Rivista Club degli autori n° 144-145
Settembre-Ottobre 2004
 
 

Sergio Corazzini: La favola breve d'un povero tenero poeta

di Massimo Barile


La poesia di Sergio Corazzini è il canto di una breve stagione, di un poeta fanciullo, di un angelo della morte scomparso a soli ventun'anni: un poeta vissuto il tempo d'un battito d'ali eppure capace di fissare per sempre nelle sue liriche la sua vicenda terrena, il suo "povero piccolo sogno".
Pare di averlo davanti a legger le parole del "grande fratello" Corrado Govoni: «Il povero indimenticabile Sergio lo vedo sempre come a vent'anni, con quella sua andatura incerta, a corto respiro come il volo dell'allodola prima di prendere quota, o come quella di una bella ragazza troppo ammirata: con quella sua bella faccia un po' reclina, gli occhi sorridenti, e la voce così soave e calda in quella bocca sensuale...». E poi l'amico Alfredo Tusti che offre una fedele immagine del poeta «un giovane dal volto pallido, la fronte chiara con la ciocca di capelli bruni sulla tempia destra, la bocca tumida e rossa e gli occhi pieni di bontà e di festa». E infine valgano come ultima testimonianza le parole di Marino Moretti che ricorda l'incontro con Sergio Corazzini avvenuto nel 1906, circa un anno prima della morte: «Entrò elegantissimo, un po' con l'aria di entrare in scena, se ben col sincero proposito d'abbracciare un fratello mai visto: giovane d'appena vent'anni, bello, prestante, aitante e tuttavia con qualcosa di vecchio nella figura e negli sguardi errabondi, candido e insieme letterario nell'espressione... Confidava che stava per morire con una leggera effervescenza letteraria, sì che non pareva, dopo tutto, ch'egli dicesse e facesse sul serio...».
Ecco la nascita del mito di Corazzini: le pose forzate da poète maudit, la faccia del bel ragazzo tra demonio e santità, candido e sensuale, dandy dall'aria viziosa, ricercato nel vestire con cappelli a larga tesa e cravatte a papillon nonchè la fama di accanito bevitore di Pernod.
Sergio Corazzini pare avere intorno a sé un alone di martire, di vittima predestinata fin dall'inizio, fin dal suo primo contatto con una vita crudele costellata da delusioni e assai lontana dall'immagine dell'adolescente fantasticante e sognatore: obbligato ad abbandonare gli studi a causa delle difficoltà economiche in cui versa la famiglia per colpa di errate speculazioni in borsa da parte del padre; costretto a lavorare come impiegato per una compagnia assicuratrice in uno squallido ufficio nell'ammezzato di una vecchia casa; un ragazzo con tanti sogni nel cassetto eppure imprigionato e relegato ad un lavoro oscuro, "senza amore e senza scopo"; giovane malato di tubercolosi con la morte come compagna sempre accanto. Povera giovane vita destinata ad essere spezzata dall'inesorabile male e i ripetuti e ossessivi accenni alla morte, nelle sue liriche e nelle sue lettere, sono lo specchio fedele d'un poeta che "ancora vive" ma si sente già vittima del nefasto destino.
Quelle famose parole «ora, per morire bisogna pur che viva...» accompagnate dalla lenta malattia delle lacrime sono la spietata chiusa di un'amara considerazione sulla propria esistenza: «Tutta la dolce, rassegnata tristezza della mia vita è in un pensiero di morte. La dedizione del mio corpo al Nulla o al Tutto, secondo l'ora che passa, si intensifica in un desiderio così folle e così enorme come se nella cessazione della mia esistenza io intravedessi ciò che tiene gli occhi del prigioniero, rimasto per un caso, privo di sorveglianza. E questa voglia di morire è, talvolta, dolce come il bacio dell'amata, come il primo bacio... Io mi sento, allora, grande, o più che grande, vecchio e tenero come un nonno... E mi sento buono follemente, poichè la morte è un'amante pura come la libertà... Io mi sento forte e sano, provo disgusto di me medesimo e voglia intensa di piangere... E quando ho pianto, la lenta malattia delle lacrime mi penetra tutto, stilla sull'anima mia, simile a rugiada malata sopra una corolla disfatta, e la grande, l'usata tristezza mi ha nuovamente. La mia vita sarà senza dubbio di assai breve durata e me ne andrò, forse un giorno, il giorno in cui un incidente fatuo, in apparenza, determinerà per sempre, la grande risoluzione... Ora, per morire bisogna pur che viva...»
Nella sua brevissima e tragica carriera letteraria (la sua vita si brucia nel giro di pochi anni, dal 1886 al 1907) comincia a frequentare il Caffè Sartoris dove incontra gli amici poeti: Alfredo Tusti, Alberto Tarchiani, Tito Marrone, Giuseppe Caruso, Guido Sbordoni e il già ricordato Corrado Govoni. Con alcuni di loro trascorre le serate in lunghe passeggiate sull'Appia Antica e la Salaria «a cercar chiese fuori mano o abbandonate (come San Saba, San Marcello, Santo Stefano Rotondo, Sant'Urbano e via dicendo) che saranno motivo d'ispirazione per molte liriche. In una lettera ad un amico scriverà: "Sai quando è che compongo delle meravigliose liriche? Allora che passeggio, solo, per le vie più ignote di Roma, nella notte. Canto, canto, tante cose strane, inverosimili, che mi fanno talvolta anche piangere un po'! Vedi se sono folle».
 

 
La sua poesia e la sua vita furono una cosa sola
 
Sergio Corazzini fu un poeta desolato che con la sua voce piangente mise sul piatto della vita i suoi ideali e scrisse diverse volte che «desiderava solo dormire infinitamente»; un povero cuore che seppe andare oltre i segni sensibili delle cose e le apparenze degli uomini costantemente proteso a cogliere ciò che «ancora non muore».
Mite e sorridente, timido e silenzioso, buono e paziente: con il suo sguardo rassegnato, la sua voce intrisa di mestizia, la sua fragilità «sono così fragile che morirei vedendo morire una rondine», la sua vita fatta di gesti quotidiani e di sentimenti tristi quasi a limitarsi nell'intento di riuscire a saper vivere la vita semplice delle cose.
La sua poesia vive in un mondo malinconico, in una realtà perpetuamente immersa in una desolazione, senza possibilità di soluzione e senza momenti illuminanti, solo muri in perenne ombra (l'ombra corazziniana della morte vicina ancor più tragico presagio), giardini chiusi o chiese abbandonate che non conoscono raggi di sole e le stesse lacrime che si fanno rugiada malata non sono che le metafore di una lettura del mondo che «smantella le ultime sopravvivenze dell'ottimismo ottocentensco».
Il linguaggio dei crepuscolari accogliendo la scelta di un mondo di piccole cose, di sentimenti umili, di una quotidianità di gesti, descrive una realtà rimasta fino ad allora estranea alla poesia; una rottura contro la retorica del "vivere inimitabile" dannunziano, l'attivismo, la mitologia del superuomo a cui si contrappone la consapevolezza della fragilità dell'uomo: ecco allora che vengono alla ribalta interni cittadini, paesaggi comuni ed umili, giardini chiusi, tristi cortili con i muri vestiti di bianca tristezza senza nome, chiostri, chiese desolate od abbandonate, piccole cappelle in campagna, campanili, candelabri, odore d'incenso, confessionali con tendine verdi sciupate, acquasantiere come occhi lacrimosi che diffondon stille sulle fronti degli uomini, lenti angosciosi rintocchi di campane, e poi ancora tetre rovine, tombe e cipressi, marmi urne e bare, funebri cortei, vetri lacrimosi, freddi e vani simulacri, portoni semichiusi e davanzali deserti, torri disabitate tristi e desolate, e infine speranze perdute, preghiere vane, sogni infranti, inutili parole, tristi cantilene sempre avvolte da una muta breve agonia, da una tetra dolcezza. Le povere piccole cose nell'ombra soffocante, chiuse le finestre e le porte, passi silenziosi nel lungo corridoio, pianti senza fine, inutili attese, perduti sogni pieni di una mortale nostalgia.
Un vasto repertorio di immagini e di oggetti che prendon forma dalla sonnolenta vita provinciale, tra languori e malinconie, e passano prima dalla stanchezza del giorno lacrimoso, dalle tristezze infinite, dai perduti e tristi occhi rassegnati d'una buona dolce creatura, per giungere poi all'armamentario chiesastico crepuscolare corazziniano e alle suppellettili del piccolo salotto borghese gozzaniano (il pappagallo impagliato, il busto di Napoleone, i fiori in cornice, le scatole senza confetti, i frutti di marmo sotto campane di vetro, acquarelli scialbi, stampe d'un tempo, lampadari vetusti, sedie parate a damasco e via dicendo).
E proprio attraverso il recupero di questo armamentario e grazie ad esso si scopre il valore "confortatorio" di mille piccole cose che un tempo non avrebbero minimamente interessato.
Fu poesia pervasa da una stanchezza del vivere, da un disilluso ripiegamento su se stessi, tra sofferenza e autocompianto, in una dimensione languida, in una atmosfera sentimentalmente desolata e dai toni malinconici eppure i poeti crepuscolari introducono un linguaggio nuovo nella tradizione italiana, accogliendo le piccole cose e le semplici parole della vita quotidiana, scelgono la ricerca di un tono volutamente dimesso e familiare: un tono diverso di una poesia, senza miti e senza gloria, che chiude con la tradizione di fine ottocento, con l'aulicità e la preziosità della produzione dannunziana, proponendo una tematica umile assai lontana da ogni compiacimento, ripudiando il canto pieno a favore di un andamento prosastico e discorsivo.
La reazione alle forme auliche ed eroiche di D'Annunzio, alla figura del vate e alla retorica di Carducci avvenne con un linguaggio volutamente dimesso. E a proposito della poesia corazziniana così scriverà con accento critico Emilio Cecchi: «Dei crepuscolari, se Gozzano fu il Messia, il romano Sergio Corazzini sarebbe stato il Battista» e, dalla vivacità delle prime esperienze, Corazzini passerà a ritmi languidi e malinconici ed approderà infine ad una espressione sfumata e cantilenante «in cui non sopravvive che la desolata nota sentimentale ed un vago alone musicale».
Di certo abbiamo, da un lato, l'umana sincerità del Corazzini seppur con una poesia influenzata dai modelli stranieri di Jammes e dai componimenti di Moretti e di Govoni ma in quella sua breve e tragica stagione vi fu sempre qualcosa di vago, di non determinato, di sterile; e dall'altro lato troviamo invece l'abile letterato come il Gozzano che seppe sfruttare alcuni temi e spunti della lirica corazziniana.

Eppure le prime liriche sono in dialetto romanesco e vengono pubblicate sul giornale satirico umoristico Marforio a cui seguiranno collaborazioni con altre riviste romane come Rugantino e Fracassa. Numerose saranno le "poesie sparse" apparse su giornali e riviste, intrise di riferimenti ed imitazioni stucchevoli pascoliane e dannunziane. Vi sarà comunque la volontà di conquistare un personale linguaggio, di abbandonare anche le tematiche e i riferimenti dei poeti d'oltralpe che predicano la semplicità come il Jammes (la personificazione del silenzio come nume col quale entrare in comunione), lo stesso enfant prématurément sage o l'enfant divin di Guérin che si ritroverà nell'affermazione di Corazzini «L'anima del poeta abita nell'anima del fanciullo», filo conduttore del Piccolo libro inutile; i poeti intimisti come Maeterlinck e Rodenbach (ad esempio la tristezza evocata dal suono delle campane), la tristesses sans cause di Laforgue, il costante tema lirico della suggestione delle vetrate delle cattedrali e il motivo dell'eterna "farce humaine", l'éternel sanglot di Albert Samain: sempre nel tentativo di giungere ad una originalità della propria materia poetica.
Il percorso è breve ma intenso quasi a svelar le cose a mano a mano, a ridestarsi per riuscire a fissare i contorni: e le prime raccolte Dolcezze e L'Amaro calice non sono che le basi gettate per le opere a seguire, forse più uniformi, come Piccolo libro inutile e Libro per la sera della domenica.
Nelle "poesie sparse" le scelte tematiche sono certamente frutto di innegabili riferimenti e di numerose imitazioni: l'amore come trionfo dei sensi, il binomio amore-morte, la donna pervasa d'ineffabile mistero, eppure tali motivi denotano già una connotazione personale. Il pianto pascoliano, il sole come fonte di vita e l'ombra come simbolo di morte che diverrà sogno, i motivi decadenti e religiosi e poi la figura femminile già si fa donna amica, sorella, la chère douceur delle Elégies di Jammes, la soeur di Samain.
Nelle liriche di Dolcezze il motivo del sogno presente nella poesia Acque lombarde «Acque serene ch'io corsi sognando... su voi la sognante anima mia/muove per suo spiritual viaggio» e poi in Giardini «O piccoli giardini addormentati/in un sonno di pace e di dolcezze... o ritrovi di sogni immacolati...» sembra già unire queste prime esperienze alle visioni oniriche finali della famosa lirica La morte di Tantalo.
Il tono della confessione sommessa, la poesia unita indissolubilmente alla vita stessa, quella sorta di entusiasmo per la poesia, l'atteggiamento ancora fiducioso osservando oggetti e piccole cose: il dolore "lieve" è ancora quello d'un giovinetto che soffre per pene d'amore «cuor nostalgico in preda al doloroso senso/di cercar, vanamente, per sé un amore immenso!»
Nella seconda raccolta de L'Amaro calice si avverte la dolorosa condizione dell'anima, si assiste ad un ripiegamento sulla propria anima triste e inizia a farsi strada quella perdita di senso della poesia «il poeta viene a patti con la disperazione»: è un passaggio dal sogno al timore che al rispuntar del sole non rimanga che un "cuore morto" ed emerge prepotente il pensiero della morte. Il crollo dei sogni, delle vane speranze, quel morire di nostalgia e di malinconia in una vita semplice e umile.
Nella successiva raccolta Aureole, il poeta ormai è testimone unico della crisi della propria vita e i motivi del sogno e della speranza sono ormai "miseramente falliti", privi di significato: la lenta morte e lo sfacelo delle cose accompagnano l'abdicare alla vita d'un poeta malato «io sono, veramente malato!/E muoio un poco ogni giorno...». Il poeta stanco, solo e perduto è paragonato alla figura di un pellegrino, curvo e pensoso, che cammina senza una mèta: il malinconico destino è già segnato.
Nel poemetto in prosa del Soliloquio delle cose verrà poi anticipato il motivo fondamentale del Piccolo libro inutile: e cioé quel ripiegamento sul silenzio "vi parlo dall'ombra e dal silenzio", quella rinuncia alla vita quando essa non è più in grado di procurare alcuna gioia.
 
Al fanciullo triste, "sempre più piccolo, sempre più povero", di Desolazione del povero poeta sentimentale, non sono rimaste che misere tristezze comuni, nel silenzio si consuma l'abbandono alla malattia del lento morire: e la rinuncia alla vita attrarrà anche quella alla poesia «Io non sono un poeta./Io non sono che un piccolo fanciullo che piange./Vedi: non ho che lacrime da offrire al Silenzio». Il lento morire, ogni giorno un poco, condurrà la parola al silenzio, la parola diventerà inutile e vana, emergerà il senso del disfarsi delle piccole cose del Soliloquio.
La "vocazione" alla propria malattia, la rassegnata sottomissione al proprio destino nel Piccolo libro inutile e il "sentirsi morire" di Desolazione del povero poeta sentimentale condurranno all'estremo sogno in una dimensione "oltre la morte" della lirica La Morte di Tantalo: l'acqua d'oro della fontana sfugge dalla bocca, i dolci frutti saporosi son negati e non rimane che errare per sempre.
Nella poesia di Corazzini la morte, inesorabilmente, prende il sopravvento e la poesia scompare, poco a poco: ecco allora la lenta eliminazione di oggetti e descrizioni d'ambienti, la parola si riduce all'essenziale, i versi frantumati, numerosi i rimandi e le pause: un inesorabile umile volo verso l'astrazione. Rimane una «povera offerta di pianti mendicati disperatamente per le vie dell'anima» come scrive Corazzini nella dedica sulla copia del Piccolo libro inutile per l'amico Aldo Palazzeschi: nient'altro che una dichiarazione d'inutilità, d'impotenza verso la vita e la poesia. E la stessa poesia si fa monologo interiore, dialogo rivolto a sè, colloquio d'anima, una confessione d'una semplice anima ormai rassegnata «sono un fanciullo triste che ha voglia di morire», e poi «Oggi io penso a morir», e infine «Io non so, Dio mio, che morire./Amen».
Quando manca poco meno di un anno alla sua morte non v'è ormai che un unico approdo e la realtà appare ormai un "pallido riflesso" nel povero specchio melanconico: l'eterna strada del viandante e del pellegrino sarà il sentiero della morte perchè le speranze sono tutte svanite, la parola è vanità di un'offerta, nessuno ascolta, nessuno raccoglie il pianto.
Sono passati pochi anni dai suoi primi versi «Il mio cuore è una rossa/macchia di sangue dove/io bagno senza possa/la penna...» e dall'iniziale inscindibile connubio vita-poesia si è passati alla fine dei sogni, al venir meno delle speranze e delle illusioni: unico residuo la mortale tristezza di un vano pianto. La dichiarazione di un fallimento.
La "lenta malattia delle lacrime" accompagna lo sfacelo delle cose come nella Finestra aperta sul mare e in Soliloquio pervade i vecchi mobili, i vecchi abiti, le morte cose: la stessa morte giunge liberatrice, leggera e soave, in una dimensione senza tempo dove la poesia non è più neanche pianto ma solo silenzio.
Sarà infine nell'ultima raccolta Libro per la sera della domenica che cadranno le principali tematiche corazziniane: le cose religiose, gli oggetti crepuscolari, i sentimenti intimi come l'amore, il sogno, la morte, l'illusione. La poesia perderà ogni valore e diventerà preghiera incomprensibile, pianto ostinato e inascoltato, liquidazione delle proprie idee. La poesia abbandonerà ogni dignità, annullata nel pianto, destinata al silenzio eppure il poeta non potrà e non riuscirà a rinunciare alla poesia e sarà condannato a scriver versi «non morremo più... e andremo per la vita/errando per sempre».
La condanna alla "sofferenza della vita", senza neppure la speranza nel sollievo della morte, anticipa il significato dell'ultima lirica di Corazzini La Morte di Tantalo, l'enigmatico testamento poetico pubblicato postumo sulla Vita Letteraria nel giugno del 1907, che rappresenta una condanna alla vita nella sua eterna quotidiana tragicità: v'è l'esistenza degli uomini con l'angoscia profonda, il tormento di chi é preda di inappagati desideri, la ricerca di una spiegazione trascendente al quotidiano morire, ad una vita di fatica, ad una vita priva di desideri che non vale la pena vivere.
«La sua poesia non era se non l'ombra proiettata sul suo volto di giovinetto esangue della morte imminente che l'aveva in suo dominio da quando aveva cominciato a conoscere e amare la vita» così scriverà Fausto Maria Martini. Il pianto della povera anima smarrita e il dolore d'un fanciullo sovrastano tutto ed egli si rende conto che non può superare il sofferto dramma, la desolata coscienza di questa incapacità: quasi una morte per troppo amore nel piccolo sogno d'un poeta che ha amato tutti.
 
Il fascino della poesia e della figura di Corazzini è proprio in quella sua struggente delicatezza, in quella inesperienza giovanile, nella visione della vita sovente penosa, nell'umile dolore e nella precoce stanchezza di ogni cosa. Indubbiamente Guido Gozzano ebbe la forza e il tempo di elaborare integralmente la sua esperienza letteraria e quei toni dimessi e l'umile tematica furono filtrati attraverso una consapevolezza ironica mentre, al contrario, l'incompiuto Corazzini, nella sua breve stagione, offrirà sì una poesia frammentaria, autobiografica, tutta densa d'un realismo interiore, sentendo il bisogno di esprimere nel verso libero, al di fuori di schemi metrici, i sentimenti e le riflessioni ma le sue istanze espressive saranno percepite e diventeranno motivo di ricerca fondamentale per la poesia successiva.
La sua poesia ai confini del sogno e della tristezza quasi sospesa nella rarefazione e nello disfacimento, in quella effusione di una estenuante malinconia, senza colori e senza illusioni, in un dolente abbandono: la poesia di un fanciullo malato che si sente morire giorno per giorno. La tragica confessione è offerta con nuda semplicità ed è sentita come un lento affondare nell'ombra proprio durante la giovinezza: il triste fanciullo rinuncia subito ad ogni cosa più grande di lui e si offre indifeso al suo triste destino.
«La sua poesia ha l'incanto della giovinezza e Corazzini fu poeta che parlò», scriverà Umberto Saba, «senza amplificazioni, senza montare sui trampoli e fu semplice e straziante». Lo stesso Corazzini affermerà: «I libri di poesia da me pubblicati sono lo specchio umile della mia semplice anima».
Fu un breve viaggio che vide da un lato il desiderio di "dissolversi nel mare", di "sommergersi nell'azzurro del cielo" e dall'altro la visione, l'attrazione e il desiderio di rinchiudersi in uno "spazio chiuso" (l'ossessione della bara ne è un esempio con i versi anima prigioniera nei confini/come una bara nella sepoltura), di perdersi in un "anonimato cosmico". La poesia del dolce e pensoso fanciullo con cui si identifica il poeta ha il suo avvenire nella morte e la malattia per Corazzini è «consustanziale, connaturata all'esistenza umana, una qualità della vita che preannuncia e presentifica la morte» così come, ad esempio, ne Il canto delle crisalidi di Michelstaedter «nella vita/viviam solo la morte» e come per Italo Svevo la vita è una malattia mortale.
Se le malattie hanno una missione filosofica si può ben dire che è quella di mostrare quanto sia illusorio il sentimento dell'eternità dell'esistenza e quanto sia fragile il "povero piccolo sogno" della vita. È inutile negarlo: la malattia rende la morte sempre presente. Le sofferenze lacerano, dissanguano, rendono la vita una prolungata agonia anzi rendono visibili e percepibili diversi modi di morire. La presenza inesorabile della morte, nel momento in cui si impadronisce di noi, giovani o all'ultima stagione della vita poco importa, fa perdere tutte le illusioni e le speranze.
L'uomo scopre la morte nella propria soggettività e questa interiorizzazione parossistica scopre una regione dove la vita e la morte si intrecciano e si fanno una cosa sola. L'inquietudine, l'insoddisfazione, avvertire la presenza della fine, rassegnarsi per i momenti irrimediabilmente perduti non sono altro che la consapevolezza che non si può concepire la morte senza il nulla: davanti ad essa il silenzio assoluto o l'ultimo grido disperato. L'arte di morire non s'impara perchè non v'è una regola, nè per il poeta nè per chiunque, ma solo l'irrimediabile agonia, lenta e rivelatrice, e una sofferenza sconfinata.
È questo il carattere demoniaco del tempo: c'e la vita e la fine di tutto, la creazione e l'annientamento.
Essere persuasi, come il giovane Corazzini, di non poter sfuggire a una sorte amara, essere sottomessi ad una fatalità implacabile: il distacco progressivo da tutto ciò che è concreto porta all'espansione verso il nulla e la stanchezza di vivere separa l'uomo dal mondo e dalle cose ed ecco prevalere l'abbandono totale al sentimento della propria finitudine.
Solo con la morte è ormai concepibile il vanificarsi dello spazio chiuso che serra l'anima in eterna prigionia, il dissolversi del progressivo restringimento di ogni orizzonte, di quella cella che chiude, di quella grigia bara inchiodata. In questo rapido accompagnamento funebre della morte di ogni desiderio ormai il poeta è disperso in spazi indescrivibili e remoti dove è la sua anima.
 
L'opera di Corazzini produce quindi risultati in un certo modo esemplari e trova un posto ben definito nella nostra lirica novecentesca: la sua lezione è nella confessione dell'incapacità di dare una risposta alle domande della vita «E non domandarmi/io non saprei dirti che parole così vane», sempre in bilico sul silenzio, nel rifuito delle strutture metriche tradizionali fino ad assurgere a nuova poesia d'una generazione malinconica e scettica.
Sergio Corazzini fu un giovane poeta condannato alla fatica della poesia e alla pena della vita: eppure nel suo breve viaggio c'è infine un giorno di rivolta contro un mondo ferito e straziato dalle pallide verità delle immagini liriche dove la vita si rifrange come in uno specchio, lacerata estenuata anemica, eppur tirannica con l'obbligatorietà del fatal destino dell'uomo. Fuori ci son le strade in ombra, le chiese in rovina, i giardini chiusi con statue corrose dal tempo, le diverse forme della verità, le piccole cose quotidiane che vedon le ore passare eguali così cariche del diverso destino per cui un'esistenza s'impantana e un'altra fiorisce, da un lato si apre un antico cancello arrugginito d'un camposanto e dall'altro si vive ascoltando una languida musica d'un organetto, s'illividisce nella morte e s'accende un amore. Dentro la poesia, nelle reiterate parole, tutto è uniforme, neutro ed isolato: tutto è stravolto dalla morte, l'intera l'esistenza deve fare i conti con il calendario, e la vita e la morte sono stampate nella stessa matrice. Il respiro è soffocato dalle mura, l'anima è prigioniera in ristretti confini, il lento incedere è simile a un cadere di foglie, la commedia umana è straziata e rinchiusa tra le solide pareti di antichissime sale: ogni cosa è livellata nella polvere che ci seppellisce quotidianamente, nell'odore appassito, nello sfacelo totale. Tutto è perduto: l'esile richiamo a un sogno di gioventù, la fonte della gioia, le fiorite primavere, il profumo della vita e dell'amore. Senza distinzione alcuna. Non un volto che le distingua non un gesto che le tradisca: solo una pagina morta.

Massimo Barile


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