-
Camillo Sbarbaro ha una posizione estremamente
singolare nella nostra letteratura del primo
Novecento. Con la sua parola nuda, con la scarna
semplicità del suo dire e con i suoi
frammenti, fu sempre estraneo a qualsiasi
concessione retorica, rimase saldamente avvinghiato
a quella "interiore intenzione di constatazione",
di "lucida autocoscienza di una condizione morale
di crisi, sofferta senza evasione nell'elegia o
nell'abbandono al fervore" come è stato
ripetutamente sottolineato dalla critica. Ma
v'è di più. L'uomo ha lavorato con
una fedeltà alla linea di condotta per tutta
la vita che pare avere come obbiettivo quello di
ridurre la sua letteratura al silenzio ed il poeta
ad una "mineralizzazione", ad una "cosa inerte",
posizionata in una vita arida e pietrosa: l'amara
consapevolezza di una vita senza
sorprese.
- Camillo Sbarbaro
fu il grande dilettante di sensazioni rare, ostile
ad ogni catalogazione, rinchiuso in una specie di
aristocrazia nell'umiltà, il fanciullo
estroso secondo l'immagine di Montale,
l'appassionato di studi di botanica, il
collezionista di licheni, orgoglioso delle sue
scoperte, archivista di esemplari rari nella sua
esistenza di scapolo, studioso e traduttore di
classici greci e scrittori francesi e infine negli
ultimi vent'anni della sua vita saldamente ancorato
all'ultimo porto, una piccola casa di Spotorno,
teatro di una consolazione naturalistica con le
indimenticabili immagini della Liguria: il ritorno
alla natura, desiderio espresso fin da adolescente.
Non a caso la sua vita fu quella di un "irregolare"
che mal sopportava il lavoro impiegatizio e i
compromessi per far carriera e finì per fare
il professore supplente di scuole private
insegnando il greco. Dopo le esperienze delle due
guerre tra bombardamenti e sfollamenti, dopo le
sofferenze e le privazioni anche quando ebbe
l'incarico per insegnare in un istituto di Gesuiti
lasciò il lavoro per non dover subire la
tessera del Fascio e fu antifascista per una
questione "di natura", sempre fedele a quella sua
visione della politica, in primo luogo come di una
rappresentazione di un altro vizio del genere umano
e, in secondo luogo, a quella sua concezione della
guerra come di una esperienza che comunque non
avrebbe inciso sulla sua vita futura e neanche
sulla sua letteratura come si può leggere
dalle confidenze delle sue Cartoline in
franchigia. Ecco allora l'uomo che distillando
la sua vita, goccia dopo goccia, (da non
dimenticare che Camillo Sbarbaro dopo le prose di
Liquidazione pubblicate nel 1928 si chiuse
in un lungo silenzio fino alle nuove poesie di
Rimanenze del 1955) e catalogando frammenti
e Scampoli come unico bagaglio, con quella
rappresentazione impietosa della condizione
dell'uomo già così carica di
solitudine, giunge infine ad una unione con la
natura, con la terra ligure: nell'ultima stagione
della sua vita, di sicuro con uno sprazzo di
serenità in più, con una
pacificazione nella sua parola e con una sensazione
come di una sorta di accoglimento in un grembo
naturale. Emerge una sorta di desiderata o forse
sotterranea ma sempre soffocata partecipazione al
mondo con frequenti visite di vecchi amici, le
immancabili passeggiate lungo le Riviere, le
escursioni con gli amici, le ultime catalogazioni
dei suoi amati erbari di licheni e le quotidiane
scappatine al caffè.
- ***
- La poesia
può essere pietra, fiore, arbusto o lichene:
il compito è andare a cercarla, a coglierla,
a estrarla, a catalogarla in un lento recupero, con
un assiduo lavoro, con intensa ricerca e farsi
contagiare. La lettura del mondo con i suoi
contrasti, le artificiosità ed i vizi lo
condusse a "lasciar le cose come stanno" sotto la
luce spietata dell'osservazione scientifica ed ecco
allora che come un marinaio salvato da un tremendo
naufragio, travolto dalle tempeste, sballottato qua
e là dalle onde, avvilito per l'umano stato
di impotenza davanti alle forze della natura, ormai
esausto e quasi annullato, l'uomo Sbarbaro
finì per sentirsi quasi un privilegiato nel
poter ancora avere tra le mani quelle misere
rimanenze, quelle poche cose che s'erano salvate e
potevano diventare simboli, non importa di qual
fatta, per difendersi dal mondo, per trasformare la
diffidenza di un poeta in un ricercatore di licheni
di riconosciuta fama internazionale.
- In un saggio
critico Carlo Bo fissa in modo meraviglioso quel
passaggio dalla vita letteraria alla scelta
dell'altro campo di studio che da quel momento
avrebbe diretto e influenzato la vita di Sbarbaro:
«l'erborista nasce dall'abbandono della poesia
e le parole dovevano assumere l'aspetto di
esemplari, come esemplari erano in fondo i suoi
sentimenti... Una volta rifiutata la mappa della
vita comune, provvide a costruirsene una per suo
esclusivo uso e per la quale in fondo non era
neppure prevista la presenza di passaggio del
lettore... Per Sbarbaro l'opera o meglio l'idea di
opera si riduceva a quella di erbario, di
campionario per il proprio piacere solitario... il
punto d'arrivo era l'essenziale, la parola nuda,
l'osso delle cose».
- Le poche parole
dettate tra l'incertezza e la refrattarietà,
la nuda pietra e l'elitaria scoperta del
ricercatore portavano con sé la certezza
dell'inutilità, una vocazione al silenzio,
una negazione alla vita che non contemplava un
qualsiasi momento di tenerezza o di ardente
passione e si poteva ben capire che tale scelta era
insostenibile. "Si può fare della
letteratura un terreno di esperimenti abortiti, del
discorso di un erbario?" questa è la domanda
che si pone il critico. La risposta è: certo
che si può fare. E Sbarbaro ha voluto fare
questa operazione ma nel momento in cui ha dovuto
attrarre a sé la vita e conferirle il valore
dovuto s'è reso conto che la sua
partecipazione taciuta era un rifiuto e la sua
morale era fondata sul "non".
- La sua vita era
all'insegna del distacco, dello spegnimento lento,
come quello della consunzione di una candela, di
una riduzione all'osso dei sentimenti, insomma fare
della propria esistenza un segreto da custodire e
al contempo fare della sua letteratura una scarna
prosa di scampoli limitati da una "misura
privatissima", senza lasciarsi andare ad avventure
inutili: in definitiva non accettare la letteratura
come condizione. Anzi allontanarsi da essa. Lo
stesso Sbarbaro diceva, tra il serio e il faceto,
di voler affidare il futuro della sua fama al
lavoro di lichenista e si capisce chiaramente che
la sua esperienza letteraria è quella di chi
non ha nessuna intenzione di occuparsi
professionalmente di letteratura: estraneo ad ogni
genere di diatriba letteraria (nonostante numerose
poesie e prose siano apparse su varie riviste
letterarie quali La Riviera Ligure, Lacerba, La
Voce), lontano anni luce dalla figura
dell'intellettuale (nonostante le frequenti
collaborazioni a riviste come Itinerari,
Letteratura, La Fiera Letteraria, Officina, ed
altre), decisamente refrattario alla partecipazione
attiva e appassionata ai salotti e ai circoli
letterari (i suoi interventi erano timorosi e
riservati, una sorta di "astrazione")
nonché, per natura, corpo estraneo alle
accese dispute culturali, politiche e letterarie
del suo tempo per quel carattere di ligure
scontroso, geloso ed orgoglioso delle sue scoperte
(uniche concessioni gli incontri nel breve
soggiorno fiorentino nella primavera del '14 per la
pubblicazione di Pianissimo presso la
Libreria della Voce dove conosce Ardengo Soffici,
Giovanni Papini, Dino Campana, Ottone Rosai e poi
le frequentazioni di alcune gallerie, caffè
o ritrovi in case d'amici, intimi e fidati, dove
conosce Eugenio Montale, primo appassionato
recensore delle prose di Trucioli, Adriano
Grande, che nel primo numero della rivista
Circoli ospita i Versi a Dina, Carlo
Bo, Carlo Emilio Gadda, il "grande amico" Angelo
Barile, Guglielmo Bianchi.
- "La sua vita
è strana". Il suo rifiuto delle condizioni
normali dell'esistenza, la sua silenziosa
opposizione alla società costituita, alla
vita pubblica, alla professione di letterato, il
suo non obbedire a nessun credo fino alla
registrazione poetica di ciò che andava
salvato oppure gettato. Una registrazione che
salvava solo il ricordo e poco altro, seguendo un
percorso di esaltazione dall'interno: un uomo
sempre preoccupato di aver poco spazio a
disposizione come un viaggiatore che può
portare con sé solo un piccolo bagaglio e
deve man mano scartare il superfluo, ridurre il
volume, pensare all'essenziale. Anche Sbarbaro
è intento a questa riduzione all'essenziale,
all'irrinunciabile: di una pagina può
salvare un verso eliminando tutto ciò che
può essere compiacimento, consolazione,
orpello inutile. La sua letteratura mortificata e
scarnificata si trasforma in quel pochissimo che
rimane, nell'indispensabile alla vita. Nel momento
in cui riconosce l'ineluttabilità
dell'andare diritto alle cose per mettere a nudo la
miserabilità del mondo si dirige già
verso il suo destino: davanti al mondo non ha
nessuna intenzione di raccontarlo e il suo discorso
è quasi avvilito dal carattere originario di
liquidazione; la parola mancata dell'entusiasmo
dà la sensazione che quel procedere
"pianissimo" tra i miseri resti della vita sia
l'esito finale non l'inizio di un viaggio. Eppure
riuscì ad inventarsi un proprio mondo,
personalissimo e di sicuro autentico: forse fu la
ricerca di un rifugio dalle insidie del tempo,
forse il motivo di tale scelta andava ricercato in
quella passione per il lichene da scovare nelle sue
peregrinazioni liguri o forse l'unico intento era
l'urgente testimonianza di una condizione interiore
racchiusa in quegli scarni versi che aveva messo
insieme o in quei pochi frammenti essenziali.
- La salvazione o
la dannazione, l'immobilità o il
rinnovamento, non avevano più alcuna
importanza perché era già stata fatta
tabula rasa dei valori: era ormai una constatazione
dell'accettazione del dato della liquidazione, del
non parlare quasi mai, e non poteva che condurre
all'ammutolimento, all'esclusivo dialogo con se
stesso, ad una presa d'atto del dramma individuale,
della vita d'uomo solo, di prosatore refrattario,
di ricercatore che chiamava la lente
d'ingrandimento "i suoi occhi", di lichenista ai
margini della maniacalità.
- "Non aveva
nè lezioni da prendere nè da dare, la
sua scuola era diversa, non aveva pareti, non aveva
maestri all'infuori della sua sensibilità"
scriverà Carlo Bo e fu così
perché nessuno gli avrebbe impedito di
utilizzare solo il suo personalissimo microscopio
per osservare la vita.
- La sua figura
è quella di un uomo sempre "fedele al
disinteresse assoluto del gratuito", negatore del
divertimento e del compiacimento, disinteressato
agli eventi e alle problematiche, indifferente
verso i miti e i falsi idoli. Rifugiatosi in un
angolo di terra per cercar tra le rocce o sui
tronchi degli alberi forse l'unica cosa che potesse
regalar un sussulto: un'incrostazione verdastra o
giallastra da "lambire" con una timorosa mano.
-
- Già nei
versi della prima raccolta Resine del 1911 che
rimase circoscritta ad un ambito assai limitato,
emerge chiaramente il tema dell'estraniazione
dell'uomo dalla società e da se stesso e
diventa ancor più pressante nella breve
silloge Pianissimo del 1914 dove viene messo
in evidenza il motivo dell'inesistenza a legger i
versi «Mi tocco per sentir se sono. / E
l'essere e il non essere come l'acqua/e il cielo di
quel lago si confondono»: è la perdita
di contatto con la realtà isolandosi in un
mondo tutto proprio, è la volontà di
"allontanamento" che fa diventare inutile il
rapporto con gli altri che non conducono, e non
possono condurre, alla conoscenza del mondo
circostante. Ecco allora che l'unica
possibilità concessa all'uomo per sfuggire
all'angoscia procurata da questa profonda e sentita
inappartenenza alla società non può
essere che l'oblìo.
- Eppure la forte
impressione che si ha nel leggere la raccolta
Pianissimo è l'unità di
linguaggio che tenacemente conquista con una
estrema semplicità, in uno stile senza
contrasti e senza divagazioni, con una profonda
coscienza di una condizione morale di crisi senza
lasciarsi andare a facili illusioni od incanti. La
sua novità si basa sul significato nuovo che
assumono le forme sintattiche della tradizione: la
sua parola è al servizio di una confessione,
di un'autocoscienza, di una "intenzione morale
tutta risolta con notazioni interiori" come ha
evidenziato Bàrberi Squarotti in
Astrazione e realtà nel lontano 1960.
- E non v'è
dubbio che Camillo Sbarbaro è ineffabile
testimone di una lotta tutta interiore per
immunizzarsi dalla vita circostante fino ad
arrivare al momento del tacere, del silenzio da
eremita davanti allo spettacolo appagante eppur
minimale delle poche cose davanti a casa. Non vuole
fornire analisi o diagnosi eppure inspiegabilmente
il suo sgomento del vivere, il suo male di vivere,
è fonte di contagio per tanti dopo di lui.
La linearità della sua poesia esprime una
sorta di estraneità radicale alla vita,
quasi un enigma minuziosamente ideato e composto,
una misteriosa contemplazione senza contrasti e
senza giudizi. L'energia interiore viene incanalata
tra i ripiani della scansia ottocentesca che
contengono i fogli di carta sui quali sono riposti
a seccare i licheni: ricchezza estrema di una
eredità umana. Il poeta crea il suo ordine
di valori e se, da un lato, la sua prospettiva
futura è tutta rivolta agli studi di
botanica, dall'altro continua a scrivere, goccia
dopo goccia, poesie e prose che non sono altro che
reperti esistenziali uniti da un continuo filo
conduttore che è la fedeltà a se
stesso.
-
- L'apice della
sua damnatio fu andar per osterie, bere il
vino aspro della vita ed anche quel suo rifugiarsi
in una piccola casa in terra ligure non fu altro
che un rifiuto a qualsiasi catalogazione per
"rivendicare l'estrema libertà dei suoi
sentimenti". L'uso di metafore che "riducono l'uomo
a cosa inerte e priva di vita" fanno parte di quel
lento processo di mineralizzazione che il poeta
porta avanti fin dai suoi primi versi «Forse
mi vado mineralizzando. Già il mio occhio
è di vetro, da tanto non piango; e il cuore,
un ciottolo pesante» così in Trucioli.
- E sarà
proprio nel recensire Trucioli su
L'Azione di Genova del novembre del 1920 che
Eugenio Montale scriverà: «Tira in
queste pagine un vento di malattia; una calma quasi
sorridente, quasi compiaciuta di sè. Il
centro dell'ispirazione qui è l'amore del
"resto", dello "scarto", la poesia degli uomini
falliti e delle cose irrimediabilmente oscure e
mancate: bolle di sapone, épaves,
trascurabili apparenze, arsi paesaggi, strade fuori
mano...». La lettura da parte di Montale della
raccolta Pianissimo e poi di Trucioli
lasciò un segno e in alcuni passaggi
prefigurò quello che poi saranno Ossi di
seppia soprattutto se pensiamo che nei fascicoli
manoscritti, datati marzo 1923 e conservati dagli
eredi di Angelo Barile, il titolo di quella sezione
inizialmente era Rottami (titolo infelice
poi saggiamente e giustamente modificato): quei
rottami erano un evidente richiamo ai trucioli
sbarbariani e non è un caso che in Ossi di
seppia saranno dedicate a Camillo Sbarbaro le
famose Caffè a Rapallo dove non manca
un omaggio all'amico «... e qui
manchi/Camillo, amico, tu storico/di cupidigie e di
brividi...» e nel secondo ben noto
Epigramma: «estroso fanciullo, piega
versicolori/carte e ne trae navicelle che affida
alla fanghiglia/mobile d'un rigagno...».
-
- Nel periodo del
suo trasferimento a Genova, tra le ripetizioni di
greco e latino, l'amicizia che lo lega a Eugenio
Montale e la collaborazione con La Gazzetta
di Genova, Camillo Sbarbaro riunisce le sue prose
nel volume Liquidazione del 1928, una presa
di coscienza della propria qualità poetica
attraverso fulminazioni e apparizioni furtive, di
fondo c'è sempre il velo dell'amarezza
«Se la memoria fosse del cuore, non un nome
svegliandoti ti verrebbe alle labbra. Nel
riflettere sono tutte le tue possibilità di
vita». Nel mese di giugno di quell'anno il
caro amico Angelo Barile gli scrive una lettera:
«...il tuo modo lirico è la cellula, il
frammento. Non puoi esprimere quella tua
umanità che in piccole gemme, in nuclei
ridotti, che s'aggiungono gli uni agli altri e non
differiscono granché fra loro; e le
particelle più esigue, le "minime" son
già comprensive del tuo mondo interiore...
Frammentista quando usava, frammentista ora che non
usa più. Le tue pagine per Dino Campana, per
Soffici... esprimono l'amarezza di chi ha visto
passare gli altri in braccio alla moda ed è
rimasto solo, fedele al suo modo, alla poesia della
sua giovinezza, che era già allora per lui
espressione di maturità, sua strada maestra,
sua sorgente e sua foce». Era un giudizio
positivo sui frammenti "ricchi di facezie e di
finezze" ma in più v'era una critica alle
aperture narrative di Sbarbaro che venivan
giudicate "d'incoerenza formale": le riserve
dell'amico erano dettate dalla profonda conoscenza
di Camillo Sbarbaro, della verità che l'uomo
portava con sé, della necessità di
non perdere l'autenticità: e aveva ragione.
Sbarbaro accettò con umiltà il
giudizio dell'amico che "stimava da sempre":
«Caro Angelo, ho letto e riletto non so quante
volte la tua lettera. Per le lodi che contiene? Non
credo, perché paiono l'esaltazione e sono la
distruzione del mio libro. Mi fanno ridere quelle
critiche cui subito ho creduto, perché sento
che tu solo vai al vivo. Hai certamente
ragione...».
-
- È la
testimonianza di un "mancato passaggio" ad una
più complessa prosa d'arte. Quello che
è letterariamente fine a se stesso viene
eliminato, ogni pagina spurgata dal superfluo,
nella direzione di una conquista sul piano
dell'arte e non meno sul piano della vita. Alla
stesura dei suoi frammenti si affiancano le
frequentazioni di amici letterati ed artisti,
numerosi viaggi, e la grande passione per la
botanica con la vendita di importanti erbari in
diverse parti del mondo.
- Qualche anno
più tardi la censura del regime fascista
colpirà le bozze del suo nuovo libro
Calcomanie che sarà diffuso solo in
poche decine di copie dattiloscritte da affidare
agli amici. Anche la sua passione per la botanica
che implicava frequenti contatti con studiosi e
scambi di esemplari di licheni con collezionisti di
tutta Europa fu vista con sospetto e numerose
furono le perquisizioni: pacchi di licheni furono
fermati alla frontiera e fu aperta anche una
inchiesta dalla prefettura che fu "tranquillizzata"
solo grazie all'intervento del direttore dell'Orto
Botanico Universitario ma Sbarbaro, per non aver
ulteriori fastidi, rinunciò alle ricerche in
attesa di tempi più propizi.
- Nel dopoguerra
si trasferirà con la sorella in una modesta
casa a Spotorno dove inizierà una feconda
attività di traduttore di classici greci tra
i quali Sofocle, Euripide, Eschilo e di autori
francesi come Flaubert, Stendhal, Balzac: famose
saranno le difficoltà che dovrà
superare per farsi spedire i testi. In questi anni
saranno riunite le prose di Rimanenze del
1955 e verranno riprese le relazioni botaniche con
studiosi di tutto il mondo sempre accompagnate
dalle irrinunciabili escursioni in quella terra
ligure che fisserà in liriche come Liguria
«Scarsa lingua di terra che orla il
mare/chiude la schiena arida dei monti/scavata da
improvvisi fiumi; morsa/ dal sale come anello
d'ancoraggio/percorsa dalla fersa; combattuta/dai
venti che si recano dal largo/ l'alghe e le
procellarie;/ ara di pietra sei, tra cielo e
mare/levata, dove brucia la canicola/aromi di
selvagge erbe...». Sbarbaro ricercherà
proprio là dove più arida è la
desolazione, l'intima relazione con la propria
condizione di solitudine quasi in un tentativo di
contatto della propria interiorità
pietrificata con la stessa condizione della natura
circostante: accettazione delle poche cose della
vita, dei pochi frutti della natura arida, uno
spiraglio vitale che sopravvive all'arsura, alla
canicola e al disseccamento.
- In tutta la sua
poesia il disagio esistenziale non si
stempererà mai se non forse nelle ultime
poesie di Rimanenze con l'approdo alla
consolazione naturalistica e alla centralità
delle suggestioni del paesaggio ligure. Sbarbaro
pare quasi ricercare un antidoto o quantomeno una
buona medicina che possa alleviare l'angoscia di
vivere. Non è un caso che ogni volta che il
poeta ritorna nella sua terra ritrova dentro di
sè una singolare adesione e comunione alla
natura ligure con le sue agavi del litorale,
l'aridità di certe zone montane, il torrido
mezzogiorno che secca ogni cosa, le nude strade di
terra battuta: unico sollievo un sorso d'acqua alla
fonte e qualche spruzzo di schiuma dal mare. La
casa a Spotorno che odora di resine e aromi di erbe
selvagge è l'inevitabile destino di un uomo
che custodisce gelosamente, a lato della scrivania,
la raccolta dei suoi licheni. Sbarbaro amava il
lichene come espressione della natura capace di
adattarsi sulle rocce e riuscire a sopravvivere in
condizioni estreme. Ma Sbarbaro non fu mai uno
scienziato, la sua passione non fu mai di tipo
scientifico, l'unico vero strumento della sua
ricerca furono gli occhi, capaci di scorgere quello
che gli altri non vedevano. L'unico lichenologo
italiano famoso all'estero usava soltanto un
piccolo scalpello, un martello minimo, una
scatoletta chiusa da due lenti e un microscopio
così modesto da far ridere anche un bambino:
erano la curiosità e l'amore per la natura a
renderlo unico. Disse una volta: «I licheni
m'interessano come forma negletta-povera?- di vita.
Sì, anche sui licheni scrissi fin troppo,
sempre cercando una spiegazione a questo hobby;
nessuna conoscenza specifica, solo
curiosità, piacere visivo, simpatia: la
stessa che mi fa avvicinare tutto quello che non
è vistoso, per gli altri senza importanza,
misero». In una fredda giornata di dicembre,
Sbarbaro raccolse l'ultimo lichene, il Theolocarpon
robustum Eitner, sulle rocce della stradina che da
casa sua portava in campagna: per staccarlo con il
suo scalpellino si arrampicò sulle pietre e
scivolò. Fu così grande la paura che
contrassegnò con una croce il pacchetto
contenente quell'ultimo lichene.
- «La vita
è disperazione perché non si lascia
cogliere nel suo senso ultimo... la contemplazione
è alla fine il solo modo di possesso che sia
concesso alle creature» e poi in un "fuoco
fatuo" così scrisse: «In due casi il
mio amore per i licheni soffre eclissi: quando sono
innamorato e quando scrivo. Vide giusto allora chi
senza conoscermi lo diagnosticò una forma di
disperazione». Nel suo eremo, il miracolo dei
licheni, ("una muffa più un fungo", "due
debolezze che fanno una forza") fu ciò che
lo tenne radicato alla terra: per non sentirsi
solo, per evocare un amore, perché "in ogni
lichene riconosceva una vita fraterna". Discrezione
e povertà che regalavano una meraviglia agli
occhi: un modo spoglio di esistere e la ricchezza
infinita del suo erbario regalato al Museo di
Scienze Naturali di Genova.
- Una vita passata
a ridurre, nel disinteresse assoluto di ogni
scelta: le sue poesie o le scoperte da lichenologo
sono le due facce di una fedeltà assoluta
d'un uomo. La sua parola si è sempre nutrita
di quello sforzo vitale per superare le insidie
della vita, per raccogliere quei pochi frammenti
d'idee con un linguaggio spoglio, con la
semplicità del suo dire, con la scarna
essenzialità: un forzato depauperamento fino
a non udire più nessuna voce «non di
rimpianto per la miserabile/giovinezza, non d'ira e
di speranza/e neppure di tedio». La gioia e il
dolore della vicenda umana non toccano l'uomo che
in un mondo paragonato a un grande deserto guarda
se stesso con asciutti occhi e con la sua anima
cammina come sonnambulo. «Sulla vertebra nuda
della strada, sui monti calvi e calcinati
l'aridità s'accanisce: e gli spruzzi di
schiume amare del mare sono lo specchio di una
simbolica vicenda personale».
-
- Nell'opera di
Sbarbaro ben presto v'è un continuo scambio
tra poesia e prosa ma il bilancio della sua poesia
era già fissato in partenza. Il suo discorso
fu fatalmente sempre interrotto, frantumato e
residuale ma fu un uomo che riuscì a vedere
un meraviglioso mondo dove gli altri non vedevano
nulla o faticavano a veder qualcosa di interessante
e, in intima connessione, un poeta che pose a
fondamento della sua poesia l'essenzialità e
la purezza.
- Quel suo lato di
poeta isolato, di curioso ricercatore tra il
fascino e la desolazione, di ribelle taciturno,
accompagnò una personale visione che avrebbe
alimentato fino all'ultimo la sua silenziosa
opposizione alla falsità del mondo, il suo
rifiuto delle condizioni normali dell'esistenza di
un intellettuale sempre pronto a mettersi in
mostra. Scelse le altre professioni di traduttore
di autori classici e di ricercatore di licheni: non
fu una "stagione" della sua vita ma la sua "vita" e
questa scelta fu parte fondamentale della sostanza
della sua poesia. In ogni poesia e in ogni prosa
troviamo un frammento del suo essere uomo, un
esemplare richiamo alla sua visione, in vista
dell'ultimo approdo del navigante che faceva fatica
a sopportare l'Uomo.
- Ma ciò
non deve trarre in inganno.
- Diceva Sbarbaro:
«... Io sono, per quel che è dato, un
uomo felice perché non ho mai fatto nulla se
non con piacere; e anche ricco, avendo più
di quanto mi abbisogna. Illusione? può
darsi...». Non aveva il telefono e nemmeno la
televisione ma per una libera scelta. Sbarbaro
amava l'isolamento nel quale viveva e non voleva
assolutamente venisse turbato. La vita modesta
affondava nelle sue radici, nella sua casa, nella
sua vita ritirata dove aveva tutto ciò che
desiderava senza aver bisogno di nient'altro. Un
buon caffè, una passeggiata per procurarsi
le verdure che più gradiva, pesce buono,
ogni tanto una colazione a Borgio Verezzi.
-
- Ha attraversato
la vita senza lasciarsi cambiare: le convinzioni
son rimaste le stesse, senza cedimenti, senza
rinnegare mai la propria natura, "a lui bastava il
vivere com'era, talvolta crudele e spesso amaro";
superò i momenti peggiori, le crisi
depressive, con la consapevolezza che «nella
vita come in trincea alzi la testa e fischiano le
pallottole», con l'amara considerazione che
«restare giovani è la memoria che via a
via si spoglia da sé dell'ombra, non ritiene
che attimi di luce: una fiammata di papaveri,
l'assolo di una cicala... restare giovani è
scordare». La "strada deserta" (come simbolo
dell'immutabilità della sua vita), aveva
già fissato nelle prime poesie e nei
Trucioli la sua incapacità di adesione alla
vita, l'impotenza nel deserto del mondo a
comunicare con i suoi simili, la lacerante visione
della vita come condanna d'esistere: eppure il
poeta colse nella "gioia breve della bellezza della
natura" un conforto «Mi ritiro felice nella
parte di spettatore dopo aver compiuto la scelta
senza ritorno».
-
- Nella già
ricordata recensione dedicata ai Trucioli di
Camillo Sbarbaro, apparsa nel 1920 su
L'Azione di Genova, Eugenio Montale
offrì un giudizio illuminante, affettuoso e
di stima «...non accetta la vita benché
si aggrappi disperatamente alle apparenze e di
queste soltanto sia ricco... profondamente onesto e
sincero fino all'assurdo egli è andato
istintivamente sfrondandosi e semplificandosi; ha
sdegnati i compromessi fruttuosi, le vie traverse
tanto comode e seducenti; ed è giunto
così per le tappe di un'ascesa letteraria
che ha del mistico, a conquistare le sue semplici e
pur profonde parole; a conquistarsi il diritto di
parlare e di essere ascoltato... è anche un
uomo, caso strano, pochissimo "livresque": i suoi
amici sono gli animali, gli alberi e le
nuvole». E infine è il saluto ad un
"angelo deluso e sconsacrato... curvo sotto il suo
carico inverosimile di sofferenza e di
bontà". Le parole più belle sono per
la cifra, il tratto stilistico peculiare che
caratterizza i Trucioli di Sbarbaro:
«C'è qualche cosa in ogni sua pagina
che la fa riconoscere prima che l'occhio corra al
nome dell'autore; canto di un timbro inimitabile
che si fa intendere anche a traverso il coro di
cento altre voci».
-
- Come scrive
Camillo Sbarbaro «Si fanno a un tavolo
d'osteria i più meravigliosi viaggi».
Il piccolo borgo di Borgio Verezzi ha un rilievo
maggiore di Parigi, giudicata città grigia,
perché è nella sua natura cogliere le
cose più vicine: non c'era niente di meglio
d'un bicchiere di vino bianco nei caruggi di Noli a
due passi da casa. Anche il suo essere erborista
racchiudeva questa visione del mondo "far raccolta
di piante è farla dei luoghi": il suo
erbario era un personale campionario del mondo che
lo accompagnava, era una vitale risorsa per le ore
di noia, ed aprire un pacco di licheni spediti da
chissà quale parte del mondo era come
intraprendere una nuova stupefacente avventura
perché "in ogni pacco c'è il mondo".
Osservare un lichene per ore fotografava fedelmente
il suo modo di essere e i suoi ricordi sono pieni
di riferimenti a piante e animali. Quando fu
invitato da Pippo Barile a casa Giolitti non perse
tempo per andarsene il prima possibile, in punta
di piedi, in cerca di licheni perché la
Liguria «è un emporio di licheni: ce
n'è sempre di nuovi, e bellissimi». Il
suo mondo erano le strade di terra battuta, fra
ginestre, agavi, salvie e le violette che crescono
ai bordi sassosi. Lui faceva parte di quel
paesaggio, era essere vivente tra quei muri a secco
e quei muriccioli, tra le terrazze con il rosmarino
e il basilico, nelle piccole trattorie sparse qua e
là e quelle stradine che si inerpicano tra
gli ulivi nodosi.
-
- Ho recuperato
dal mio archivio un libro di Gina Lagorio,
pubblicato più di venticinque anni fa, e
meravigliosa testimonianza dell'uomo Sbarbaro.
Nelle pagine iniziali viene raccontato un episodio
che è emblematico della natura del poeta.
Circa un anno prima della morte di Sbarbaro, a
pochi giorni dall'inizio della scuola, due
ragazzine di terza media andarono a trovarlo a casa
perché dovevano svolgere un tema sulla
poesia che lui aveva dedicato al padre. Sbarbaro le
accolse col sorriso, le fece sedere, offrì
loro le immancabili caramelle, poi si
allontanò deciso e sparì in camera
sua. Forse a prendere la poesia o qualche appunto?
Niente affatto. Ritornò con dei licheni e
cominciò a mostrarli alle ragazzine, facendo
osservare i minimi particolari con una lente ed
esclamando con loro, sorpreso ed ammirato, come li
vedesse per la prima volta: «Questo è
un merletto», «Questa meraviglia è
il deposito delle spore, dei semi»,
«Guardate che morbidezza di velluto...».
Quando richiuse il pacco dei licheni, come a far
intendere che la spiegazione era finita,
salutò le ragazzine. Una di queste, con
timore, chiese: «Veramente, la
poesia...». E lui: «Sì, hai
ragione, ma vedi, non c'è niente da capire,
volevo solo dire che mio padre era da amare
così com'era, per come era fatto dentro, a
parte la circostanza di essere mio padre». La
ragazzina allora si fece coraggio e raccontò
che una compagna, quando l'insegnante aveva
spiegato la poesia, essendo da poco rimasta orfana
del padre, si era messa a piangere e in un momento,
tutte, professoressa compresa, avevano le lacrime
agli occhi. Quando le due ragazzine se ne andarono,
Sbarbaro disse a Gina Lagorio: «Ho avuto molto
dalla vita; più di quanto meritavo».
L'immagine più fedele di Sbarbaro è
tutta in queste parole.
- ***
- La critica ha
cercato di offrire un profilo di Sbarbaro
immergendosi nelle parole delle sue poesie, dei
suoi frammenti, delle sue "gocce", nei riscontri,
nei rimandi, scavando nelle intenzioni ma forse
è esistito un "altro Sbarbaro" come scrive
Gina Lagorio: un uomo capace di conservare sino
alla fine, l'innocenza di un bambino, incantato
davanti alle forme e ai colori della natura; un
uomo che rifiutava ogni dogmatismo ed arrivismo,
ogni corruzione con il potere costituito, ogni
sollecitazione mondana e men che meno il successo e
la pubblicità; un poeta che non conservava
niente o quasi niente delle recensioni o degli
articoli a lui dedicati...
- «Ogni cosa
che scrivo, un ex voto che appendo; per grazia
ricevuta».
- La scelta era
inevitabile: un buon ritiro tra la natura della sua
Liguria dove poteva conservare la grazia della
poesia, la purezza dell'animo, condurre una vita
tranquilla in solitudine, unica eccezione l'affetto
della sorella sempre piena d'attenzioni (sulla
scrivania di Camillo non mancò mai un
mazzetto di fiori appena colti dalle mani della
sorella Lina), rari incontri con gli amici fedeli
che facevano venire a galla la sua umanità,
l'entusiasmo del fanciullo che riuscì a
contagiare molti nella passione dei licheni,
l'intima comunione con le cose più semplici,
la volontà di scegliere "in proprio" il modo
di vivere per dire in libertà ciò che
veramente lo interessava, senza ipocrisie, senza un
tornaconto: sempre resistendo alle lusinghe. Il
silenzio (quando si deve tacere), la
semplicità, la dignità,
l'umiltà, la coerenza sino alla fine: cosa
chiedere di più.
- Una volta disse:
«Non si può, né si deve,
scrivere con fatica, costringersi al tavolino: con
il rischio di fare solo cerebralismi senza senso:
poco o tanto che ci sia nel tuo bottiglino,
ricordati, che sia tuo è quello che
conta». A questo punto non rimane altro da
fare che chiudere questo affettuoso ricordo con una
famosa "goccia" di Sbarbaro che fu anche un
consiglio offerto ad amici artisti: «L'arte
non si può fare; bisogna lasciarla
farsi».
-
Massimo
Barile
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