Linguistica e Glottodidattica


Giuliana Garzone
 
MEDIAZIONE LINGUISTICA E INTERCULTURALITÀ NELL'AMBIENTE AZIENDALE
 
1. Note introduttive
 
Sia nella letteratura di argomento aziendale sia negli interpreting studies, scarsa attenzione è stata fino ad oggi dedicata alla mediazione linguistica nell'ambito delle attività economiche e commerciali.
Nel presente intervento si intende offrire un contributo su questo tema, proponendo alcune considerazioni sul ruolo dell'interprete in quanto mediatore linguistico e culturale nelle trattative d'affari.
A questo fine, in un primo momento viene offerta una breve rassegna dei temi fondamentali trattati nell'ampia letteratura sugli aspetti interculturali della comunicazione di impresa, in modo da delineare un quadro generale in cui si inserisca il discorso della mediazione linguistica.
Si procederà quindi a brevi considerazioni introduttive sulla mediazione linguistica orale, di norma designata con il termine specifico "interpretazione" (in contrasto a "traduzione", riservato alla mediazione linguistica scritta)1, ed in particolare sull'interpretazione dialogica, enucleando alcuni degli spunti più rilevanti emersi nella ricerca in questo settore, per passare poi ad esaminare da vicino il ruolo dell'interprete nella business negotiation con particolare attenzione per la sua funzione di mediatore interculturale.
 

1.1. Aspetti interculturali della comunicazione d'impresa
 
Già da alcuni anni negli studi di ambito aziendale parecchia attenzione è stata rivolta alle problematiche di ordine interculturale. Questo non stupisce perché in nessun altro contesto come nei rapporti economico-commerciali internazionali entrano in contatto persone di culture diverse, che si trovano a dover trattare problemi di interesse reciproco o comune e ad affrontare insieme compiti di problem solving, sovente con una congrua posta in gioco. Infatti, se è vero che le differenze interculturali si manifestano anche nelle conversazioni di tipo puramente interazionale, cioè prive di scopo al di fuori dello scambio linguistico stesso e tipicamente listener-oriented, soprattutto "because they involve the ritual sharing and exchange of roles specific to the particular culture, which in turn involves a knowledge of a repertoire of rather complex linguistic activities and the ability to engage in complex negotiations and to react sensitively to signals from the partner in the speech event" (Cheepen-Monaghan: 1990, 3-4), ancora più evidente risulta l'impatto della diversità culturale quando la conversazione ha invece carattere transazionale, è cioè volta a raggiungere uno scopo esterno rispetto allo scambio linguistico stesso, la cui realizzazione ha in qualche modo l'effetto di "cambiare il mondo"2; peraltro, in questo secondo caso gli effetti di eventuali problemi di comunicazione di ordine interculturale sono molto più evidenti e tangibili (per es. nella mancata conclusione di un accordo commerciale).
È in questo quadro che si giustifica il fatto che gran parte dell'ampia letteratura in materia pubblicata negli ultimi due o tre decenni, soprattutto ad opera di aziendalisti, oltre che di sociologi, etnometodologi e studiosi della comunicazione, focalizzi l'attenzione proprio sulla trattativa d'affari (business negotiation), luogo di incontro e di negoziazione in cui culture diverse inevitabilmente si confrontano, dando origine a problemi di ordine linguistico in senso lato, che riguardano non solo il codice utilizzato, ma anche e soprattutto il differente modo di gestire la comunicazione nelle diverse culture, nonché gli schemi di comportamento interpersonale.
Peraltro, dal punto di vista degli aspetti culturali, i rapporti internazionali d'affari presentano un assetto di per sé notevolmente stratificato, combinando elementi di ordine etnico e linguistico con altri propri della dimensione aziendale. Pertanto, come è stato messo in rilievo in indagini specialistiche fin dai primi anni '80, a partire dal notissimo studio di Geert Hofstede (1984; 1991) sulle filiali della multinazionale IBM, nel contesto aziendale "attraverso le frontiere" le divergenze/convergenze tra le culture etnico-linguistiche3 dei singoli individui, rilevabili in tutti i settori della vita, comprese le relazioni interpersonali private, vanno a sommarsi alle peculiarità delle diverse culture d'impresa, che per certi versi risultano trasversali rispetto alle comunità nazionali, dando luogo a schemi di comportamento e di pensiero caratteristici della cultura aziendale di un dato paese.
 

2. La trattativa d'affari nella prospettiva interculturale
 
Passiamo ora ad occuparci in modo specifico della trattativa d'affari. A questo fine è innanzi tutto necessario postulare una definizione che riesca ad abbracciare le differenti concezioni proprie di diverse culture, anche lontane dalla mentalità euro-americana, in modo da avere una base sicura su cui fondare la discussione. Riprendendo la definizione "classica" di F. Inkle (1964, 3) si può definire la trattativa come:
a process in which explicit proposals are put forward ostensibly for the purpose of reaching an agreement on an exchange or the realization of a common interest where conflicting interests are present.
 
Si preferisce qui adottare come riferimento la definizione, sostanzialmente simile, ma più ampia ed articolata, di J.M. Ulijn e J. Strother (1995, 250):
 
Negotiation is a process in which two or more entities discuss common and (apparently) different interests and objectives in order to reach an agreement or a compromise (contract) in mutual dependence because they see benefits in doing so.
 
I testi dedicati all'interculturalità nel management (tra cui gli studi di Hofstede citati poc'anzi) si muovono di solito secondo temi o dimensioni proposti in modo bipolare, secondo il metodo dell'antropologia strutturale. Per individuare le diverse componenti che determinano la natura e lo svolgimento della trattativa d'affari internazionale, si ritiene particolarmente utile lo schema proposto da Weiss e Stripp (1998, 63-64), applicandolo in modo mirato allo scopo di disporre di una serie di strumenti a fini descrittivi. Il concetto fondamentale consiste nell'esaminare la trattativa d'affari sulla base di dodici elementi focali, grazie ai quali è possibile mettere in luce quelle categorie culturali, psicologiche ed operative che caratte-rizzano il modo di procedere delle diverse comunità nazionali-aziendali nei negoziati internazionali. Peraltro, nel loro saggio i due autori utilizzano tali categorie, esposte nella tabella riportata qui di seguito, per analizzare dettagliatamente i problemi relativi alle trattative d'affari tra operatori nordamericani e, rispettivamente, cinesi, francesi, giapponesi, messicani, nigeriani ed arabi, fornendo anche una bibliografia ragionata che copre le problematiche specifiche riscontrabili nei rapporti con ciascuna delle diverse nazionalità.
 
Le categorie sono le seguenti:
 
GENERAL MODEL
1. Basic Concept of the Negotiation Process: distributive bargaining / joint problem-solving / debate / contingency bargaining / nondirective discussion;
2. Most Significant Type of Issue: substantive / relationship-based / procedural / personal-internal;
 
ROLE OF THE INDIVIDUAL
3. Selection of Negotiatiors: knowledge / negotiating experience / personal attributes / status;
4. Individuals' Aspirations: individual ----- community;
5. Decision-Making in Groups: authoritative ----- consensual;
 
INTERACTION: Dispositions
6. Orientation toward Time: monochronic ----- polychronic;
7. Risk-Taking Propensity: high ----- low;
8. Bases of Trust: external sanctions / other's reputation / intuition / shared experience;
 
INTERACTION: Process
9. Concern with protocol: informal ----- formal;
10. Communication Complexity: high ----- low;
11. Nature of Persuasion: direct experience / logic / tradition / dogma / emotion / intuition;
 
OUTCOME
12. Form of Agreement: contractual ----- implicit.
 
È interessante che il primo parametro riguardi proprio la definizione stessa di trattativa, che risulta essere di per sé almeno in parte culturalmente mediata e può essere diversa, per esempio, per un americano, per un francese e per un messicano (Weiss-Stripp: 1998, 56). Emerge infatti che, nella sua struttura fondamentale, la trattativa può essere concepita in modo distributivo, cioè come un processo al termine del quale ogni parte in causa potrà perdere o guadagnare qualcosa, oppure in modo integrativo, cioè come un processo svolto in collaborazione per ottenere un dato risultato (distributive bargaining vs integrative bargaining)4. Indubbiamente, questo varia a seconda delle culture d'appartenenza dei negoziatori, ma è anche da vedersi in funzione della loro propensione a porsi in atteggiamento conflittuale piuttosto che cooperativo, del modo più o meno diretto in cui tendono ad affrontare i problemi, dell'oggetto della trattativa stessa nonché degli obiettivi che ognuna delle parti coinvolte si prefigge, un altro elemento che risulta essere culturalmente determinato (sintetizzato al punto 12 della tabella). Per esempio, viene ricordato (Weiss-Stripp: 1998, 89; 80) come i negoziatori giapponesi ambiscano di norma a concludere accordi di impostazione ampia e generica, basati su una sorta di gentleman's agreement, piuttosto che accordi dettagliati e rigidi, mentre i francesi preferiscono accordi scritti precisi, con valore vincolante.
 

2.1. La comunicazione linguistica nella trattativa d'affari
 
Si ha così un quadro abbastanza dettagliato delle variabili interculturali in termini di ambizioni e desideri, e quindi di concezioni, di valori, di atteggiamenti, di comportamenti interpersonali, sulla base del quale si può passare a valutare gli aspetti più specificamente legati alla comunicazione linguistica - adeguatezza espressiva, scelta di cosa esplicitare e cosa sottintendere, organizzazione delle argomentazioni, nonché componenti relazionali non verbali, paralinguistiche - prosodiche, cinesiche, prossemiche.
Peraltro, nei testi sulla comunicazione interculturale e sulla trattativa redatti in ambiente aziendalista il problema del codice linguistico è in generale tenuto abbastanza in secondo piano. Persino nella discussione dei "casi", di solito incentrata su situazioni interculturali complesse dove interagiscono soggetti di nazionalità e culture diverse, per es. americani e cinesi oppure tedeschi ed inglesi ecc., per lo più non si fa neppure cenno alla situazione linguistica del negoziato né a problemi di comunicazione verbale né tanto meno all'eventuale ricorso ad un interprete.
Ciò è tanto più sorprendente in quanto sotto questo profilo vi sono diverse variabili che possono cambiare radicalmente i rapporti di forza nella discussione, a seconda della padronanza che ciascuno degli individui coinvolti ha della lingua in cui si parla. Vi è innanzi tutto il caso in cui la lingua utilizzata è per entrambe le controparti lingua veicolare acquisita. La trattativa avviene quindi in una sorta di "spazio intermedio", ovvero in una sorta di "interlingua", ma non per questo si è al riparo da problemi di comunicazione, essenzialmente perché per forza di cose lo spazio interculturale è solo parzialmente coincidente, essendo in parte collegato alla cultura di appartenenza di ciascuno dei soggetti coinvolti: nell'interazione, quindi, può sempre emergere un senso di disagio, dovuto al fatto che il comportamento dello straniero non coincide per molti versi con le aspettative dell'interlocutore, generando quello che è stato definito culture bump5. Infatti, i memi di culture diverse non sono né coincidenti né sempre commensurabili, dando luogo a copioni culturali sostanzialmente diversi, anche se l'entità delle differenze può non risultare immediatamente evidente.
Significativo è il caso, discusso da Marriott (1994, 247ss.), della trattativa tra un uomo d'affari giapponese ed un australiano che fallisce perché, nella discussione di un eventuale accordo per l'esportazione di formaggio dall'Australia al Giappone6, i due interlocutori (come emerge da un'intervista conoscitiva realizzata in un secondo momento) si trovano su due lunghezze d'onda diverse e non riescono a realizzare un proficuo dialogo: il giapponese si concentra su problemi di ordine generale, riguardanti l'accordo complessivo ed i rapporti tra le aziende coinvolte, l'americano pensa soprattutto alle coordinate economiche dell'affare, ai prezzi ed al profitto. Si tratta qui di un vero e proprio culture bump: per i due interlocutori, lo scarto tra aspettative e comportamento effettivo costituisce un elemento di disturbo che, anche senza far materialmente cessare lo scambio comunicativo, ne pregiudica irrimediabilmente l'esito.
Peraltro, è probabile che in questo caso, così come in altre situazioni simili, abbia un certo peso il fatto - del tutto ignorato da Marriott - che uno dei due negoziatori utilizzi per la trattativa la propria lingua madre, mentre l'altro deve ricorrere a una lingua straniera. Risulta allora indubbio che il primo, che usa strumenti di cui è perfettamente padrone, si trovi in una posizione di forza, non solo perché può contare su maggiore facilità ed efficacia nell'espressione e nella gestione retorica del testo, ma anche perché inevitabilmente, in termini culturali, il suo approccio alla comunicazione diventa dominante.
Si ricorda a questo proposito un modello (forse unico nel suo genere) proposto da Neustupny (1985a, 1985b) per misurare i problemi di comunicazione interlinguistica ed interculturale all'interno della trattativa d'affari7. Tale modello, particolarmente interessante ai fini della presente discussione in quanto valuta le discrepanze culturali nella loro rilevanza linguistica, tiene conto soprattutto dei problemi di efficacia comunicativa. Vi figurano, infatti, le difficoltà derivanti dagli errori di morfosintassi o lessico e dalla scarsa padronanza di una lingua straniera, ma non in posizione di assoluta preminenza (come voleva la concezione tradizionale), bensì come parte del quadro espressivo in generale, risultando quindi rilevanti solo nei casi in cui inibiscano la corretta trasmissione del messaggio. Ebbene, è significativo che il modello proponga di misurare le difficoltà in termini di deviazione dalla norma del 'comportamento linguistico di base' (base language), presupponendo così che ci sia una norma di riferimento, e che la norma sia costituita - ovviamente - dal comportamento linguistico del parlante nativo. Questo conferma quanto poc'anzi affermato a proposito della posizione di vantaggio di cui gode chi utilizzi la propria lingua madre in un negoziato con una controparte straniera.
Si tratta ovviamente di un problema che meriterebbe ben più vasta attenzione, poiché le combinazioni tra i due elementi lingua e cultura sono soggette ad infinite variabili (si pensi per es. alle situazioni di diglossia / poliglossia, alle discrepanze culturali tra individui che parlano varietà diverse della stessa lingua ecc.), ma quanto detto basta a mettere in rilievo l'importanza dell'assetto linguistico all'interno della trattativa d'affari, anche in relazione al successo della negoziazione nonché ai rapporti di forza tra le varie parti in causa. Peraltro, appare abbastanza sorprendente che il dettagliato schema di Weiss e Stripp poc'anzi discusso, pur inserendo il fattore "comunicazione", non faccia alcun cenno alla necessità di condivisione di un codice linguistico, come se si trattasse di un fatto scontato o comunque secondario, ad ulteriore riprova della scarsa consapevolezza della rilevanza della componente linguistica nei contatti interculturali e, più in generale, interpersonali. Corollario di questa scarsa consapevolezza è l'idea che anche quando si ricorra eventualmente all'assistenza di un mediatore linguistico, di fatto la sua presenza sia assolutamente irrilevante e nell'analisi del negoziato possa essere del tutto ignorata.
 

3. Interpretazione dialogica ed interpretazione di trattativa
 
Si tratta in sostanza di un atteggiamento piuttosto miope, di cui non ci si può tuttavia stupire: infatti, il presupposto che la presenza del mediatore linguistico in uno scambio comunicativo possa essere ritenuta in qualche modo "invisibile" non è stato assente in passato neppure nella letteratura specializzata sull'interpretazione, tant'è che nell'ultimo decennio non sono stati pochi gli autori che occupandosi di liaison interpreting si sono impegnati, su vari versanti (per es. Roy: 1990; Wadensjö: 1997, 1998), a sfatare quest'idea dell'interprete come "non-involved 'conduit'".
Vero è anche che negli interpreting studies stessi, da quando si è cominciato a prendere in qualche considerazione anche l'interpretazione dialogica8 in un settore precedentemente interessato solo all'interpretazione di conferenza, poca attenzione è stata riservata all'interpretazione nella trattativa d'affari, privilegiando nella ricerca e nella riflessione altre forme di mediazione linguistica non business-oriented (per es. interpretazione in ambito giuridico / giudiziario, interpretazione di comunità ecc.).
In uno dei primi articoli redazionali riservati all'argomento da una rivista di prestigio, The Linguist (1990, 94), definendo la sfera d'azione dell'interpretazione dialogica si tracciava una prima suddivisione: "It can be broadly divided into business oriented and community oriented". L'interpretazione d'affari, che in inglese va sotto denominazioni diverse - liaison interpreting, business interpreting, escort interpreting - con accezioni lievemente differenti, viene definita come the "type of interpreting done with accompanying visitors, diplomats and businessmen to meetings and negotiations" (Harris: 1983, 5). In italiano, la denominazione corrente è interpretazione di trattativa, oggi recepita come disciplina d'insegnamento anche nelle tabelle ministeriali per i corsi di laurea in mediazione linguistica e culturale; peraltro, questa denominazione viene talora usata anche come termine superordinato, per indicare tutti i tipi di interpretazione dialogica.
In verità, in questo settore disciplinare le tipologie che hanno ricevuto la maggior attenzione a livello di descrizione e di ricerca rientrano nella sfera dell'"interpretazione di comunità", che comprende "everyday and emergency situations which refugees, other immigrants, and migrant laborers may encounter in their communication with beaurocrats, officials, police, employment counsellors, school, public assistance and health care personnel of all kinds" (Schweda Nicholson: 1994, 80), la così detta Public Service Interpreting (PSI), soprattutto per quanto riguarda il settore medico, e l'interpretazione giuridica e giudiziaria (court interpreting).
In questo particolare ambito, in considerazione delle situazioni in cui si svolge la mediazione linguistica e dello status delle persone coinvolte, vi è la tendenza a porre forte enfasi sul ruolo di mediazione interculturale dell'interprete, sovente in un'ottica di political correctness. Come nota Roberts (1995, 12), infatti,
The 'client' of community interpreting belongs invariably to a minority group whose culture - even more than language - is not understood by the majority group which organizes and offers the services to which the client is entitled.
In questo contesto l'interpretazione è divenuta un'attività di grande impatto sociale e culturale: a titolo di conferma, significativo è che l'Ontario Ministry of Citizenship nella sua documentazione abbia cambiato per questa attività la denominazione da "community interpreting" a "cultural interpreting9" (corsivi miei).
In questo contesto l'evidenziazione della componente sociale e culturale nel suo profilo professionale ha portato al superamento della supposta "invisibilità" dell'interprete, riconoscendo a questa figura una funzione di interfaccia culturale e di controllo degli aspetti pragmatici della conversazione nell'avvicendamento dei turni, nella gestione di eventuali sovrapposizioni tra i parlanti ecc. Si deve in particolare a Wadensjö il merito di aver messo in rilievo il ruolo dell'interprete come coordinatore della conversazione altrui, un concetto così riassunto: "From the interactional perspective, the role of the interpreter can be seen as a combination of two central functions; on the one hand, translating and on the other hand, coordinating others' talk" (Wadensjö: 1995, 47-49)10. Benché ció sia completamente vero solo per certe situazioni (e soprattutto per l'interpretazione di comunitá), questa presa di posizione serve molto bene a mettere in luce come l'operato dell'interprete vada al di lá di quello di una "macchina per tradurre" e si qualifichi come un lavoro di mediazione vera e propria.
 

3.1. Posizione del mediatore linguistico nella trattativa d'affari
 
Così come si è messa in luce la natura culturalmente mediata dell'idea stessa di "trattativa d'affari", non è possibile negare che il medesimo discorso valga per il concetto di "mediazione linguistica" e, di conseguenza, per il ruolo dell'interprete. Questo emerge molto bene anche in uno dei pochi passi dedicati all'argomento nella letteratura aziendale sulla trattativa, un brano di uno dei "classici" in materia, Riding the Waves of Culture, in cui Trompenaars e Hampden-Turner (1997, 109-110) puntualizzano come nelle culture che essi definiscono "ascrittive", incentrate sul senso della gerarchia e dell'appartenenza ad un gruppo strutturato secondo valori "intrinseci" (anzianità, sesso, istruzione, classe sociale ecc.), come quella giapponese ed altre culture orientali, predomini una concezione più complessa del ruolo dell'interprete, a cui è richiesta non solo la traduzione puntuale di quanto detto, ma la chiarificazione di tutti gli aspetti della comunicazione:
The translator on the Japanese side is an interpreter, not simply of language but of gesture, meaning and context. His role is to support his own team and possibly even to protect them from confrontational conduct by the Western negotiators. He may protect superiors from rudeness and advise the team how to counter opposition tactics (ivi, 110).
Tant'è che spesso l'interprete giapponese impiega più di un minuto a tradurre ciò che in inglese non durava più di 15 secondi, ed inoltre è spesso coinvolto in lunghi colloqui esplicativi con i suoi committenti.
Al contrario, per chi proviene da una achieving culture di stampo occidentale, caratterizzata dalla tendenza a riconoscere agli individui stima e posizione in base al merito personale, l'interprete è un professionista il cui compito asettico e ben definito consiste nel "rendere" in una lingua ciò che è stato detto in un'altra:
According to British, German, North American, Scandinavian and Dutch values, the translator is an achiever like any other participant and the height of his or her achievement should be to give an accurate, unbiased account of what was said in one language to those speaking the other language. The translator is supposed to be neutral, a black box serving the interest of modern language comprehension, not the interests of either party who may seek to distort meanings for their own ends (ivi, 109-110).
La concezione tipicamente occidentale qui descritta corrisponde perfettamente all'idea dell'"interprete invisibile" cui si è fatto cenno poc'anzi e che gli studi più recenti si sono impegnati a dimostrare falsa. Infatti, non esiste una traduzione che sia del tutto "fedele" e renda integralmente il testo fonte, né tanto meno una traduzione che non sia in qualche modo culturalmente connotata perché, come ben dimostrano i neo-relativisti, è la natura stessa delle lingue che non lo consente. Tuttavia, vi è l'esigenza di tracciare dei limiti, di definire dei ruoli, anche perché ciascuna di queste due concezioni della figura dell'interprete, quella dell'operatore interculturale e quella della "macchina per tradurre", implica anche un rapporto del tutto diverso con il cliente: nel primo caso viene preteso in certa misura che il mediatore linguistico si senta parte del gruppo dei negoziatori che lo hanno assunto e contribuisca a perseguirne gli obiettivi, dall'altra si ha una visione esclusivamente strumentale del suo ruolo, "come la cornetta di un telefono", senza alcun coinvolgimento nel perseguimento degli scopi comuni. Ed entra qua in gioco un problema di tipo etico-deontologico.
Infatti, in teoria, indipendentemente da chi sia ineffetti il committente (cioè da quale delle "parti in causa" lo abbia assunto e lo retribuisca), l'interprete dovrebbe assumere un atteggiamento del tutto neutrale, senza prendere alcuna posizione o porsi a livello di comportamento seppur minimamente in linea con alcuno degli interlocutori. Questo in generale è più facile nell'interpretazione di conferenza, e soprattutto nella simultanea, ove, almeno in termini superficiali, l'interprete è fisicamente "rimosso" rispetto allo scambio comunicativo. Si ricorda a questo proposito un saggio di W. Dressler (1994, 105), in cui si puntualizza come, in termini di participation framework, il ruolo del simultaneista sia ben lontano da quello del partecipante ad un ordinario scambio comunicativo, riducendosi a quello di semplice "side participant", seppure utile (helpful) al successo della comunicazione. Si ammette invece un coinvolgimento lievemente maggiore per il consecutivista, evidenziato dal fatto che in effetti non è insolito che l'oratore gli dimostri maggiore considerazione, arrivando di tanto in tanto persino a rivolgersi direttamente a lui, se non altro per ragioni prossemiche, in considerazione della presenza fisica dell'interprete all'interno dell'"orizzonte" della comunicazione. A maggior ragione nell'interpretazione di trattativa è indubbio che il mediatore linguistico, calato in una situazione comunicativa complessa, effettivamente vi prenda parte, in alcuni casi ed in alcuni momenti come partecipante semi-ratificato, ma sovente addirittura come partecipante in piena regola, e non vi è teoria in grado di sostenere che il partecipante diretto ad uno scambio linguistico possa essere del tutto distaccato e neutrale, insomma "invisibile". Ovviamente, questo apre per l'interprete tutta una serie di problemi, soprattutto di ordine deontologico, sovente correlati proprio al suo ruolo di mediatore interculturale, oltre che interlinguistico.
È in particolare a questo ordine di problemi che si intende ora rivolgere l'attenzione.
 

3.2. La mediazione linguistica nella sfera aziendale e commerciale: problemi di ordine interculturale
 
3.2.1.Problemi specificamente linguistici e traduttivi
 
Nel suo lavoro l'interprete si trova a dover affrontare problemi di tipo interculturale a diversi livelli.
Il primo livello è costituito, ovviamente, da difficoltà di ordine linguistico e traduttivo, che condivide con gli altri professionisti della mediazione linguistica, i traduttori. Si tratta di problemi, in genere legati al lessico o alla fraseologia, ampiamente trattati nella letteratura traduttologica che quanto meno li ha catalogati e descritti, seppure non si possa dire che per molti di essi sia stata proposta una soluzione ritenuta applicabile in modo generalizzato.
Per esempio, Peter Newmark, autore molto abile nel catalogare i problemi traduttivi e sintetizzare le diverse soluzioni attuate dai traduttori con un occhio sia ai problemi teorici sia alla prassi, in un primo momento (Newmark: 1981, 71-81) individua e discute in modo piuttosto dettagliato numerose difficoltà relative alla tra-duzione di termini culture-specific di tipo sia istituzionale sia non istituzionale (ivi, 81-83). In un testo successivo, dedica al problema un intero capitolo (Newmark: 1988, 94ss), dando sistemazione alla materia, che è presentata in un esauriente quadro sinottico (ivi: 103). La casistica viene suddivisa in categorie culturali e domini specifici, postulando che nelle lingue naturali l'impatto dei fatti culturali sulla segmentazione dell'esperienza sia legato ad aspetti molteplici della vita delle comunitá dei parlanti ed esattamente: alla sfera ecologica (per es. animali, piante, territorio di insediamento), alla dimensione quotidiana nei suoi fatti di ordine materiale (alimenti, abbigliamento, trasporto ecc.) e sociale (lavoro e tempo libero), agli aspetti connessi ad istituzioni, usi, costumi ed idee, nonché a quelli legati alla gestualitá ed alle consuetudini. In queste aree si riscontra sovente una profonda distanza interculturale, anche se non mancano gli universali (processi naturali, la natura degli esseri umani e le loro attivitá mentali e fisiche, i numeri, le dimensioni). Questi secondo Newmark sono i fatti che, insieme con tutta una serie di "fattori contestuali" dettagliatamente elencati (scopo del testo, sua motivazione e destinatari, importanza del referente nel testo di partenza, esistenza o meno di una traduzione standard riconosciuta, dimensione cronologica), devono essere valutati per giungere ad un processo decisionale coerente finalizzato ad individuare il corretto procedimento traduttivo per un dato testo, essendo disponibili numerose opzioni operative, elencate nella seconda parte dello schema: trasferimento, equivalenza culturale, neutralizzazione (cioè equivalente funzionale o descrittivo), traduzione letterale, ricorso ad etichetta traduttiva, analisi componenziale, cancellazione (di segmenti linguistici ridondanti in testi non autorevoli), endiadi (couplet), traduzione d'uso, parafrasi, glossa, note (Newmark, 1988: 103).
Il numero stesso delle possibilitá dà in qualche modo la misura della complessità del problema di fondo: il fatto che tra i procedimenti descritti ne figurino diversi che in sostanza non si qualificano come "traduttivi" in senso stretto (per es. il ricorso ad etichetta traduttiva, la cancellazione e, soprattutto, la parafrasi) rimanda alla sostanziale incommensurabilità dei diversi sistemi di segmentazione della realtà propri delle lingue naturali. Del resto, è proprio su difficoltà relative alla traduzione di termini ed espressioni di natura culture-specific che hanno poggiato tante teorie dell'intraducibilità. La cui esistenza e fondatezza peraltro non impedisce che nella prassi corrente si continui inesorabilmente a tradurre e che dei testi tradotti si riesca a fruire in modo sostanzialmente soddisfacente. Di ciò già indicava lucidamente la ragione oltre tre decenni fa Roman Jakobson (1959) nel suo saggio "On Linguistic Aspects of Translation", ormai divenuto cult: tutto ciò che è cognitivo è traducibile ("all cognitive experience and its classification is conveyable in any existing language"; Jakobson: 1959, 234), eventualmente con procedimenti "eccezionali", come la parafrasi. In questo l'interprete, in particolare nella modalità non simultanea (consecutiva o dialogica), è favorito rispetto a chi traduce per iscritto; quest'ultimo, infatti, quando ricorre a procedimenti speciali ha il problema concreto di dover produrre un testo con forti restrizioni di ordine stilistico: per es. sono assai numerosi i contesti in cui l'inserimento di una parafrasi o, ancor più, di una glossa, porta ad un inestetico appesantimento, risultando del tutto impraticabile. Per l'interprete questo problema non esiste: l'interpretazione si presta più di ogni altra forma di attività traduttiva alla parafrasi, alla perifrasi, alla circonlocuzione, alla digressione esplicativa, tanto più che l'interprete può sfruttare a proprio vantaggio l'estemporaneità ed il contatto diretto con l'interlocutore11.
 

3.3.2. Problemi di ordine pragmatico
 
Mentre non si ritiene opportuno approfondire qui i problemi di carattere lessicale e sintattico poc'anzi delineati, trasversali rispetto alle diverse attività dei professionisti della mediazione linguistica, si preferisce portare l'attenzione su tematiche di ordine superiore, riguardanti l'impianto semiotico complessivo dell'interazione nell'ambiente d'affari tra soggetti appartenenti a culture etnico-linguistiche diverse. Il tema presenta enorme complessità, abbracciando molti elementi di natura solo marginalmente linguistica o, addirittura, di tipo extra-linguistico e si configura come spiccatamente multidisciplinare, richiedendo di essere affrontato con gli strumenti di diverse discipline, tra cui - oltre alla linguistica ed alla sociolinguistica - l'etnometodologia, l'antropologia culturale, la teoria della comunicazione e la semiotica.
Nella sfera più propriamente linguistica, le discipline i cui strumenti sono forse più interessanti ai fini della presente discussione sono la retorica contrastiva e la pragmatica, investendo l'articolazione e l'organizzazione del pensiero nelle diverse comunità linguistiche. In particolare, nell'ambito della retorica contrastiva si è sviluppata un'ampia letteratura che ha contribuito a porre in rilievo la profonda diversità nella strutturazione di concetti, nozioni ed argomentazioni nella costruzione di testi (soprattutto scritti12, ma con osservazioni in sostanza applicabili a qualsiasi forma di espressione linguistica, di qualunque tipo, monologico o dialogico che sia). In quanto alla pragmalinguistica, basta sfogliare un manuale (per es. quello, notissimo, di S.C. Levinson: 1983) per rendersi conto di come la componente culture-specific abbia importanza del tutto primaria in quasi tutti i temi di base in esso trattati: deissi sociale, forme di cortesia e di allocuzione; l'uso delle implicature conversazionali; gli atti linguistici diretti ed indiretti e la modulazione della forza illocutoria; la struttura della conversazione con particolare riguardo per l'avvicendamento dei turni ecc. Mentre si tralascia di approfondire in modo specifico questi problemi, ciascuno dei quali meriterebbe un'ampia trattazione a sé nella prospettiva interculturale, ci si accontenta di notare come nell'ambito di interesse della presente discussione essi si vadano a sovrapporre alle particolarità proprie delle diverse tipologie di culture aziendali, a cui si è fatto cenno poc'anzi.
Ovviamente, l'interprete non può fare a meno di essere consapevole di questi problemi, nei termini e nelle modalità propri delle sue lingue di lavoro e delle relative culture, e di tenerne conto nella sua opera di mediazione. Certo, non rientra nei suoi compiti spiegare, illustrare, produrre inferenze sulla base delle proprie cognizioni sulla cultura aliena e comunicarle al committente. Come ben dicono Gentile et al. (1996, 54-55), nel caso dei problemi interculturali l'interprete non fa una "diagnosi" e non offre spiegazioni dirette, soprattutto perché queste operazioni passerebbero attraverso il filtro di valutazioni personali e soggettive. Il suo compito è essenzialmente quello di rendere accessibili i messaggi across languages e di mettere in contatto le culture. La sua resa del messaggio, se correttamente impostata tenendo conto dei fattori di divergenza interculturale, può contribuire a rendere i partecipanti alla trattativa consapevoli delle reciproche differenze, evitando così incomprensioni e malintesi. In altre parole, un buon interprete agisce da mediatore interculturale senza sconfinare in indebite interferenze, aiutando gli interlocutori a "vedere" il significato di certe dichiarazioni, la rilevanza di certi comportamenti, insomma a percepire le differenze interculturali, guidandoli verso quella che Trompenaars e Hampden-Turner ritengono la miglior ricetta per superare i problemi di comunicazione interculturale nel mondo degli affari: consapevolezza e rispetto di ció che si percepisce come "diverso" (awareness and respect; Trompenaars - Hampden-Turner: 1997, 199).
 

4. Conclusioni
 
Da queste considerazioni di carattere introduttivo, in cui si sono toccati tanti temi e problemi ognuno dei quali meriterebbe in verità una trattazione a sé, si possono trarre - oltre che spunti per la ricerca - alcune indicazioni generali per la formazione del mediatore linguistico nella prospettiva del suo ruolo nell'ambito aziendale, una materia a cui fino a questo momento nella letteratura è stata dedicata attenzione pressoché nulla.
L'importanza e la specificità delle componenti di ordine linguistico-culturale nei rapporti d'affari a livello internazionale rendono indispensabile prevedere, in aggiunta all'ordinario programma didattico, nel quale necessariamente figura per ciascuna lingua un'introduzione - per quanto generica - agli aspetti di tipo culturale relativi a ciascuna delle lingue trattate, un modulo che si occupi in special modo della comunicazione d'impresa, così come è d'uso prevedere moduli sulla mediazione linguistica in ambito giuridico/giudiziario o sull'interpretazione di comunità. In questo quadro, non ci si può accontentare - come purtroppo spesso avviene - di proporre per l'apprendimento un po' di terminologia economico-commerciale ed aziendale. Si suggerisce qui che, al contrario, i termini fondamentali del problema debbano essere posti in modo sostanzialmente non dissimile da quanto avviene per un corso di business communication training.
L'esigenza di promuovere, in fase di formazione, una sicura consapevolezza della reale natura dei problemi interculturali richiama necessariamente un approccio descrittivo, ma l'acquisizione di nozioni metacognitive e metalinguistiche non può non accompagnarsi allo sviluppo di conoscenze di tipo procedurale ed operativo, atte a generare comportamenti che costituiscano il correlativo di tali conoscenze. In questa prospettiva torna quindi utile fare riferimento ai corsi di comunicazione aziendale, per i quali L. Baten e M. Ingles propongono una strategia che sintetizzano come: "raising awareness and building strategies for establishing an autonomous self-steered behaviour" (Baten - Ingeles 1998: 233ss).
L'approccio è quindi necessariamente learner-centred ed è volto a stimolare la sensibilità del futuro interprete/mediatore ai problemi dei contatti interculturali tra individui nella dimensione aziendale. Il discorso si fa particolarmente articolato quando si dirige l'attenzione sull'inglese, in quanto lingua parlata da comunità geograficamente lontane e culturalmente diverse, e per di più ampiamente diffusa come lingua veicolare, ma considerazioni simili valgono anche per altre lingue (sicuramente per il francese, lo spagnolo, il tedesco): la multiformità culturale ed etnica dei parlanti fa sì che non esista un unico background di cui gli studenti possano essere sollecitati ad acquisire padronanza. Certo, un interprete che abbia l'inglese tra le sue lingue di lavoro avrà sicura conoscenza per lo meno della cultura inglese e probabilmente di altre zone anglofone (Scozia, Irlanda, Stati Uniti, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa ecc.), nonché di prassi ed usi tipici delle aziende di quei paesi. Ma è importante che acquisisca la consapevolezza del fatto che la pratica dell'interpretazione con la lingua inglese lo metterà in molti casi nella posizione di dover "tradurre" culture aliene, alcune soggette all'impiego dell'inglese come lingua nazionale di comunicazione al di sopra degli idiomi locali (per es. India, Kenia, Nigeria, ecc.), altre semplicemente portate ad utilizzare l'inglese come lingua franca. Ecco allora che davvero gli elementi cruciali per il mediatore linguistico diventano da una lato la sensibilità alle variazioni etniche e culturali, accompagnata all'abilità di percepire la diversità e comprenderne la complessità, dall'altro la capacità, assolutamente fondamentale per l'interprete, di documentarsi e di ampliare la portata delle proprie conoscenze su culture e civiltà lontane.
 
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