parlare (più o meno bene) due
lingue, cui riserviamo la denominazione di
bilinguismo 4.
Proprio la combinazione dei due fenomeni permette di
delineare con maggiore precisione le situazioni
storiche e di valutarle. In un articolo del 1967,
successivamente ripreso in numerosi studi e manuali,
Fishman esaminava le quattro diverse
possibilità combinatorie: diglossia con e senza
bilinguismo, bilinguismo senza diglossia e, infine,
né bilinguismo né diglossia (Fishman
1967)5.
È ben difficile che una società
rispecchi rigidamente questo schema di inclusioni ed
esclusioni, sicché il modello va inteso in
termini tendenziali. In particolare, mi pare
interessante l'opposizione tra una società in
cui la diglossia si accompagna (massicciamente o
almeno frequentemente) al bilinguismo e una in cui
invece, benché permangano distinzioni
funzionali, la maggioranza dei parlanti non è
in grado di dominare tutti i mezzi espressivi
coinvolti. Né sono pochi gli esempi di
quest'ultimo tipo che la storia ci offre: quanti,
nella Roma repubblicana dominata dalla cultura e dalla
lingua greca, potevano definirsi bilingui? E quanti,
tra le popolazioni romanze o germaniche del Medioevo,
erano in grado di comprendere o di parlare altro che
il proprio volgare, benché il latino fosse lo
strumento indispensabile per accedere non solo alla
cultura ma pure all'amministrazione, alla giustizia,
di fatto, per lungo tempo, a qualsiasi testo scritto?
La diglossia senza bilinguismo porta inevitabilmente
con sé profonde ingiustizie sociali,
perché esclude automaticamente chi bilingue non
è da tutte le funzioni che richiedono l'uso
dell'altra lingua e da questa considerazione, a ben
guardare, nascono le legislazioni moderne a difesa
delle minoranze linguistiche. La mancanza di
bilinguismo diffuso è dunque il vero limite
sociologico, che può trasformare il sogno di
una società aperta, poliglotta e multietnica,
in un incubo. Tuttavia, riservare a certe funzioni
l'uso di una lingua diversa può portare ad un
impoverimento l'idioma precedente. Chiariamo con un
esempio: se gli studiosi italiani scegliessero (come
già di fatto molti hanno fatto) di esprimersi
nelle sedi scientifiche (congressi, riviste
specializzate, magari anche corsi universitari di alto
livello) solo in inglese, l'italiano potrebbe perdere
più o meno rapidamente la capacità di
evolversi e di adattarsi a quei consessi, non solo non
arricchirebbe più il suo lessico nei settori
coinvolti, ma non svilupperebbe i mezzi stilistici e
retorici propri delle tipologie testuali in questione.
Questo, in buona sostanza, il rischio della diglossia,
che tuttavia non necessariamente (e anzi a parer mio
difficilmente) evolve nel depauperamento generalizzato
della lingua messa da parte, tanto più se
questa è il mezzo di comunicazione primario di
un ampio gruppo di parlanti che trasmette e sviluppa
cultura. Le situazioni di diglossia, lo notava
già Ferguson, possono anche essere molto
stabili e durare a lungo, né si concludono
sempre con l'affermazione della lingua che, in un
momento dato, appare di maggior prestigio. Il latino,
pur inizialmente "suddito" del greco, ha potuto non di
meno diventare il mezzo più potente di
trasmissione dei valori del mondo occidentale e uno
degli elementi più significativi nel processo
di omogeneizzazione della cultura europea; i volgari,
nei tempi e nelle condizioni opportune, sono diventati
strumenti utilizzabili per qualsiasi funzione e hanno
a loro volta segnato la morte definitiva del
latino6.
-
- Bilinguismo,
dialetti, varietà.
-
- Ritornando alla situazione
presente si può notare che bilinguismo e
diglossia tendono a diffondersi sempre di più,
in stretta relazione con l'aumento dei contatti tra
parlanti di provenienza diversa da un lato e,
dall'altro, con la ricerca, mai sopita, di uno
strumento di comunicazione internazionale e
interculturale. La torre di Babele resta sempre,
nell'immaginario, una sorta di colpa originale da cui
sarebbe auspicabile redimersi. Nascono così i
vagheggiamenti di una lingua franca più
o meno credibile, esperanto, europanto e
così via, alla ricerca di una uniformità
illusoria, perché seppure una lingua nasce
(artificialmente) unitaria è destinata ad
articolarsi nello spazio e nel tempo, perché
questo è normale di una lingua naturale, la
variazione e la varietà. Una lingua riflette e
subisce la storia e, se non resta chiusa nella memoria
di un computer o schematizzata nei modelli dei
linguisti, diventa ciò che di essa sanno fare i
suoi parlanti, ampliando o restringendo così le
sue potenzialità. L'idea, per dirla in altri
termini, che l'inglese diventi (o sia già
diventato) l'equivalente moderno del latino forse non
deve turbare troppo chi, per partecipare a pieno
titolo ad alcune attività del "villaggio
globale", si sente costretto ad impararlo: quando il
latino era ancora la lingua internazionale dei dotti,
Dante scriveva la Commedia! Piuttosto che la
lotta alla diglossia il problema è dunque la
diffusione del bilinguismo, perché comprendere
e agire in certe aree richiede il possesso di un altro
strumento linguistico, non diversamente da come, solo
alcuni decenni fa, la partecipazione a numerosi
aspetti della vita politica e sociale richiedeva a
molti italiani l'apprendimento di una lingua per loro
straniera: l'italiano. Ciò evoca un altro
spettro, il dialetto, che pure si insinuava nelle
argomentazioni proposte nell'articolo da cui ha preso
le mosse questa discussione. Il rischio è che,
materializzandosi l'incubo della diglossia, l'italiano
diventi un dialetto. Affermazione più o meno
osteggiata o condivisa, spesso senza valutare il
significato delle parole coinvolte. Molto bene Haugen
rilevava il valore relativo dei termini, introducendo
nella riflessione un terzo, importantissimo elemento:
la nazione (Haugen: 1966). L'italiano oggi non
può certo diventare un dialetto
dell'inglese, e non solo perché questa
definizione turberebbe molti linguisti per la mancanza
di un rapporto genetico sufficientemente stretto tra
le due lingue, ma perché manca negli italiani
l'identificazione con una comunità di cui
l'inglese sia espressione. Né, per passare a
considerazioni più strettamente linguistiche,
credo che una lingua per essere tale debba
necessariamente e concretamente coprire
tutte le funzioni possibili, e neppure tutte quelle
che compaiono negli schemi sociolinguistici.
Altrimenti, per fare un esempio a noi vicino,
cent'anni fa l'italiano avrebbe potuto essere
considerato una lingua solo ritenendone parte
integrante la parlata toscana (cosa non
automaticamente sostenibile) perché la lingua,
scritta, che noi definiamo tale era certamente esclusa
dagli usi familiari, come dimostra ancora l'estrema
frammentazione del lessico quotidiano, e da moltissime
situazioni di interazione orale (l'esempio che di
solito stupisce gli studenti è quello di
Manzoni che scrive in italiano, colloquia in milanese
e disquisisce in francese), mentre per altro verso il
latino era ancora la lingua della
liturgia.
- Infine, i confini tra lingua,
dialetto, varietà non sono sempre netti e
soprattutto non sono sempre qualitativamente diversi.
La consapevolezza del carattere diasistemico
della lingua che si ritiene di conoscere e
abitualmente si usa rende, dal punto di vista teorico,
le situazioni di bilinguismo ancor meno eccezionali di
quanto oggi già non siano, mentre gli stessi
fenomeni di interferenza che dal bilinguismo
necessariamente discendono non appaiono diversi dal
continuo migrare di caratteristiche e di elementi
(anche in questo caso primariamente lessicali) da una
varietà all'altra della stessa lingua. Tali
passaggi non sono solo il risultato di conoscenze
imperfette o inadeguate, dell'incapacità di
dominare particolari forme o registri espressivi; sono
spesso il frutto di scelte autonome, ancorché
talvolta solo parzialmente consce, finalizzate al
conseguimento di particolari effetti espressivi o
finalità comunicative. Esempi numerosi si
possono cogliere non solo in testi (para)letterari, ma
anche nella conversazione quotidiana, in cui pure
sovente si gioca con gli effetti "stranianti" di
termini aulici, obsoleti, tecnici, volgari,
dialettali. L'elemento inatteso tiene desta
l'attenzione, richiama l'ascoltatore a decodificare
l'ironia, evoca un altrove in cui, come su uno
specchio in negativo, si coglie il valore del
messaggio. Nel gioco dei richiami entrano sempre
più spesso numerosi elementi alloglotti, in
virtù di una conoscenza più diffusa
delle lingue straniere ma non certo in proporzione
meramente corrispondente a questa. Per la maggior
parte si tratta di anglicismi. A molti studiosi e
parlanti questi sono apparsi così numerosi da
far nascere una vera e propria "questione", di cui io
stessa ho avuto modo di discutere in un breve saggio
(Santulli: 1998). Prescindendo dalle osservazioni
più tecniche, mi pare opportuno sottolineare,
come notavo già allora, che nella diffusione
delle forme alloglotte, oltre ai valori positivi che
si attribuiscono alla lingua straniera, sia in gioco
il prestigio che il parlante attribuisce alla
condizione di bilinguismo. Limitando il discorso
all'interferenza lessicale, che è anche quella
più evidentemente riconoscibile, al di
là di quei casi (tutto sommato limitati) che i
linguisti etichettano come "prestiti di
necessità", i termini stranieri sono preferiti
se la lingua da cui provengono è dotata di
prestigio; di conseguenza il diffondersi graduale dei
prestiti di questo tipo (che nella lingua comune sono
la maggioranza) anche tra i parlanti non bilingui crea
una dimensione di variazione diastratica, mentre
neppure infrequenti sono le variazioni diafasiche,
allorquando il parlante adegua le proprie scelte alle
capacità di comprensione dell'interlocutore, ma
anche, prescindendo da queste e quindi dalla
possibilità di trasmettere felicemente il
contenuto del proprio messaggio, al proprio desiderio
di mostrarsi in grado di utilizzare parole straniere.
In certe situazioni questa ostentazione può
lusingare l'ascoltatore che, pur comprendendo magari
assai poco i termini alloglotti, è gratificato
dall'idea (non necessariamente corretta) di esserne
ritenuto capace. Le scelte linguistiche manifestano
così, in questi casi con maggior evidenza che
in altri, il loro valore di interazione sociale e
culturale.
-
- Il
linguaggio pubblicitario
-
- Un ambito specifico mi pare
mostrare con particolare chiarezza meccanismi di
questo tipo, quello della lingua della
pubblicità, ove sempre più spesso si
insinua una seppur ristretta forma di poliglossia,
naturalmente disgiunta da un parallelo e adeguato
multilinguismo. Del resto è ben noto che il
messaggio pubblicitario non si fonda sulla
trasmissione di dati referenziali, neppure quando
finge di fornirne: lo mostrano innanzi tutto termini
ed espressioni estremamente specialistici e tecnici di
difficile comprensione per il parlante comune (e che
in verità possono talvolta restare oscuri anche
dopo esser passati al vaglio dell'analisi
scientifica). Varietà, o elementi di
varietà intralinguistiche possono essere
incomprensibili quanto le forme straniere ma, se non
informano, di certo comunicano, evocando.
- Non è mia intenzione
discutere qui della lingua della pubblicità,
della quale già molto è stato scritto,
anche se soprattutto in tempi non recentissimi. Come
sottolinea M. L. Altieri Biagi (1989: 9) presentando
un'antologia di saggi dedicati a questo tema,
c'è stato un periodo, tra il '65 e il '75, in
cui la lingua della pubblicità è stata
argomento di moda tra i linguisti7,
che esercitavano così su questa forma moderna
tecniche di analisi di solito riservate a testi del
passato, spesso non potendo evitare una sfumatura di
disprezzo nei confronti di questo tipo di lingua,
subdola e mercificata. La situazione rievocata dalla
Altieri Biagi si riferisce in realtà
soprattutto all'Italia, dove venivano ripresi temi
già trattati in altri contesti (lo testimonia
già un articolo del 1949 di Leo Spitzer, pure
antologizzato nel volume citato sopra) e adattati alle
specifiche caratteristiche linguistiche dei testi
esaminati. Del resto si può dire che solo negli
anni '60 la televisione si sia veramente diffusa nel
nostro Paese e, poiché queste indagini
linguistiche si riferiscono primariamente agli spot
trasmessi con quel mezzo, è ovvio che la loro
fioritura inizi a partire da quel periodo. Autorevoli
studiosi (da Francesco Flora a Raimondo Cardona, da
Bruno Migliorini, che in qualche modo ha inaugurato
questa stagione, a Maria Corti, per tacere di tanti
altri) sono intervenuti nel dibattito, talvolta
riprendendo osservazioni di studiosi stranieri, da un
lato mettendo in luce le caratteristiche generali e
funzionali del messaggio pubblicitario, dall'altro
analizzando i mezzi linguistici utilizzati, nella loro
multiforme e creativa varietà. Questo secondo
aspetto è quello che tende a diventare
più facilmente obsoleto, non solo perché
cambiano gli slogan, ma anche perché è
sicuramente cambiato il modo di concepirli e di
fruirli, sicché in un certo senso anche le
riflessioni più generali devono essere adattate
alle nuove tendenze.
-
- L'utente
televisivo ha imparato a convivere con questa
realtà: ora che non ha più bisogno
di essere convinto al consumo, è capace
di godere della pubblicità televisiva
come di un qualsiasi spettacolo. (...) i
pubblicitari migliori puntano sempre di
più sulla dignità artistica del
prodotto e sul coinvolgimento estetico-emotivo
dello spettatore che deve essere sedotto
visivamente e acusticamente (Altieri Biagi:
1989, 11).
-
- Questa osservazione riguarda
il fenomeno pubblicitario nella sua globalità,
ma implica la rilevazione di fatti più
specifici che hanno caratterizzato l'evoluzione dei
messaggi: innanzi tutto un intreccio più forte
tra parola ed immagine, sicché per il linguista
diventa sempre più difficile applicare le
proprie metodologie di indagine escludendo gli aspetti
iconici; all'effetto estetico contribuisce inoltre
molto frequentemente la musica, sempre con l'obiettivo
del raggiungimento di uno spettacolo che abbia valore
di per sé, anche se questo poi rischia di
sganciarlo, nella memoria dello spettatore, dal nome
del prodotto. La finalità estetica naturalmente
richiede anche mezzi linguistici più
sofisticati: non più banali filastrocche (come
l'ormai remotissimo ma signora badi ben / che sia
fatto di moplen), ma effetti meno appariscenti,
come l'allitterazione e l'assonanza; non più o
almeno non solo espressioni enfatiche e iperboliche,
ma figure retoriche varie e diversificate.
- In questo contesto anche il
carattere essenzialmente conativo del messaggio
pubblicitario, di solito messo in luce nei vari studi
sul tema, si arricchisce di valenze, per dirla ancora
con Jakobson, piuttosto poetiche e talvolta di
suggestioni metalinguistiche, là dove il
gioco linguistico diventa così esplicito da
porsi quasi come una riflessione sull'uso stesso del
mezzo. La sempre maggiore raffinatezza del testo fa
sì che la trasmissione di valori su cui si
fonda l'intento persuasivo (che resta il fine ultimo)
si realizzi sempre di più per evocazione e
suggestione visiva, sonora e linguistica; l'aspetto
fonico della lingua acquista sempre maggior rilievo,
non solo per le sue valenze melodiche ma anche per
quelle informazioni, certo non referenziali, che
trasmette con modalità solitamente meno
esplicite e meno facilmente riconoscibili da parte
dello spettatore non pratico di analisi linguistica. I
valori sociolinguistici così evocati e
trasmessi possono poi naturalmente estendersi per
contiguità al prodotto, che se ne arricchisce e
diventa perciò desiderabile e persino
indispensabile.
-
- Lingue
straniere nella
pubblicità
-
- È in questo gioco che
si inseriscono facilmente, e sempre più
frequentemente, le lingue straniere. Già
Cardona (1974), partendo dall'analisi di una
pubblicità della Lufthansa (I francesi per
lo charme, gli inglesi per lo scotch, gli americani
per il rock, noi per volare) il cui senso è
reso esplicito nel corrispettivo inglese di quella
stessa campagna (We didn't create the myth of
German efficiency, but we try to live up to it),
osservava come il ricorso alle lingue straniere
rifletta lo status e il prestigio che si associano di
volta in volta a una determinata lingua straniera.
Ciò naturalmente comporta una variazione e una
specializzazione tra le lingue utilizzate. Questi
aspetti sono soggetti più facilmente a
mutamento, sia perché gli stereotipi relativi a
determinate culture, e alle lingue che le esprimono,
possono comunque modificarsi nel tempo, sia
soprattutto perché i valori che si vogliono
evocare e associare ad un prodotto non restano
immutabili. Ne sono un esempio i cosmetici e in
generale i prodotti per la cura della persona, un
campo in cui il ricorso frequentissimo alla lingua
francese (naturalmente associata a valori di eleganza,
raffinatezza e seduzione) è sempre più
spesso affiancato dall'uso dell'inglese, con un
accento maggiore sul carattere "tecnologico" del
prodotto (si pensi a espressioni come water-lock
technology o liquid compact). Questo
aspetto è particolarmente evidente nelle
campagne a stampa, poiché i testi possono
essere più lunghi e di tipo apparentemente
esplicativo: esemplare una pagina di Helena Rubinstein
che, presentando una crema per il viso (chiamata
Face Sculptor) sottolinea la presenza di un
elemento denominato Pro-Phosphor, di cui si
spiega poi la funzione in un testo piuttosto lungo che
accompagna lo slogan ("Un traguardo Helena Rubinstein
per la cosmetica: sfruttare la potenza del
Pro-Phosphor per stimolare naturalmente il fosforo
cutaneo già presente nell'organismo e
conservare alla pelle l'originaria tonicità e
compattezza. E inoltre..."). Credo che, in questo
caso, il motivo dell'evocazione si giochi molto sulle
suggestioni della grafia (il digramma <ph>),
sufficientemente esotica ma non decisamente ostica,
tanto più che nel testo più lungo
l'accostamento all'italiano fosforo ne chiarisce di
fatto la pronuncia.
- Il francese, benché
insidiato, sopravvive comunque egregiamente nel campo
dei profumi, dell'abbigliamento, degli stessi
cosmetici; l'inglese peraltro dilaga, grazie
soprattutto all'evocazione di valori riconducibili
piuttosto al mondo americano. Alle caratteristiche di
classe, nobiltà, perfezionismo,
tradizionalmente evocate in riferimento all'area
britannica si aggiungono, sempre più invadenti,
i richiami alla modernità, al benessere, alla
forza giovanile, allo sport e al rinnovamento
tecnologico di provenienza d'oltreoceano. Sono fatti
ben noti. Quanto alla presenza, certo non altrettanto
cospicua, di altre lingue, a volte si tratta di
rivisitazioni "maccheroniche": lo spagnolo dei
messicani che, in un clima di vacanza e di siesta,
consumano fresche bibite estive ha, anche alle
orecchie di chi non conosce quella lingua, un'aria un
po' troppo italiana; notissimo il caso della
pubblicità di un prodotto inesistente (il Cacao
meravigliao) costruita in un programma degli anni
ottanta che sfruttava assonanze portoghesi per
comunicare una colorita brasilianità e che
è stato poi rievocato in messaggi reali. Lingue
più ostiche per l'italofono, come il tedesco o
ancor più il russo o il cinese, ma
riconoscibili per i ritmi e la forma fonica (oltre che
per l'accostamento ai personaggi che le utilizzano,
sempre fortemente caratterizzati) appaiono
occasionalmente, ma di solito per evocare una
lontananza spaziale e culturale, poi colmata
dall'universale diffusione del prodotto.
- Ciò che, in questo
ripetersi di schemi tutto sommato analoghi,
caratterizza maggiormente le tendenze più
recenti è l'utilizzazione di interi slogan in
lingua straniera (quasi esclusivamente inglese), sia
nei testi scritti sia negli spot radiofonici e
televisivi. È stato osservato che ciò
è anche una conseguenza della dimensione ormai
internazionale dell'operazione pubblicitaria.
Tuttavia, nel contesto italiano caratterizzato da un
grado di bilinguismo tutto sommato modesto, il
carattere "incomprensibile" del messaggio diventa
particolarmente rilevante. Lo slogan non è
più cadenzato su un ritmo facile, riconoscibile
e memorizzabile anche grazie alla rima; evoca invece
mondi lontani e inaccessibili: la lingua straniera,
magari compresa poco ma certo riconosciuta, da un lato
dà al ricevente la sensazione di essere
ritenuto capace di decodificarla (si pensi al
complesso del mancato bilinguismo menzionato sopra),
dall'altro comunica un senso dell'arcano, trasmesso
anche attraverso il suono di una voce estranea e
straniera, legato ad una realtà di certo
appetibile ma raggiungibile solo attraverso il
possesso del prodotto. Basti un esempio piuttosto
recente: la campagna pubblicitaria dell'aranciata
Fanta. Dopo una breve scena estiva, giocata sul motivo
della partecipazione e dell'esclusione, lo slogan,
pronunciato con voce remota e compassata, esortava (o
piuttosto annunciava): Share the fun.
Naturalmente il contenuto referenziale della frase non
era slegato dalla parte iniziale dello spot, ma quanti
italiani erano veramente in grado di cogliere la
relazione? Vero è che la bibita era rivolta
soprattutto ai giovani e in questa fascia d'età
la conoscenza dell'inglese è sicuramente
più diffusa ma tuttavia, soprattutto
nell'ascolto, non sempre sufficiente per decodificare
prontamente anche un breve messaggio. Il suono di
quella voce straniera risultava nella sua distanza
sottilmente accattivante, anche perché la curva
melodica non suggeriva ad un italofono una struttura
decisamente imperativa (non vi erano marcati
innalzamenti di tono nella parte iniziale), ma
piuttosto si collocava a metà fra
l'affermazione e l'esortazione, con un effetto di
convincimento notevolmente sottile. Meglio ancora,
dunque, non comprendere il significato referenziale
del testo!
-
- A
mo' di conclusione
-
- Il ricorso a stereotipi che
caratterizzano la percezione, non importa quanto
corretta, dell'identità straniera, ma anche
più genericamente (e più correttamente)
il riferimento a valori culturali diversi corrisponde
dunque sul piano formale ad un ampliamento dei
registri espressivi. Nella prospettiva
dell'articolazione delle varietà linguistiche
descritta sopra, l'uso di lingue diverse si pone in
contiguità ed in continuità rispetto
alle scelte endolinguistiche, seppure con una carica
maggiore di incompresibilità (che tuttavia non
è del tutto esclusa quando pur restando
all'interno della lingua materna si sfruttano appieno
i settori tecnologici del lessico). Elemento
importante è la presenza di elementi fonici
caratterizzanti, ma lo sfruttamento di informazioni
veicolate da caratteristiche fonetiche del messaggio
emerge chiaramente anche nel ricorso alle parlate
regionali italiane8,
che pure ha oggi particolare fortuna specie per alcune
categorie di prodotti, in primo luogo alimentari. In
questo settore si manifesta innanzi tutto l'esigenza
di collegare alimenti e piatti tipici alle regioni di
provenienza, ma il gioco è spesso più
sottile e se si vuole più generico. La parlata
regionale, come del resto già notava
Cardona9,
è di per sé segno di autenticità
e di verità: nella coscienza comune degli
italiani non esiste un italiano standard (intendendo
la parola nel duplice significato etnico e
linguistico), ma per essere vero l'italiano deve
tradire, seppur non troppo smaccatamente, le proprie
origini, radicandosi in una realtà regionale,
anche se piuttosto ampia e dai confini non
necessariamente netti. Così una mozzarella
(prodotto notoriamente tipico dell'area casertana e
salernitana) può essere proposta, oltre che in
versione campana (o piuttosto napoletana) anche in
ambiente emiliano o siciliano: l'importante è
che si riconosca un'aria "ecologica" e piacevolmente
buongustaia. Più autentica risulta l'arzilla
vecchietta che, trascurando l'impegno domestico
tradizionale e sostituendo la pasta fatta in casa con
un prodotto già pronto altrettanto buono, si
dedica alla "danza jazz", se questa è
pronunciata con forte accento emiliano. Gli esempi
potrebbero continuare.
- Nell'uso di slogan in lingua
straniera, di accenti regionali ed in genere di
elementi estranei o molto marginali rispetto alla
lingua in cui è composto il messaggio
pubblicitario si manifesta dunque una forma lato sensu
di interferenza (ma a mio avviso in certi casi si
può parlare di una particolare forma di
diglossia, là dove si può stabilire un
rapporto tendenzialmente stabile - benché
ovviamente non obbligato - tra prodotto e lingua
prescelta), motivata non certamente da una
necessità materiale o referenziale,
bensì dal bisogno10
di attingere a fonti diverse per trasmettere
più efficacemente, e spesso in modo meno
esplicito, valori e ideologie. In tal modo
l'inserimento di interi enunciati non funziona in modo
diverso dall'assunzione di prestiti, soprattutto
lessicali e soprattutto inglesi, che risultano
particolarmente evidenti nei messaggi a
stampa11.
La valutazione della loro quantità (e
qualità) ci riporta alla "questione degli
anglicismi" di cui ho già fatto cenno, che, tra
allarmismi e indifferenza, non facilmente è
oggetto di riflessioni pacate ed equilibrate,
fors'anche perché in molte sedi non
scientifiche è affrontata in mancanza di
modelli interpretativi e riferimenti linguistici.
Senza voler qui approfondire questi aspetti, mi limito
ad un'osservazione forse provocatoria: in molti casi
il livello di interferenza, nel discorso individuale,
mi appare inversamente proporzionale al livello
di bilinguismo del parlante, sicché chi ben
conosce una lingua straniera, ed è consapevole
di potersene servire adeguatamente nei contesti
opportuni, è meno incline a utilizzare termini
alloglotti e anzi, per la consapevolezza
metalinguistica che comunque si accompagna allo studio
di un'altra lingua, è più portato a
cercare soluzioni endolinguistiche efficaci, mentre
chi (inconsciamente) percepisce la propria
incapacità nell'uso di un diverso strumento
espressivo tende ad appropriarsene in modo
frammentario e ad ostentare quelle disiecta
membra nella conversazione, soprattutto quando
l'interlocutore è ritenuto, a torto o a
ragione, ancor meno bilingue. Ciò mi porta,
paradossalmente, ad una conclusione: il futuro della
nostra lingua (che periodicamente preoccupa studiosi,
insegnanti, giornalisti e persino "persone comuni")
non può che dipendere da una seria politica di
educazione linguistica, condotta innanzi tutto ma non
esclusivamente nella scuola, che in primo luogo
insegni, attraverso la riflessione metalinguistica, ad
essere consapevoli delle variazioni e dei significati
che queste trasmettono, individuando e valutando tutti
gli indicatori di tipo sociolinguistico. Tuttavia, per
quel che attiene alla questione dell'interferenza,
credo che l'italiano potrà ritrovare la via di
una equilibrata evoluzione anche (e forse solo) grazie
ad una più capillare diffusione del
bilinguismo, perché la sicura capacità
di utilizzare una lingua straniera aiuta a tenerla
separata, non innesca inconsapevoli meccanismi di
ostentazione e soprattutto stimola la riflessione
sulla lingua e sui suoi svariati e multiformi aspetti,
rinnovando così il desiderio di attingere anche
alle potenzialità interne e a riscoprire, per
le diverse finalità della comunicazione, gli
usi più arcaici e ricercati non meno delle
forme colloquiali e dialettali, il dotto e il popolare
che da sempre convivono in una lingua che sia viva e
di cui i parlanti vogliano preservare la
vitalità.
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