È uscito il n° 123-124
Novembre-Dicembre 2002
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 22 novembre 2002
 
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La premiazione dei nostri concorsi
 
 
Sommario
Satira e poesia: Giovenale -
La rabbiosa indignatio del più spietato flagello dissacratore
Quando sentiamo in qualche trasmissione televisiva personaggi della politica od opinionisti parlare in tono provocatorio del malcostume per il quale i cittadini sembrano non interessarsi più a nulla ed infischiarsene altamente di partecipare attivamente alla scena politica, vi sarà sicuramente capitato di ascoltare una conclusione del discorso del tipo: oramai due cose soltanto il popolo desidera ansiosamente panem et circenses (pane e giochi). Cioè in sintesi riuscire a mangiare e poter divertirsi.
Altre volte possiamo leggere sui quotidiani dichiarazioni rilasciate da esponenti politici che polemizzano a proposito di garanzie costituzionali, della necessità di garanti super partes, di organismi di controllo nei poteri dello Stato, di giudici che siano custodi della legge e capita spesso che qualcuno lanci avventatamente la domanda: Ma chi custodirà poi i custodi? (Quis custodiet ipsos custodes).
Ecco allora che siamo al cospetto di Giovenale. Sì perchè sono proprio queste alcune espressioni entrate a far parte del linguaggio dei giorni nostri anche se datano a quasi duemila anni fa. Infatti queste locuzioni proverbiali sono una sua creazione anche se è doveroso precisare che sono mutati i soggetti di riferimento e dal marito geloso che mette dei custodi a vigilare la moglie abile che scaltramente inizia proprio da quelli, si passa a problematiche politiche di portata ben più complessa e a funzioni istituzionali assai più delicate.
Oggi si punta il dito verso altri obiettivi e si utilizzano forme differenti ma la voce di indignazione per i tempi ed i costumi che ha fatto la fortuna di Giovenale è ancora presente e ne sono testimonianza tangibile proprio tali semplici locuzioni proverbiali e gli innumerevoli saccheggi da parte della produzione satirica moderna.
Il medioevo cristiano utilizzò la carica moralistica, della satira giovenaliana, Dante lo cita diverse volte e lo pone nella Divina Commedia, Petrarca lo conosceva molto bene ed è stato utilizzato dall'Ariosto e dall'Alfieri.
è la prova che v'è sempre qualcosa che lega il passato al presente e analizzare la figura di Giovenale e le satire che ha lasciato non fa altro che farci capire come i vizi di un tempo sono i vizi di oggi.
Ogni epoca letteraria ha avuto le proprie espressioni satiriche che hanno radiografato l'uomo nelle manifestazioni della vita, individuato e descritto i difetti, biasimato i vizi e corretto i costumi tentando di indicare le vie della saggezza e della virtù. Con Orazio siamo al vertice di questa moralistica e tra spunti declamatori, vivaci parodie dei costumi, amare invettive e realistiche rappresentazioni delle classi sociali avvertiamo l'indignazione e la condanna del malcostume imperante nella vita pubblica e privata. La satira diventa un'arma, strumento di predicazione morale, grimaldello per rendere nota a tutti la fallacia delle azioni umane ed esprimere le proprie convinzioni etiche, politiche e religiose di fronte alle diatribe della drastica realtà ed alle deviazioni morali della società del tempo.
Le cause di questa esuberante vena satirica durante l'Impero vanno ricercate soprattutto nelle mutate condizioni spirituali e culturali dell'epoca: da un lato il decadimento dei costumi e il conseguente dilagare della corruzione in ogni ambito sociale; dall'altro lato la penetrazione sempre più profonda delle dottrine filosofiche convogliavano gli spiriti moralmente più elevati, più insoddisfatti ed inquieti ad un lento ripiegamento su se stessi, ad un vagheggiamento di una realtà assai diversa da quella vissuta e, non ultimo, a risvegliare nelle coscienze l'aspirazione verso ideali di vita ormai tramontati.
Le forme letterarie utilizzate per raggiungere questo scopo potevano essere diverse: quella tradizionale della satira con Persio e Giovenale appunto; quella raffinata della menippèa sotto le spoglie di racconto arguto con Petronio; quella pungente ed aristocratica dell'epigramma con Marziale; e la favola alla quale già Fedro aveva affidato i suoi propositi moralistici e satirici.
 
La vita
Nonostante le numerose biografie ricavate dagli scolii alle Satire, tra cui quelle pubblicate da Giorgio Valla nel 1486 a Venezia e da Pierre Pithou nel 1585 a Parigi, sono sicuramente le più importanti anche se appartenenti come altre ad epoche storiche diverse e spesso interdipendenti, possiamo dire che le notizie certe che abbiamo su Giovenale sono ben poche.
I riferimenti diretti nelle Satire sono rari e fulminei, come se Giovenale volontariamente evitasse per intimo pudore di parlare di se stesso o non volesse fornire notizie personali per non distrarre il lettore dall'accesa animazione del suo pensiero. Pertanto della vita di Giovenale si hanno poche notizie sicure ed altre che possono essere dedotte con cautela dalle fonti di altri autori a noi pervenute.
Sappiamo che nacque ad Aquino, piccola città degli Ernici nel Lazio meridionale, tra il 55 e il 60 d.C. Ebbe una casa a Roma, un piccolo podere a Tivoli, oltre alla casa paterna ad Aquino. Nonostante qualche difficoltà finanziaria dovette comunque godere di una discreta tranquillità economica restando pur sempre tra la turba dei mediocres.
Da una breve biografia di un anonimo del IV secolo che fu ripresa e trascritta con varianti in numerosi manoscritti delle Satire e quindi difficile da prendere fedelmente alla lettera se non addirittura da ritenersi scarsamente attendibile, apprendiamo che sarebbe stato figlio o pupillo di un facoltoso liberto (libertini locupletis filius an alumnus); venne presto a Roma dove frequentò la scuola di grammatica e di retorica; conobbe la ferula del maestro nelle prime esercitazioni di suasoriae su temi di storia patria proprio come altri ragazzi del suo tempo che potevano permettersi un maestro. Avrebbe declamato in Roma fino all'età matura più per gusto personale che per prepararsi al foro.
Infatti Giovenale si dedicò tardi alla poesia e sembra che nei primi quarant'anni della sua vita quasi nulla avesse scritto o per coscienza di una maturità artistica ancora da raggiungere o reputandosi non ancora all'altezza dei vari Lucilio e Marziale o per un saggio e prudente riserbo dovuto alla nequizia dei tempi domizianèi. Forse si sentiva appagato e contento solo di coltivare le amicizie letterarie a fianco di Quintiliano, di Marziale e di Stazio. Solo con la raggiunta serenità dei primi anni del principato di Traiano si diede liberamente alla musa ispiratrice per poi continuare sotto Adriano anche se di entrambi il buon Giovenale sostanzialmente tace tranne che per pochi cenni in una satira dove parla forse di Adriano come restauratore delle lettere. è veramente ben poca cosa se teniamo conto di quanto fosse difficile non dover incensare il principe di turno come d'altronde toccò anche a Marziale per non patire la mancanza di denaro. In Giovenale al contrario, anche se non fu ricco, non ritroviamo la lode o la piaggeria ad un cesare: nelle sue satire è più attento allo svolgersi della vita intorno a lui, a enfatizzarla con ferocia, a svelarne i mali oscuri e non lo interessa minimamente lodare o incensare il potente o addentrarsi in dissertazioni filosofiche: ecco cosa scrive nella tredicesima satira «Ascolta ora che consolazione potrebbe darti chi non ha mai letto le sentenze dei cinici né quelle degli stoici, che divergono dai cinici soltanto per la tunica, e chi ancora non ha mai studiato Epicuro, contento delle verdure del suo piccolo orto». Davvero niente male come lingua velenosa.
 
Gli scrittori del suo tempo e le frequentazioni
Giovenale frequentò assiduamente il mondo letterato più rinomato del suo tempo. Fu amico di Marziale che fece suo l'epigramma della tradizione investendolo di un nuovo spirito e sarà lo stesso Marziale a dedicargli tre epigrammi che possono offrire ulteriori elementi per conoscere più a fondo la figura di Giovenale. Ecco cosa scrive Marziale in un biglietto augurale :
«Dal mio campicello, eloquente Giovenale,
ti mando queste noci per le feste saturnali.
Gli altri pomi li ha regalati alle ragazze vogliose
l'uccello in fregola del dio guardiano».
In un altro famoso epigramma scritto da Marziale dal paese natale dove era ritornato per vivere in pace gli ultimi anni della sua vita, ritroviamo interessanti informazioni:
«Mentre tu forse ti aggiri inquieto,/Giovenale, per la chiassosa Suburra,/o consumi la collina di Diana signora;/ mentre da una soglia all'altra dei padroni/ la toga sudata ti sventola e su e giù/ per il Celio maggiore e il minore ti schianti le gambe,/ me, dopo tanti dicembri, la mia bramata,/ Bilbili, superba d'oro e di ferro,/ha accolto e fatto contadino».
E più avanti: «.mi godo lunghi e sfacciati sonni./ per recuperare quanto ho perduto a Roma/ dove per trent'anni non ho mai potuto dormire./.Qui si ignora la toga; se chiedo una veste, mi si dà/ la più vicina, da una sedia azzoppata./ E quando mi alzo, mi accoglie il focolare/ con una gran bracciata di sterpi del querceto qui accanto,/ che la contadina incorona tutto intorno di pentole./.Così mi piace vivere, così mi piace morire».
Dunque mentre era al culmine della notorietà e conteso da tutti a Roma, Marziale nutrì per Giovenale sincera amicizia e stima, quasi un'intima condivisione di una determinata visione della vita da condurre ma gli epigrammi ci mostrano un Giovenale affaccendato da una casa all'altra dei potenti su e giù per l'Aventino come intento a faccende da avvocato e non v'è alcun riferimento all'attività poetica dell'amico la qual cosa conferma che Giovenale si sarebbe dedicato alla scrittura in tarda età.
Sicuramente tale vocazione era già presente perché non è sicuramente poeta improvvisato e forse la stessa amicizia con Marziale potrebbe essere stata assai utile per scoprirsi poeta.
è certo che tra gli uomini di cultura del suo tempo v'è una profonda ammirazione per il poeta tragico Stazio e per Quintiliano, il grande retore che tenne scuola a Roma sotto Domiziano, sicuramente conosciuto personalmente dal poeta, un uomo serio che non si perdeva dietro matrone capricciose e che forse fu anche maestro di Giovenale.
Sicuramente conosceva l'opera di Seneca i cui libri erano allora nelle mani di tutti i giovani come afferma Quintiliano ma Giovenale, pare non si interessò a fondo di filosofia, ricorda Seneca più per la sua integrità morale che come filosofo.
è scritto infatti nelle satire che Giovenale più che a dissertare badava soprattutto a guardarsi intorno e portare allo scoperto il malcostume della società.
Infine, probabilmente sotto Adriano, sarebbe stato inviato in esilio in Egitto o forse in Caledonia, con un incarico militare apparentemente onorifico. Il motivo sarebbe stata una indelicata allusione satirica ad un potente liberto, un protetto dello stesso Adriano, il quale allontanò il poeta da Roma con la ricordata missione militare. Fu la fine del vecchio poeta che in poco tempo ne morì di crepacuore e malinconia (intra brevissimum tempus angore et taedio periit) intorno al 135 d.C.
Tali informazioni, a metà strada tra fonti storiche e tradizione, si desumono dalla lettura della biografia dell'anonimo del codice Pithoeanus dove è contenuta la vita di Giovenale e si fa riferimento alla vicenda che racconta dell'accusa di aver satireggiato sotto altri nomi qualche potente e, sebbene avesse già ottant'anni, castigato e spedito come prefetto in terre lontane.
Non v'è dubbio che le incongruenze e le difficoltà di verifiche storiche sono numerose e alcuni protagonisti della vicenda potrebbero essere stati confusi con omonimi precedenti o postumi e si deve rilevare che altri anonimi biografi che hanno ripreso nei vecchi manoscritti delle satire la biografia più antica cambiano la destinazione dell'esilio.
Il dubbio e le incertezze sulla piena veridicità di tali notizie è quindi d'obbligo.
Comunque se a Giovenale si riferisce, come è probabile, una epigrafe votiva trovata nel territorio di Aquino e pubblicata nel 1772 nel Corpus Inscriptionum Latinarum e poi andata perduta, v'è forse una probabile conferma alle incerte notizie: «Decimo Giunio Giovenale, tribuno della prima coorte dei Dalmati, duumviro quinquennale, flamine del divo Vespasiano, ha votato e dedicato a Cerere a sue spese».
Questa dedica probabilmente ad un altare potrebbe comunque essere stata fatta anche da un altro Giovenale del suo tempo. Insomma la lapide può solo fornire notizie verosimili che si possono adattare ad un provinciale di classe media che riesce a fare una modesta carriera nella propria città anche se è la figura di un uomo che non contraddice il poeta delle Satire.
Il mondo di Giovenale: è difficile non scrivere satire
«E' davvero una sciocca preoccupazione quella di risparmiare poca carta, destinata a finire al macero, quando da tutte le parti inciampi in poeti. Ecco perché preferisco correre sullo stesso campo nel quale il grande figlio di Aurunca domò i suoi cavalli; naturalmente ammesso che abbiate il tempo e la voglia di ascoltare con calma le mie ragioni». Così Giovenale in una satira ricorda Lucilio, il primo grande poeta satirico romano, nato verso il 180 a.C. appunto a Sessa Aurunca. Anche Giovenale come ogni altro poeta satirico in Roma si era rifatto a lui ma Giovenale sentì profondamente il valore e il mistero dell'arte; rinunciò ad ogni definizione filosofica o retorica della poesia e nella sua opera il grande poeta è l'unico tra la moltitudine, è il creatore in mezzo alle cose create, è l'artefice ineffabile della propria opera che ha la sua ispirazione, la sua materia e la sua incudine.
Il mondo di Giovenale è un mondo dal quale fuoriescono gas velenosi e dalla sua bocca che diventa un vulcano gli innumerevoli lapilli incandescenti sono gettati all'esterno dalla tremenda forza distruttrice che utilizza le immagini più crude, più cupe ed esasperate della società romana del suo tempo.
Il poeta Giovenale non fa altro che riportarle alla luce ancora roventi e fumanti e lo fa con una libertà di spirito ed una spregiudicatezza nei toni da far pensare proprio al primo satirico Lucilio piuttosto che a Persio, angoloso e schivo, o a Marziale con la sua coscienza accomodante del sognatore che spera ancora in un mondo migliore.
In Giovenale invece tutto tace: è schifato dalla corruzione del periodo domizianéo, memore delle crudeltà, dei vizi e delle lussurie, è padrone assoluto dei toni che sono ormai solo invettiva, scherno, collera.
Con una forza inaudita scaglia i suoi dardi contro la putrescente e peccaminosa società romana come fino ad allora Roma, pur abituata ai poeti che sapevano dire pane al pane, non aveva ancora conosciuto.
Non c'è vizio che viene trascurato: tutti sono messi a nudo con un linguaggio di impressionante crudezza. Giovenale porta la satira all'estremo compimento con la sua personalità vigorosa, col suo sdegno senza sorriso, con lo scherno senza compatimento alcuno, riuscendo a creare un suo tipo di satira, fedele immagine dei mali dell'uomo fissati su una pellicola in una eterna scena scabrosa.
 
Si è discusso a lungo con profusione di argomenti e ancora a lungo si continuerà a discutere, se Giovenale sia un vero poeta o un poeta letterato, un moralista o un declamatore. La sua posizione è comunque accanto a Persio e a Marziale che con lui formano la triade satirica del periodo imperiale.
A Giovenale viene infatti rimproverato in primo luogo l'ossequio palese alla retorica declamatoria, la cosiddetta Iuvenalis declamans, e in secondo luogo la povertà di una coscienza morale che gli dà il gusto sadico di anatomizzare i mali e le miserie del tempo negli aspetti più esasperati e volgari ed infine l'accusa di essere portatore di un cupo pessimismo e di lasciarsi andare ed alterare la realtà della quale scrive.
Alcuni di questi rilievi sono però destinati a cadere nel momento in cui si cerca di scrutare più a fondo la personalità di Giovenale ed il mondo nel quale si trova a vivere con le più crude realtà della vita romana che egli riesce a portare alla luce con una libertà di spirito ed una spregiudicatezza davvero uniche. Non è mai facile cercare di fissare l'immagine fedele di un poeta satirico così lontano nel tempo ma la figura di Giovenale è ancor più complessa del solito e non si può facilmente o superficialmente racchiudere dentro i limiti di una qualsiasi definizione: la sua personalità è prepotente e quando si è quasi sicuri di averlo etichettato o catalogato ecco che svela altri volti della sua anima inquieta ed altre peculiarità della sua satira.
A differenza di Persio che è lo specchio della composta severità della sua tematica morale, Giovenale deve essere afferrato nelle tortuosità del suo spirito errante tra i vivi e i morti, tra la realtà e il mito, tra l'analisi spietata del presente e lo sguardo rivolto al passato.
La satira giovenaliana ha un ampio spettro: non si fissa mai su questo o quel vizio ma prende di mira ogni manifestazione del vizio, ogni azione umana che con la sua miseria infesta la vita romana del suo tempo.
Il suo punto di partenza è indubbiamente il presente ma si muove con un atteggiamento nostalgico sentimentale e si rifà al passato che viene ricordato come un esempio di virtù e di valore che fece grande e serena la vita di allora, nettamente in contrasto con la corruzione e il putridume che si trova ad osservare. Come era bello una volta quando Roma.
Giovenale non si ispira ad un modello di vita contemporaneo ma a quelli che dormono nelle tombe della via Flaminia e della via Latina dove venivano costruiti i sepolcreti delle migliori famiglie romane. Si rifugia nel passato sveglia i morti per non disturbare i vivi e se la prende con i morti perché colpire i vivi è pur sempre pericoloso: «è pericoloso parlare male di certuni; i poemi mitologici non danno fastidio, ma la satira eccita i risentimenti violenti e vendette terribili».
Ma Giovenale è furbo e scavalca l'ostacolo con un artifizio: denunciare le nefandezze dei morti per bollare i vivi. Per poter dare libero sfogo alla sua ispirazione resusciterà i morti e quindi l'infamia della loro esistenza trascorsa e sempre rinnovata nella quotidiana opera dei vivi. Questa operazione sembra togliere alla sua satira la freschezza e l'attualità che il genere satirico richiede e sembra inoltre giustificare l'opinione di coloro che parlano piuttosto di letteratura e declamazione che di sincerità e spontaneità creativa.
Non si può certo negare che alcuni elementi di questa critica siano effettivamente presenti nelle satire come ad esempio un certo armamentario retorico nella strutturazione stessa del componimento che ha procedimenti più affini al discorso che ad un carme satirico. Altro rilievo è l'attenzione riservata in modo predominante alla forma piuttosto che alla coscienza ed allo spirito che dovrebbero animare un poeta satirico.
E poi le lunghe tirate diatribiche che tolgono il respiro fino quasi a soffocare il lettore, la tremenda foga oratoria, la plétora delle esemplificazioni e dei continui ricorsi alla mitologia e le ripetizioni delle sentenze.
Ma anche se non si possono negare alcuni di tali caratteri da scuola retorica e da esercizio declamatorio non si può altresì negare che questa è la maniera espressiva di Giovenale, è lo stile connaturale alla formazione culturale del facundus poeta come lo chiama l'amico Marziale in un epigramma usando una parola che designa il parlatore valente.
Questa è dunque la struttura portante di tutta la sua ispirazione, l'impalcatura senza la quale tutto cadrebbe sprofondando nell'anonimato: è vero che taluni hanno amato la rabbiosa indignatio che dà la misura dell'intima sofferenza dalla quale scaturisce la sua poesia; ma altri hanno reputato la sua foga indicibile così forte da aver deformato la verità e aver fatto diventare la sua poesia nient'altro che il compianto di un uomo per il declino della virtus romana dei Quiriti in contrapposizione alla società romana ormai fradicia di corruzione e di putridume in ogni angolo di strada.
Di certo, anche se viene meno l'immediatezza della staffilata satirica e del pensiero sdegnato nei confronti dei bersagli contemporanei, non v'è niente che riesce a distruggere l'ispirazione, l'essenza profonda della sua satira che nasce da una costante tensione nervosa.
è per questo motivo che diventa necessario scavare a fondo e ricercare sotto la superficie più impenetrabile il vero motivo scaturente della satira giovenaliana che d'altronde si può racchiudere tutta (come scrive egli stesso) in quell'incontenibile sdegno, in quella indignatio che lo condurrebbe sempre e comunque a poetare anche se la natura gli negasse un'alta vena poetica si natura negat, facit indignatio versum, qualemcumque potest.
Come non ricordare a questo punto che proprio la prima satira è un'ampia messa a punto delle cause di questa incontenibile e rabbiosa indignatio che arma la mano del poeta satirico forse il più spietato flagello che gli antichi ricordino.
è indubbio che il quadro offerto da Giovenale è desolante e sembra non esserci più posto per la virtù, la bontà, l'umanità. Tutto è corruzione, oscenità scabrosa, aria ammorbata, meschinità e miseria: da chi è costretto ad obbedire a chi comanda, dall'ignobile servilismo dei senatori alla prepotenza dei liberti, dai dilapidatori del denaro pubblico (allora come ora) ai ladroni delle ricchezze delle provincie, dalla decadenza degli istituti familiari e religiosi a quelli giuridici, dall'effeminatezza maschile all'esibizionismo femminile, dal lusso sfrenato alle più luride miserie, dal decadimento degli antichi costumi all'influsso negativo e all'imitazione dei costumi stranieri soprattutto greci ed orientali.
Insomma un mondo morale allo sfascio, alla deriva e in totale rovina contro cui si eleva il disprezzo e l'indicibile ira del grido di Giovenale: «Prendano pure costoro mercede dei turpi mestieri, ma vengano coperti dal nostro disprezzo, sì che impallidiscano come chi calpesti incautamente un serpente» e poi la sentenza «non è facile cosa trattenersi dalla satira» dinanzi a questi fatti (Difficile est saturam non scribere).
Ecco allora che a poco a poco ci accorgiamo che è la satira ad emergere viva e prorompente dallo spirito infiammato di Giovenale. Lo spettacolo di Roma, città ormai intollerabile per chi non sia fatto di ferro, è desolante e la cupa visione del poeta rende il fegato arso da indicibile ira fino a dire le famose parole: «Se la natura non vuole, mi fa i versi la collera, come può, come posso». Sembra quasi dubitare delle sue capacità di riuscire a rendere tale sciagura o della libertà che gli permetta di scrivere ma non dubita mai, neanche per un solo istante, delle fiamme che gli bruciano l'anima.
Perché Giovenale ha colpito con così dure censure la società romana nell'epoca più felice dell'impero quando Roma era governata da un principe onesto e liberale? Ma è semplice: perché nulla era cambiato tranne il principe. Domiziano era stato abbattuto da una congiura di palazzo e Nerva era stato osannato dal senato: tutti quelli che erano stati sotto Domiziano delatori e giudici vivevano onorati, i senatori erano rispettati e difesi, alcuni dei più volgari delinquenti che avessero avuto il governo di provincie, dopo processi ridicoli, avevano potuto conservare non solo la vita ma anche gran parte delle ricchezze e godersi gli ozi dell'esilio. Giovenale cosa poteva dire di tali personaggi se non «a che serve il disonore, quando i quattrini sono salvi?».
 
Le satire
Le sedici satire che sono giunte sino a noi sono distinte in cinque gruppi o libri. La prima satira fa da proemio alle altre che sono disposte in ordine strettamente cronologico anche se non facilmente ricostruibile. Si può dire che vanno datate dal periodo che va dal 100 circa al 128 data dell'ultima satira. Il metro è quello della tradizione satirica: l'esametro dattilico. L'ultima satira è incompleta e si ferma al verso 60. Tutti i manoscritti si fermano allo stesso verso e quindi si può dedurre che derivino tutti dallo stesso archetipo lacunoso.
La prima satira comprende il disegno ideale di tutta l'opera e fa da introduzione a quello che seguirà e ne leggeremo delle belle.
Giovenale è stanco di ascoltare le declamazioni interminabili dei poemi epici e delle tragedie con i soliti miti e le solite celebrazioni e non ce la fa più perché lo spettacolo di corruzione che vede intorno a sé gli suggerisce ben altro: la voglia di scrivere. Ormai ha deciso: non canterà le favole degli eroi ma le cose degli uomini. La vita è uno spettacolo incessante di innumerevoli turpitudini e follie: eunuchi che prendon moglie, donne che combattono nell'arena, barbieri divenuti milionari, schiavi del Nilo fatti grandi signori, arrivisti di ogni genere che usurpano il posto dell'antica nobiltà. Lo sfogo sulla corruzione dei costumi non conosce limiti e Giovenale passa in rassegna avvocati disonesti improvvisamente arricchiti, delatori tanto più onnipotenti quanto più scellerati, istrioni, ruffiani, scrocconi di eredità amanti di vecchie opulente, tutori ladri, magistrati predatori di province che si godono nei comodi esili le ricchezze depredate, mariti che ereditano dagli amanti della moglie, pervertiti scandalosi, giovani dissipatori e svergognati che aspirano chissà a quale comando, falsificatori di testamenti colmi di onori, potenti matrone che si procurano con il veleno le vedovanze, uomini pazzi per il gioco che dissolvono ricchezze che potrebbero alleviare tante miserie umane, esistenze occupate nell'ingordigia e morti procurate dall'ingordigia. Altro che le storie del mito con Teseo ed Oreste! L'indignazione è al settimo cielo e l'unica soluzione è scrivere satire. L'immoralità non ha più nulla di nuovo da sperimentare perché i posteri nulla avranno più da aggiungere a tale e tanta depravazione. Come si farà a veder di peggio in futuro?
I nobili perdono interi patrimoni nel gioco e non si curano più dei loro clienti: la dignità non conta più ed uno schiavo divenuto ricco liberto ha la precedenza sui tribuni. L'unica cosa che conta è il denaro (?) ed è strano che la città non gli abbia ancora dedicato un tempio. Ma avrà il poeta ingegno sufficiente per cantare in libertà? Certo ma a patto che parli male solo dei morti perché è pericoloso parlar male di certuni e la satira conduce a vendette terribili.
Giovenale allora resusciterà i morti ma anche se le brutture che vede sono più gravi ed intollerabili sente dietro a sé per tutti i secoli passati la fatalità di miseria che opprime la vita degli uomini e vuole che diventi materia delle sue satire quella sciagurata vicenda umana senza pace e senza bontà.
Giovenale è il poeta del passato: il suo sogno è la vecchia Roma quiritaria, quella della vita semplice, quella degli agricoltori e dei soldati delle guerre italiche, a quel tempo la povertà nulla toglieva alla grandezza ed alla serenità della vita quando il muschio e il tufo servivano alla religione e alla bellezza ed il fasto non aveva ancora turbato la semplice poesia delle vecchie cose. Giovenale voleva insomma una Roma di Quiriti che appartenesse soltanto alla gente latina, a quanti bevettero bambini il cielo dell'Aventino e si nutrirono di olive della Sabina.
Si trovava invece nella capitale del mondo a cui le provincie soggette mandavano le loro fortune, in quella orrenda vita dell'Urbe cosmopolita, piena di stranieri d'ogni razza e d'ogni paese, di fronte alle infamie di una città corrotta fino all'incredibile, di fronte alla terribile metropoli nella quale, dopo le conquiste, si formava la grande società capitalistica, il ceto onnipotente e unicamente privilegiato del denaro.
Giovenale fu per il suo viscerale amore per il passato, un vero poeta sociale dell'antichità romana e fu poeta nazionale contro la società cosmopolitica di Roma odiando tutti quegli orientali e greci, da lui definita gente vile, astuta e corrotta, che era venuta ad avvelenare il ceppo latino corrompendone la forza vitale.
La grande forza della satira giovenaliana si sprigiona in modo dirompente: concentra e distilla tutto l'odio possibile come nella profonda e sdegnosa antipatia verso i greci (Graecia mendax) condensata nella terza satira: son piovuti a Roma da tutte le parti d'Oriente, san fare tutti i mestieri, sanno adulare con una sfrontatezza inimmaginabile, non hanno nulla di sacro.
Giovenale fu il poeta del vecchio patriziato e della vecchia plebe che non conosceva ancora i cortei ossequiosi intorno ai liberti, ai delatori, ai falsari, o quel ceto arricchito venuto dalla schiavitù o dal delitto.
Nella sua poesia si sentono già le voci di una protesta contro l'iniquità della fortuna umana: la più dura condizione della triste povertà è che essa fa ridicoli gli uomini. Nei primi posti del teatro siedono i figli dei ruffiani arricchiti nati in qualunque bordello. Nessun povero compare nei testamenti: da un pezzo i Quiriti in massa avrebbero dovuto emigrare da Roma.
Giovenale osservò con fissa ostinazione ed occhi serrati dall'indignazione le tortuose vie della ricchezza: «Roba da galera s'ha da essere se si vuole essere qualche cosa. La probità ha buon nome, ma ha freddo».
è certo che in alcuni momenti serpeggia sicuramente del malcontento o della delusione per la propria posizione sociale ma tutto ciò rientra nella storia della vita e non è mai cecità davanti alla realtà.
La forza di Giovenale sta nel fatto che egli non ha odi politici ma una avversione verso tutti coloro che appaiono senza coscienza e probità indipendentemente dalla fazione politica: accusa i Gracchi di sedizione, accusa Verre di furto, si volge contro Catilina e contro Silla. Non è fautore della potestà imperiale che ha fatto del popolo dei sudditi senza decoro né coscienza civile; non invoca la repubblica come il migliore dei governi ma ripone la legittimità del potere nella libera espressione del suffragio popolare ed osserva che se il popolo potesse scegliere liberamente un principe sceglierebbe Seneca al posto di Nerone.
Giovenale non è un uomo politico ma come tanti altri sentì in anticipo la rovina di Roma. Vissuto nell'età dell'espansione imperialistica, assisteva alla rapida costituzione di immense fortune personali e al contempo all'impoverimento di alcune classi e alle miserie della gente umile: toccava con mano l'avidità di ricchezze che portava ad allargare sempre più la potestà dell'impero.
 
La sesta satira contro le donne
Giovenale non conobbe nessun freno alla parola: il suo linguaggio in alcune satire, soprattutto nella sesta dedicata alle donne, si ispira alle volgarità più crude attinte anche dagli usi popolari e arriva a forme di insulto e di ironia velenosa che distrugge ed annichila qualunque bersaglio. La sesta satira è un poema contro le donne ed è dedicata a Ursidio Postumo che sta per prender moglie: «Non eri un pazzo! Si capisce che qualche Furia ti ha sconvolto il cervello. Non sarebbe meglio che s'impiccasse? Hai a disposizione quante corde vuoi per impiccarti, ti si spalancano davanti tante finestre alte e mortali, vicino a casa tua c'è il ponte Emilio e ti riduci a servire una donna?». Né in provincia né in città è ormai possibile trovare una donna casta. Ed ecco che inizia il repertorio contro le donne in una sequela di immagini devastanti.
La sposa di un noto senatore è fuggita fino in Egitto con un gladiatore abbandonando la casa e i figli; Messalina moglie di Claudio si prostituisce in un lupanare nascondendosi sotto una bionda parrucca, coi capezzoli dorati e con le guance annerite dal fumo della lucerna porta il lezzo del postribolo fin nel letto imperiale. Quasi tutte usano filtri micidiali che portano alla pazzia; vogliono parlar greco in ogni occasione perfino a letto parlano greco ed è una vergogna che nessuna di loro sappia più parlar latino. La moglie odia gli amici del marito, è crudele con gli schiavi, esige qualunque cosa: dai cristalli, ai grandi vasi murrini, ai diamanti e, alla prima occasione, convola ad altre nozze.
è sempre litigiosa e per qualunque inezia ricorre al tribunale e ne sa più degli avvocati e al contempo è tanto abile da lagnarsi di rivali immaginarie per nascondere le sue tresche reali. è il denaro che spinge le donne alla libidine e che le rende così perverse da travolgerle in oscene gazzarre notturne quando durante le feste della dea Bona si sfidano in gare libidinose e desiderano gli uomini a tutti i costi; il letto nuziale è sempre pieno di litigi ed ingiurie; è peggiore d'una tigre cui abbian rapiti i tigrotti quando finge di gemere, con un fiume di lacrime sempre pronte negli occhi. Qual è la causa di tale abbandono?
Tutto ciò è causato dalle eccessive ricchezze d'una lunga pace: il lusso ha preso il posto della povertà romana e della semplicità della vita di una volta che faceva le donne latine caste, la casa modesta le teneva lontane dai vizi, la fatica, il breve sonno, le mani rovinate dalla lana etrusca. Ora invece il denaro ha portato con sé i vizi osceni, i costumi stranieri, le molli ricchezze hanno corrotto tutti col vergognoso lusso: nel colmo della notte mordono grandi ostriche, non distinguono l'inguine dalla bocca quando spumeggiano i profumi profusi del Falerno, tracannano dalle conchiglie e poi la notte fan fermare la lettiga smaniose d'orinare e s'agitano una addosso all'altra sotto la luna. Stravolte dal vino agitano i capelli ed ululano, gridano nelle danze libidinose e poi fan chiamare gli amanti.
«Ora mi si dice di metterle un catenaccio, di impedirle di uscire. Ma chi mi custodirà poi i custodi? La moglie è abile e comincia proprio da quelli».
Si circondano di eunuchi, sanno quanto avviene nel mondo e se una cosa non la sanno l'inventano; sono intolleranti verso tutto e tutti. A tavola si comportano volgarmente e il meno che possono fare è vomitare tutto quello che hanno bevuto. Ancor più insopportabile è quando si lanciano in lodi a Virgilio, fanno paragoni tra i poeti: i grammatici devono ritirarsi, i retori sono sconfitti, tutti debbono tacere, non oserebbe più dire una parola neppure un avvocato, nemmeno un banditore. Per farsi bella usa pomate di Poppea ed impiastri vari ma dall'amante ci va col viso lavato. Gli unguenti sono per l'amante e si fa lavare col latte d'asina. Senza tacchi è piccola come una giovane pigmea ma non un pensiero per il marito, non le importa nulla per le spese e non ha cura per gli interessi della casa. Sono sempre a consultare il sacerdote e sono pronte a fare abluzioni nel Tevere anche in pieno inverno e la loro vita va di pari passo con i responsi.
Ormai non vogliono più i figli e preferiscono i trovatelli; rendono i mariti precocemente imbecilli con i loro filtri afrodisiaci e per timore di perdere l'eredità son pronte ad usare il veleno e se questo non fa effetto ad usare la bipenne tanta è la rabbia furiosa che brucia loro il fegato.
In questa sequela di immagini deprimenti vengono colpiti tutti i vizi della donna, l'ebria Venus, la Venere ubriaca ha eliminato ogni freno e si abbandona ad ogni eccesso dal più turpe contro gli déi al più osceno contro la morale.
La lunga rassegna della sesta satira è di una imponenza che stordisce per la forza e la vastità della rappresentazione. Tutte le donne che danno spettacolo di sé vi sono raffigurate. La donna che più si vede e più si sente, quella per cui l'uomo spera, dispera, si esalta e si umilia, la creatura della vanità suprema, del capriccio costante, della lascivia e della malvagità è in questa satira rappresentata con rilievi immortali. é
la satira più lunga e, pur con le sue esagerazioni, è certamente una mirabile ed illuminante rappresentazione per la storia del costume.
è interessante vedere come Giovenale non definisce la donna e non la unifica in un modello ma la proietta in tanti ritratti dove accumula gli istinti più foschi della sua personale immaginazione: allestisce una galleria di raffigurazioni femminili dai colori così violenti da stordire l'osservatore. Non v'è mai un momento nel quale ricorre ad un sorriso, ad una battuta di spirito o ad un normale e giustificato rilassamento per godersi lo spettacolo: tira fendenti senza sollievo. In questa satira lo spirito di osservazione di Giovenale è sempre amaro e vibrante di schiumosa rabbia: il poeta raccatta ad ogni angolo di strada perfino i motivi più comuni della conversazione volgare e del lazzo osceno, senza sosta e senza vergogna, tanto da diventare il poeta veramente misogino della latinità.
è duro, cupo, inesorabile e fatalmente troppo eccitato ed invasato. Concentra la sua misoginia in una satira che costituisce da sola più di un quinto dell'intera sua opera. V'è chi ha giudicato questa satira tremendamente eccessiva ma dipende dai punti di vista e dalla prospettiva dalla quale si osserva. Come tutti gli artisti Giovenale ha saputo ricreare gli elementi della vita ma ha condensato il tutto in uno spazio definito dove ha racchiuso tutta la sua veemenza fino a sfiancarsi dalla fatica: nella parte finale della satira è sempre più cupo e dalle impassibili crudeltà della donna vanitosa si passa alle frenesie delinquenziali della superstiziosa, alla delittuosa figura della madre avvelenatrice e il poeta stesso avvisa il lettore che non la voglia di tragiche grandiose finzioni ma i delitti veri delle donne han prestato il coturno. In questa satira pare che Giovenale abbia esaurito ogni facoltà di espressione e d'immaginazione, anche la più spinta, nei riguardi della natura femminile. Ne è un esempio il fatto che nella decima satira dove tra le sconsigliate aspirazioni della vanità umana pone la bellezza come causa di rovina, tace delle donne che pure avrebbero dovuto porgere ad uno come lui sterminati esempi satirici. V'è infine solo un fugace cenno nella tredicesima satira dove per dimostrare che la vendetta è la voluttà degli animi deboli e meschini lancia una saetta all'indole femminile: infatti nessuno ne gode più della donna.
Ben poca cosa se pensiamo alla casistica raggelante della sesta satira nella quale forse possiamo dire che Giovenale racchiude veramente tutta la sua indignazione bruciando in una sola fiammata tutto ciò che voleva dire nei riguardi delle donne.
è indubbio che Giovenale vede nella lussuria il peccato universale perchè con la lussuria la donna ha infamato la casa, la ricchezza ha pervertito gli uomini e la vita è corrotta. Egli vede gli impulsi morbosi della carne come causa della infamia del mondo e insiste volutamente con così minuziosa e cruda osservazione sugli eccessi della turpitudine, sugli spettacoli osceni, sulla lascivia dominante, sull'effeminatezza.
Giovenale ha sicuramente in mente il tipo di uomo che debba servire da modello: è il maschio rude ed austero, col petto villoso e la muscolatura severa dell'agricoltore, del soldato e del legislatore: gli uomini simbolo dell'impero romano dominatore.
è atroce dunque lo sdegno contro i succubi della sodomia e l'effeminatezza ostentata a piene mani: il poeta non riesce a soffocare le sue parole, come nella nona satira, dove mette autenticamente a nudo l'immondo spettacolo e supera ogni ostacolo di pudicizia utilizzando un miserabile svergognato di nome Nevolo come maschera di mondanità e piacevolezza, anima di sozzura e di tristezza. La realtà di Nevolo è questa e il poeta gli fa parlare il linguaggio patetico della sua abiezione ma nelle turpitudini che confessa v'è come il candore dell'impudenza.
L'arte di Giovenale non si distrae mai davanti all'uomo: la sua satira ha per unica legge il suo potere creativo e il poeta riesce a fare del più disgustoso tipo di uomo il soggetto di un capolavoro poetico.
 
Il valore letterario delle satire e considerazioni finali
Giovenale fu duro, crudo, difficile, contorto nello stile, ricercato nel lessico, pregno di arcaismi e neologismi, amò la commistione dei toni duri e patetici, umili e sublimi, oratorii e colloquiali: tutto fu però costruito egregiamente e reso solido da un'alta tensione spirituale che toccò accenti lirici in alcuni passaggi delle sue satire.
Riuscì ad essere più moderno di Lucilio, superò Persio e si erse solitario nel suo secolo a giudicare e a condannare inesorabilmente sia i vivi che i morti. La sua visione della vita fu insofferente verso ogni compromesso morale e il suo moralismo esagerato lo portò a fustigare con acredine ed odio sprezzante gli orientali, visti come apportatori di mollezza, coloro che avevano profanato e contaminato le pure tradizioni romane.
Nella sua visione morale, in taluni casi, toccò un alto ascetismo naturale come nelle affermazioni della necessità del rimorso, della responsabilità della colpa, della bruttezza del peccato, della reciproca comprensione del dolore, del male procurato da ogni cattivo esempio e dei gravi danni che ne possono derivare alla gioventù.
Fu poeta del rimpianto, del più cupo pessimismo, dell'invettiva amara, dell'insolenza, dell'oltraggio alla dignità e al pudore, delle descrizioni più volgari di certi ambienti e personaggi, dell'indignazione che sembra costruita nel parossismo della vendetta di un'offesa.
Se non avesse trovato la satira l'avrebbe inventata perchè il suo talento per palesarsi aveva bisogno della poesia e il suo animo dell'invettiva. Fu un uomo che sentì e vide nel mondo soprattutto ciò che formava l'oggetto della sofferenza ed il cui unico amaro godimento consistette nella documentazione vibrante di quel mondo in rovina.
Passò sotto il flagello del suo sdegno tutta l'umanità del suo tempo, gravata da un forte decadimento morale, fu fedele specchio di una rassegna di ipocriti, approfittatori, depravati, ladri e trafficanti e per nessuno di loro ebbe compassione.
L'ironia di Giovenale non ha riscontri nella letteratura satirica di Roma: ha la tetraggine fredda del sarcasmo, la causticità dell'epigramma, la derisione dello scherno. Trafigge maligno ed improvviso con la sua originalità e mantiene sempre la sua personalità che emerge prepotente nello stile e nell'uso dei termini sempre vigorosi. è la poesia eccitata di un uomo che guarda il torbido mondo degli uomini e lo descrive con una satira sdegnata e violenta, grave ed amara: è in sintesi la cronaca privata di un'epoca.
A Giovenale in un certo senso mancano effettivamente la generosità, la bonarietà e il sorriso ma tali carenze gli hanno permesso di non confondersi con nessuno dei suoi personaggi, di non riconoscersi con nessuno di loro, anzi, ha potuto in questo modo dedicarsi esclusivamente a sezionare la vita che aveva davanti con le sue miserie e criticare con uno spirito infiammato. E fu un critico veramente spietato anche se ripiegò sul passato, ricordandolo con nostalgia, fantasticandone il ritorno, compiangendone la semplicità e la serenità della vita: fu proprio questo il terreno fertile per il suo vagheggiato mondo morale nelle immagini e nello spirito dei bei tempi andati, eterna condanna ai tempi attuali.
Era la protesta violenta che i tempi consentivano e Giovenale offrì alla causa tutto ciò che possedeva: la lingua tagliente e il talento. Non si poteva chiedergli di più.
Forse non ebbe la serenità distaccata e contemplativa del puro satirico ma ebbe sicuramente la potenza fantastica di un poeta originale che, pur con le limitazioni che porta con sé, riuscì con la sua opera a sublimare la cronaca di un'epoca della società romana.
 

Massimo Barile

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