È uscito il n° 121-122
Settembre-Ottobre 2002
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 25 settembre 2002
 
 




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Salvatore Quasimodo
La poesia come momento della coscienza morale, oblio, umiliazione, supplizio, miracolo
Scrivere di Salvatore Quasimodo e della sua poesia è come scrivere del dramma dell'uomo contemporaneo con tutto ciò che porta con sè: dalle difficoltà della ricerca interiore, al bisogno di "rifare l'uomo" apertamente espresso nelle parole, alle difficili scelte e alle "urgenze universalizzanti", alle aspirazioni dell'uomo e al tema dell'esilio dai luoghi familiari come significazione della dolorosa condizione dell'uomo, all'equilibrio tra elementi della tradizione e nuove suggestioni, alla realizzazione di una poesia che ha contribuito validamente alla identificazione dell'uomo dei nostri tempi.
La poesia di Quasimodo trae la sua linfa vivendo all'interno questa crisi sociale che percorre l'umanità. è sotto questo punto di vista, e con questo determinato significato e valore, che la parola di Quasimodo non è più solo la storia intima del poeta ma diventa inderogabilmente la storia generale, una delle espressioni più significative che fissa la propria dimora in modo definitivo nel panorama letterario. Ecco allora la dimensione di universalità a cui tende la poesia quasimodiana. Nonostante ciò v'è da dire che proprio questa universalità del poeta ha origine dalla particolare situazione limitativa della sua sicilianità, dal suo essere figlio dell'Isola, mitizzata nelle evocazioni fino ad assumere la dimensione di un paradiso perduto, l'Eden che ognuno aspira a ritrovare. Tuttavia senza questo limite forse non avremmo avuto tale universalità che in Quasimodo si compie non solo per una elaborazione letteraria ma grazie ad un continuo scavo dentro il proprio destino sempre legato indissolubilmente alla realtà della propria terra e della propria gente: il ricorrente e compiaciuto vagheggiamento della sua Sicilia soprattutto nelle Nuove Poesie assume significati che oltrepassano la pura esperienza biografica e arrivano a configurare una alternativa al decadimento e al male di vivere. Un processo evolutivo che partendo dalla Sicilia delle prime opere e quindi da un luogo delimitato, arriva ad un riconoscimento di una comune condizione umana.
Si può parlare di un parallelismo con il Verga anche se la sua universalità è raggiunta attraverso la sua sicilianità, attraverso la ricerca e la scoperta di se stesso nelle caratteristiche etiche della propria gente: la differenza è che Verga ha fatto di sè dei personaggi oggettivi che si possono osservare nello scenario di un teatro mentre Quasimodo ne ha fatto un personaggio invisibile, una voce intima, la coscienza stessa, la profonda verità dell'anima, impossibile a vedersi e pur tuttavia presente.
V'è però un altro elemento che avvicina Quasimodo a Verga ed è il provincialismo dal quale parte il loro cammino e che sarà salvaguardato con fermezza e costanza. Si deve però fare attenzione perché questo provincialismo non si riferisce a quello improduttivo e privo di vigore di chi si dibatte nelle zone periferiche ma al provincialismo che mantiene la freschezza delle proprie radici e difende la propria individualità in ogni situazione ed in ogni rapporto o superficiale contatto con il mondo nel quale si trova a vivere.
è lo stesso provincialismo che ha permesso al Verga di non restare impantanato nella teoricità del verismo permettendogli di conquistare una posizione autonoma e quindi universale. Anche per Quasimodo si è verificata la stessa situazione ed è stato ancora il provincialismo che ha permesso anche a lui di non restare invischiato e rinchiuso nei limiti astratti dell'ermetismo: ha potuto oltrepassare gli steccati ed ha conquistato, seppur rapportandosi con esso, la sua voce, la sua parola, la sua poesia e quindi la sua universalità.
Per quanto riguarda poi l'analisi da parte di una certa critica che ha parlato in riferimento a Quasimodo di una derivazione dal Verga, è interessante riportare la risposta del poeta: «Le ricerche superficiali di riferimenti di oggetti rischiano di non essere dei saggi. Mi chiamano poeta verghiano, ma non si vede che cosa si intenda per verghismo in me. Stile no. Contenuti nemmeno. L'etichetta risulta dunque falsa. Condotta con un altro metodo, una simile ricerca di oggetti potrebbe meglio definirmi dostoevskiano».
In questo caso siamo davanti ancora una volta al difetto congenito di una certa critica che tende a ricercare le corrispondenze linguistiche ed a fissare arbitrariamente le derivazioni di uno scrittore da altri.
Credo che per capire più a fondo il corpo della poesia quasimodiana si debba tenere ben presente la provincialità del poeta, la condizione umana di siciliano che risponde agli assalti di una realtà dura e violenta. Il poeta conserva la misura della sua coscienza e appare come una figura che porta con sè una esperienza ora dolorante, ora amara, ma sempre riconducibile ad una forte individualità proprio per questa continua tensione a risolvere in modo autonomo (appunto quasi dostoevskiano) la misura di ogni incontro con la società. Nei confronti della poesia quasimodiana non si può utilizzare un rigorismo critico ed una ossessività nel ricercare una precisa catalogazione ma si deve tenere presente il dramma del poeta siciliano che è poi il dramma della sua gente: il dramma di una civiltà che ogni poeta siciliano si porta dietro, inesorabilmente, quando tende ad elevarlo a messaggio universale. L'originalità di Quasimodo era inevitabile fin dall'inizio del suo percorso e la dimensione ontologica della sua poesia, la ricerca della realtà assoluta, da siciliana diventa nazionale e poi universale quando racchiude in sè tutte le esperienze e si muove in diverse direzioni: la sua poesia è dunque religiosa e arcadico-idillica, coscienza etico politica e coscienza dell'ambiguità tra il nostro vivere la cronaca e il nostro essere che tende a ritornare all'essere cosmico.
Le esperienze e gli adeguamenti ai diversi movimenti o alle diverse poetiche devono essere inquadrati in una precisa volontà di sintesi che è in verità una necessità di addentrarsi nelle variazioni della condizione spirituale. L'immagine quasimodiana di Acque e Terre «così come su acqua allarga
il ricordo i suoi anelli, mio cuore...» è il fulcro della incessante ricerca di sè, l'inesauribile volontà di ampi spazi e il bisogno di una totalità liberante che sono già i prodromi dell'avventura quasimodiana, il tormentato processo verso nuovi spazi, l'incessante ricerca dei valori che diano una nuova speranza di libertà all'uomo e alla sua parola.
Se teniamo presente che il punto di partenza è la Sicilia, nel periodo tra le due guerre, una terra tartassata da una classe dirigente incapace di capire le problematiche sociali, si può ben capire come nasca in Quasimodo la necessità di un contatto e di un rapporto con la cultura più viva, con l'ermetismo di Ungaretti, con Montale, con Onofri. Tuttavia in Quasimodo l'ermetismo non è un punto d'arrivo, un traguardo, ma un catalizzatore del processo interno che percorre le stratificazioni storiche fino al recupero delle radici. In questo modo il novecentismo in Quasimodo assume il significato di opposizione all'ottocento carducciano-dannunziano e la dichiarazione antidannunziana del 1939 è la prova lampante di questa sfida che affonda dentro la certezza e la fede nella parola poetica: «Noi gli fummo avversi non per inerzia o carenza d'amore, ma per sostanza della nostra natura impegnata nel canto; e per essa cercheremo di rendere ragione della resistenza opposta a una poetica della parola intesa in senso qualitativo, cioè lessicale, durante la ricerca di un nostro proverbiale strumento espressivo... La poetica che noi abbiamo perseguito è orientata verso i valori di "quantità" della parola assoluta, e del sentimento di essa. La nostra prova sulla parola fu in antitesi con quella dannunziana; non si limitò a un accertamento di numero, ma fece resistenza e ottenne la misura del tempo che impiega la voce a pronunciare una struttura organica di consonanti e di vocali: un superamento della percezione sillabica. Così la gelosa approssimazione al modulo di quantità ci avviò a una metrica non prestabilita, al riconoscimento della voce poetica».
 
Dalle radici delle grandi civiltà alla universalità
Il processo è ormai irreversibile e la ricerca dei modelli e la tensione alla letteratura come alla fonte liberante della vita è incessante.
Il viaggio verso le radici delle grandi civiltà dell'uomo: il "medioevo" europeo e in particolare mediterraneo, l'immaginismo arabo-ispanico, lo slancio mistico latino e la fede agostiniana. Questo è il mondo interiore di Quasimodo, la fucina del suo stile, il laboratorio del suo umanesimo che lavora costantemente. Da qui la classicità quasimodiana che è sia originaria sensibilità, sia civiltà e vita dell'uomo mediterraneo: il suo modo di essere universalità.
La sua "grecità" è forte e in certo senso globale: recupera le componenti epico-omerica, lirico-eolica, alessandrina, e virgilianamente cosmica. Per riportare la letteratura a "vita" la classicità aveva comunque bisogno di significanti supporti ed ecco allora il bisogno metafisico, l'angoscia esistenzialistica, il visionarismo magico del simbolismo, il dubbio tormentoso del Petrarca, la pietas virgiliana, i lirici greci, la caritas agostiniana, l'ardente ragione di Pascal, la ricerca ermetica dell'assoluto.
L'iter interiore, il viaggio umano di Quasimodo, appaiono in questo modo incessanti e chiari: è chiara la sua condizione di uomo errante dentro i dubbi e gli errori e la sua appassionata ricerca scava dentro il profondo dell'uomo e della sua storia. è indubbio perciò che Quasimodo non si è avvicinato alla letteratura per gusto d'evasione ma per il bisogno di scoprire la propria verità e dentro essa la verità dell'uomo: il mito letterario si identifica con il mito dell'uomo inesorabilmente sospeso tra passato, presente e futuro. La parola quasimodiana è lo strumento di una necessità umana: la coscienza che "tenta di rendersi conto", la testimonianza profonda di un uomo che la fissa nel suo procedere vitale ed incessante.
Si tratta quindi di una testimonianza eccezionale di una storia interna, di un ripiegarsi interiore in funzione di una autentica ricerca e scoperta di sè.
In Quasimodo fin dalla sua prima avventura poetica v'è un evocare e rivivere una rinnovata esistenza; v'è uno slancio a scendere nel profondo e risalire, andare e ritornare, vivere e morire. Ecco i termini del romanzo struggente dell'anima che vive questo processo all'interno di una umanità di uomini "soli". Da qui il tormento del poeta, la profonda e amara coscienza del limite che è nell'essere uomini così come siamo: la consapevolezza che la parola pura, la sola che potrebbe cogliere lo stato puro del mondo, è solo un desiderio o un aspetto illusorio e non può essere mai una conquista perché non può esserlo.
 
La poesia come momento della coscienza morale
Si capisce allora perché il tormento di Quasimodo non è di natura retorico letteraria e perché scorra come sangue e lievito filtrando inconsapevole nei tronchi cavi della sua poetica riuscendo a tradursi in ogni unità sintattica dotata di autonomia: un oboe gelido risillaba... e smemora (Oboe sommerso); Sera, luce addolorata,/pigre campane affondano (Verde deriva); Non altro ora consola/che il silenzio (Mobile d'astri e di quiete); Un sepolto in me canta (Un sepolto in me canta); Mite letargo d'acque (Anellide ermafrodito).
Il tormento è un autentico modo di essere, un sentirsi nel centro della crisi dell'uomo contemporaneo e non v'è nulla che può essere di conforto neppure la parola: Il cuore trasmigra/ ed io sono gerbido (Oboe sommerso); In te mi schianto e risano (Autunno); Io muoio per riaverti (Nascita del canto); A te mi porgo trebbiato (Anellide ermafrodito). E' questa sensibilità angosciata che offre il momento religioso di Quasimodo, una tendenza mistica, un desiderio infinito di un'eterna presenza.
Il processo di riduzione applicato alla parola in realtà è in funzione dell'uomo e del suo rapporto con il mondo della storia e del cosmo, del rapporto tra Uomo e Dio: la filosofia, che è implicita in ogni ricerca del rapporto tra l'Io e il cosmo, tra la nostra coscienza di essere e il suo rapporto con l'essere del mondo.
Quasimodo si trova immerso in questa tensione religiosa, tra agostinianesimo e francescanesimo, con la sua sensibilità e la sua coscienza anche se non è un lasciarsi trasportare da una adesione totale anzi la soluzione mistica è, come capita sempre in Quasimodo, una ricerca faticosa ed appassionata che porta con sè tormento, angoscia, inquietudine, sofferta coscienza del proprio essere e volontà di riemergere in purezza attraverso un profondo scavo interiore che abbatta ogni resistenza egoistica dell'uomo. Ancora una volta la volontà di riduzione alle strutture più genuine della verità, allo stato dove il processo del divenire coinvolge tutto: questo processo porta con sè l'inquietudine dell' attesa , il tormento irrisolto, la convulsa ricerca catartica, l'illuminata consolazione, la coscienza dell'effettiva conquista. Nascono da qui l'apparente discontinuità di certi toni e le variazioni che si risolvono comunque in unità se si pensa alla categoria della "riduzione" e alle sue implicazioni.
A questo scopo è utile far riferimento ad alcuni testi che riuniti possono dar corpo al romanzo lirico del tema religioso che viene risolto con i mezzi più alti e positivi dell'elegia quasimodiana.
Curva minore è il momento dualistico della coscienza che matura le differenze tra l'uomo e Dio e arriva alla definitiva scoperta della solitudine. Nei versi iniziali troviamo lo sviluppo del dramma, dalla sorgente alla definitiva stabilizzazione:
Perdimi, Signore, chè non oda
gli anni sommersi taciti spogliarmi,
sì che cangi la doglia in moto aperto:
curva minore
del vivere m'avanza.
Si passa dall'imperativo "Perdimi" all'invocazione di speranza "chè non oda" e nel finale v'è l'offerta della propria brevità temporale che diventa coscienza del limite, speranza di addivenire ad una soluzione che possa trasformare la propria curva minore.
E fammi vento che naviga felice
o seme d'orzo o lebbra
che sè esprima in pieno divenire.
Dalla visione di sè si passa ad una visione di "altro" da noi: il vento e il seme, elementi naturali in perfetta sintonia con la legge del "pieno divenire".
La terza strofa pone l'accento sull'amore, risultato dell'incontro mistico, quando e se avviene, tra l'uomo trasumanato e Dio:
E sia facile amarti
in erba che accima alla luce,
in piaga che buca la carne.
Il poeta sa quanto è difficile questa metamorfosi ma sa anche che il tentativo deve essere fatto perché qualifica l'uomo e gli offre il dubbio. E nella penultima strofa la definizione elegiaca dell'uomo
Io tento una vita: /ognuno si scalza e vacilla/ in ricerca.
Infine ecco l'ultimo momento della coscienza dove Dio è di là dell'Uomo e l'Uomo si trova dunque solo con la sua angoscia di esistere:
Ancora mi lasci: sono solo
nell'ombra che in sera si spande,
né valico s'apre al dolce
sfociare del sangue.
La seconda fase del rapporto religioso è Lamentazione d'un fraticello d'icona dove la coscienza della solitudine si fa lamentazione, canto religioso, costernazione disperata, riduzione a grido puro dell'anima, a lamento.
Di assai aridità mi vivo,
mio Dio;
il mio verde squallore!
Romba alta una notte
di caldi insetti...
L'aridità diventa il motivo morale dominante e il poeta, cioè l'uomo, si riduce ad erosione: il vagare degli insetti sembra consumare la notte e l'uomo cerca l'impossibile conforto della macerazione esasperata mi cardo la carne/ tarlata d'ascaridi/ amore, mio scheletro.
Il processo riduttivo e il rapporto con Dio diventano un grido religioso: un sospiro profondo e cupo che ammanta il mondo ma tenta di squarciare l'oscurità che non permette la visione di Dio. A questo punto sembra giunta la stabilità e l'irresolubilità del rapporto ma Quasimodo procede ancora e apre il terzo tempo del romanzo religioso con La mia giornata paziente dove si ritrova il profondo raccoglimento dello spirito: la coscienza allora emerge più preparata ad affrontare il dolore e l'attesa struggente della metamorfosi.
La mia giornata paziente
a te consegno, Signore,
non sanata infermità,
i ginocchi spaccati dalla noia
è qui che la parola abbandona l'angoscia e si avvicina al sospiro dsell'anima, al silenzio e al raccoglimento in francescana meditazione. Inizia allora per l'uomo la nuova avventura verso la fiducia e subentra il concetto di abbandono:
M'abbandono, m'abbandono;
ululo di primavera,
è una foresta
nata nei miei occhi di terra.
L'uomo è diventato il sospiro stesso della primavera ed una foresta è nata dai suoi occhi: lo stato psicologico si muove tra gioia e paura, sgomento e conforto ed ha inizio l'incontro tra l'uomo e la sua divina natura cosmica. Finalmente può attuarsi la Metamorfosi nell'urna del Santo dove il tormento dello spirito e la macerazione della carne al cospetto del morire maturano nell'uomo la pietà di sè.
I morti maturano,
il mio cuore con essi.
Pietà di sè
nell'ultimo umore della terra.
La conquista di questa poesia è la pietà di sè, una emozione interiore che elimina la durezza e raggiunge l'intima sensibilità.
Muove nei vetri dell'urna
una luce d'alberi lacustri:
mi devasta oscura mutazione,
santo ignoto: gemono al seme sparso
larve verdi:
il mio volto è loro primavera.
Il dolore del Santo si fa il dolore del poeta che si vede dentro l'urna di vetro, torna vegetazione lacustre e seme di vita, e poi finalmente ritrova la felicità dello spirito. Le pene e i dolori sono un'eco della memoria anche se non potranno mai liberarsi perché sepolte in pozzi murati:
Nasce una memoria di buio
in fondo a pozzi murati,
un'eco di timpani sepolti.
La coscienza della mutazione trova in questa memoria il meditato sacrificio di sè: Sono la tua reliquia/ patita.
Il quinto scalino del romanzo religioso quasimodiano Dammi il mio giorno raggiunge forse il più alto risultato etico-poetico, la fase finale della profondità e della compostezza, la volontà della "riduzione" arriva in porto quando il poeta è fossile emerso da uno stanco flutto.
Ti cammino sul cuore,
ed è un trovarsi d'astri
in arcipelaghi insonni,
notte, fraterni a me
fossile emerso da uno stanco flutto;
un incurvarsi d'orbite segrete
dove siam fitti
coi macigni e l'erbe.
Adesso il poeta è diventato parte della notte come gli astri con le loro orbite, come i fossili, come gli uomini.
è in questo momento che il poeta ha abbandonato completamente la sua individualità umana e la sua storia di uomo ed è tornato indietro nel tempo verso le forme più semplici di vita: la "riduzione" è arrivata all'esito finale e il poeta è tornato ad essere un semplice segno della vita antica, un fossile che emerge dalle rocce e dalle acque marine.
V'è un tono di abbandono francescano davanti alla natura (acqua, astri, ecc...) di fronte al grande mistero del succedersi della vita e della morte al quale soggiace l'uomo. Anche il finale doloroso diventa un sacrificio eroico, un volontario martirio come quello dei santi: attraverso il dolore si finisce con il conquistare la coscienza della propria purezza cioè l'identità con Dio.
Infatti il componimento si apriva come una preghiera, una invocazione affinché l'uomo, disperso in una civiltà falsa, potesse tornare ad assumere il volto dell'infanzia vista come un ritorno alla originaria purezza:
Dammi il mio giorno;
ch'io mi cerchi ancora
un volto d'anni sopito
che un cavo d'acque
riporti in trasparenza
e ch'io pianga amore di me stesso.
Il processo di riduzione affrontato dal poeta arriva alla originaria purezza con la sua capacità di essere ed affrontare contemporaneamente tutti i modi possibili del rapporto con Dio ma con Amen per la Domenica in Albis che conclude la raccolta di Oboe sommerso si conclude anche la vicenda del romanzo religioso quasimodiano:
Non m'hai tradito, Signore:
d'ogni dolore
son fatto primo nato.
Qui ritroviamo l'uomo con tutto il suo impegno nel mondo, con la consapevolezza di essere in rapporto con esso e la capacità di rispondere al problema del dolore.
L'evocazione poetica quasimodiana pur con i pochi elementi utilizzati offre infine una risposta universale: la vicissitudine umana, la meditazione della nostra condizione, l'accettazione della storia intima sofferta, la misura umana, debolmente umana, viene risolta in modo impeccabile nella continua unità della coscienza e della sua corale immersione nel tutto cosmico.
Quasimodo è soprattutto in questo senso un poeta proiettato al di là del suo essere nella storia e la sua contemporaneità non può combaciare con qualche categoria letteraria ma con la universale categoria umana dei modi più struggenti dell'anima: la memoria, la fuga e il ritorno, i dubbi e la resistenza, la disperata ricerca dell'amore in tutte le sue eventualità fisiche e metafisiche, private e sociali, storiche e mitiche.
Si è parlato di agostinianesimo e francescanesimo ma si intende anche tutta la tensione religiosa che impegna la civiltà moderna ridotta al suo punto originario: dall'angoscia esistenzialistica al visionarismo magico del simbolismo, dal misticismo al platonismo umanistico. Nella vocazione religiosa di Quasimodo coesiste una fonte mistica e la più alta coscienza dell'identificazione tra l'anima dell'uomo e quella della terra. La vocazione georgica di Quasimodo ha ragioni identiche ma per quella volontà di macerazione non può arrestarsi alla identificazione delle due anime ma tende al limite dove il vivente sconfina nel suo contrario e la terra si fa anche tomba dell'uomo. Quasimodo tende alla pietas virgiliana e la fa sua ma finisce con l'andare oltre perchè vi aggiunge una volontà di martirio dura, violenta e urgente. è questo il passo più difficile per capireprofondamente lo strutturarsi della sua poesia, il suo compiersi attraverso la macerante ricerca dei mezzi più significanti. Possono essere utili due componimenti Canto ad Apollion e Apollion nella raccolta Erato ed Apollion dove lo struggimento e il mistico abbandono del sentimento sono costretti dentro moduli rigorosi I monti a cupo sonno/ supini giacciono affranti; Le mie mani ti porgo/ dalle piaghe scordate/ amato distruttore; salirono cupe le acque nei mari; terrena notte, al tuo esiguo fuoco/mi piacqui talvolta/ e scesi fra i mortali.
Ecco la metamorfosi dell'amore come purificato placamento; la metamorfosi del dolore come superamento di esso nell'oblio, nel pieno annullamento ma angosciosamente conquistato dalla coscienza; metamorfosi della morte come impossibilità di essa «Mio amore, io qui mi dolgo/ senza morte, solo» o come immortale pienezza del destino umano in contrapposizione alla incompletezza della vita. E' questo uno dei momenti più impegnati in quella volontà di ridurre a parola essenziale un sentimento: quello della vita e quello della morte.
I monti a cupo sonno
supini giacciono affranti.
L'ora nasce
della morte piena, Apollion;
io sono tardo ancora di memebra
e il cuore grava smemorato.
Le mie mani ti porgo
dalle piaghe scordate,
amato distruttore.
Dalla parola scarnificata emerge un paesaggio scabro e macerante di una terra, la Sicilia, addormentata in un sonno storico, ridotta a membra piegate da una inesorabile inerzia. Un senso di angoscia profonda fissa le immagini e le blocca nella loro immobilità seguendo la legge del ritmo quasimodiano più duro. La personificazione dei monti siciliani è piena: sono abbattuti dall'inerzia, sono l'uomo ricaduto nel nulla, sono l' identificazione della terra pietrificata. Quel dolore che è il dolore della terra e la tragedia dell'uomo con il corpo provato, con le membra pesanti e inerti; e poi l'invocazione della morte per pervenire a quel limite del dolore dal quale si uscirà purificati. L'uomo chiede ad ogni oggetto della terra e ad ogni proprio gesto un segno del divino: è la creatura umana di Quasimodo. Ma vi è anche un fuoco interiore che esplode nel grido dell'anima e risolve il rapporto tra l'uomo e Dio costringendo l'uomo alla metamorfosi: l'uomo piagato si scorda allora delle piaghe. La sintesi quasimodiana tende ad unificare le visioni pagano classica e cristiano moderna della sensibilità e della civiltà umana. Lungo questa direzione si sviluppano i segni del linguaggio quasimodiano che tende ad unificare, scarnificando la parola, il mito classico e il simbolo cristiano. La suggestione della poesia è in questo doppio messaggio: tensione massima di ridurre la propria umanità al ritmo più intimo e vitale, al punto originario dove macrocosmo e microcosmo si risolvono. La riduzione è la legge della ricerca poetica quasimodiana: si svolge sull'uomo e sul suo rapporto esistenziale nel senso più pieno. Questo movimento riduttore implica un rapporto cosmico ed ecco la riduzione dell'uomo alla luce e al suono «io mi divoro in luce e suono»; alle stelle e alla luna «ed è un trovarsi d'astri». «Nell'ora mattutina a luna accesa/appena affiori, geme...»; alla notte «Dammi vita nascosta/e se non sai me pure occulta/ notte aereo mare»; alle stagioni «Autunno mansueto, io mi posseggo». Poi v'è la riduzione ai segni originari più terrestri, ai fenomeni atmosferici: l'aria «e noi fatti d'aria al mattino»; il vento « il vento s'innesta/ docile al mio sangue»; le nuvole «Un suono d'ali/ di nuvola che s'apre/ sul mio cuore»; la pioggia «a nubi gelide/ rassegnate in pioggia»; il mare «Il mare empie la notte/ e l'urlo preme maligno...»; il fiume «giaccio sui fiumi colmi»; le paludi «Acqua chiusa, sonno delle paludi...» «Nella palude calda confitto al limo/ caro agli insetti, in me odora/ un airone morto»; i fenomeni geologici « I monti a cupo sonno/ supini giacciono affranti»; «Tra muschi grami, a supplizio/ splende la pietra livida»; «in pietra mutata ogni voce»; «pietre che l'acqua spolpa ad ogni foce»; ai fenomeno biologici primordiali «Dalla fangaia affiora/ roseo anellide/ ermafrodito» «nel fertile buio di cellula» «...a me/ fossile emerso da uno stanco flutto».
Come si può ben capire si tratta di una unicità riduttiva comunque molteplice nelle sue variazioni espressive e spirituali. è proprio in questo complesso insieme di variazioni che si muove la poesia quasimodiana, ermetica o post ermetica che sia, la sua imprendibilità e la sua disponibilità alla fuga, alla arbitrarietà dei contenuti come rilevato da una certa critica.
Per tentare di cogliere i nuclei essenziali della riduzione quasimodiana che predomina nella metamorfosi di Quasimodo si possono indicare alcune dimensioni psichiche determinati: l'oblio, l'umiliazione, il supplizio e il miracolo.
 
L'oblio
L'oblio certamente la condizione più affabulante della riduzione quasimodiana e si risolve attraverso il totale abbandono del presente e la discesa nel profondo della memoria, nella zona della purezza e del nulla.
«In fresco oblio disceso
nel buio d'erbe giace:
l'amata è un'ombra e origlia
nella sua costola.
Mansueti animali,
le pupille d'aria,
bevono in sogno».
La coscienza è totalmente pacificata e ridotta al soave ascolto del primo palpito di vita.
Esaurita così ogni possibilità di dramma rimane la visione di oggetti irreali e il soave godimento di fantasie col rischio di giungere ai lidi arcadici ma tale possibilità è eliminata nel momento in cui è operante il dramma esistenziale, la coscienza di pena e di pietà. Così in Oboe sommerso: «in me si fa sera; /l'acqua tramonta/ sulle mie mani erbose»; così in Riposo dell'erba: «Deriva di luce; labili vortici,/ aeree zone di soli, risalgono abissi: Apro la zolla/ che è mia e m'adagio. E dormo:/ da secoli l'erba riposa/ il suo cuore con me». L'oblio atteso, ricercato e voluto è finalmente raggiunto nel sonno e si fa presenza totale e vita perpetua. Ma quanto sia impossibile la conquista dell'oblio nel nulla Quasimodo lo rivela nella coscienza della determinazione umana, della sua impossibilità all'assoluto anche oltre la morte:
«Mi desta la morte:
più uno, più solo,
battere fondo del vento:
di notte».
Qui la voce del poeta vibra come la verità della natura e dell'uomo e viene eliminata la soavità dell'oblio.
 
L'umiliazione
L'umiliazione è forse la categoria poetica quasimodiana, lo strumento più adatto alla vocazione quasimodiana nei riguardi della riduzione. La riduzione all'oggetto naturale più significante la pena e la pietà del soggetto e la sua coscienza esistenziale. è in questa identificazione tra la natura vegetale e la coscienza della natura umana che si ha il punto più intenso della poesia di Quasimodo. «Dal giorno, superstite/con gli alberi mi umilio./Assai arida cosa;/a infermo verde amica,/a nubi gelide/rassegnate in piogge...»: è questa l'immagine fissata nella lirica Sul colle delle Terre Bianche: l'umiliazione (con gli alberi mi umilio) come componente umana più degradata ma anche più internamente sublimata; come pena di sè; come ultima speranza di altro; come dramma esistenziale e come fattiva soluzione della stessa. Il verso con gli alberi mi umilio, con la portata del suo valore di sigla etico-poetica, spiega la vita delle cose con la vita dell'uomo: alberi e uomini si trovano uniti nella riduzione del dramma dell'espiazione e della redenzione con l'assunzione cosciente della propria finitezza. Emerge da tutto ciò la tristezza del poeta, la sua macerazione nella contemplazione, il messaggio struggente di pietà che oltrepassa la situazione personale. Infine la conclusione sconsolata e disperante, lucida e allucinante, dei versi di Curva minore «Io tento una vita:/ognuno si scalza e vacilla/ in ricerca...» che offrono la più autentica poesia quasimodiana sia nella costruzione etica col tentativo di completezza e con la macerazione della ricerca e sia nella struttura espressiva con la essenzialità delle immagini nude e scabre.
 
Il supplizio e il miracolo
Si può notare nel finale della stessa lirica Curva minore la presenza di due elementi: la sofferta penitenza (ognuno si scalza e vacilla) e l'elemento liberatorio (E sia facile amarti). La categoria dell'umiliazione implica la possibilità di una forma drammatica e di una forma pacificata e liberata. Nella prima forma si può indicare il supplizio e si veda Salina d'inverno (tra muschi grami, a supplizio/ splende la pietra livida) ; nella seconda si può individuare il termine miracolo e si veda la lirica Specchio (e tutto mi sa di miracolo). Sono ancora una volta le immagini della natura vegetale che riescono ad illuminare e rendere così più chiaro il processo strutturale sovente contraddittorio di parte della poesia del primo Quasimodo. L'esito finale è un panorama di nuda aridità, di assente vitalità: il punto massimo dell'umiliazione e del suo significarsi attraverso la riduzione vegetale ( tra muschi grami, a supplizio; è una foresta/ nata nei miei occhi di terra; A te mi porgo trebbiato; la mia tristezza/d'albero malnato). L'uomo in Quasimodo si confessa nella sua nudità rigorosa e nella disponibilità alla macerazione come riscatto, al supplizio come autopunizione, come strumento di riscatto e unica legittimazione della speranza. Questa volontà di superamento conduce alla necessità del miracolo e in questo senso si legga la lirica Specchio E tutto mi sa di miracolo;/e sono quell'acqua di nube/che oggi rispecchia nei fossi/più azzurro il suo pezzo di cielo,/ quel verde che spacca la scorza/che pure stanotte non c'era. è questa la riduzione quasimodiana più piena con una tensione tra spasimo e dolcezza, stupore e struggimento verso l'estremo dell'atto della liberazione.
Il supplizio appare come l'elemento che avvia e conduce eticamente e poeticamente al miracolo dell'improvviso riscatto che è giustificato dal lungo travaglio, dalla coscienza martirizzata dall' aridità.
La riduzione assume il suo più ampio significato: simbolo della condizione umana e messaggio che indica nell'identificazione con i segni originari della natura la possibilità libertaria, etica e civile, più completa dell'uomo.
La riduzione dell'Io e della realtà costantemente perseguita da Quasimodo nella sua ricerca dell'identificazione con i segni del cosmo trova così i suoi strumenti nella coscienza etica, nell'oblio estenuato, nell'umiliazione accettata fino al martirio, nell'attesa del miracolo.
Non si potrà prescindere dall'esito dell'uomo liberato quando ci si troverà davanti al Quasimodo della guerra e del dopoguerra più fortemente impegnato nel messaggio civile. Una ulteriore prova della sua continuità, della sua fedeltà a se stesso e del valore di esemplarità della parola quasimodiana in funzione del tempo: una identificazione tra la parola e la storia stessa del poeta.
La poesia sentita come un continuo progredire verso la pronuncia del dramma umano per la conquista di un equilibrio semantico finale ( così dirà il poeta: «Dalla mia prima poesia a quella più recente non c'è che un maturarsi verso la concretezza del linguaggio») ; come esperienza perpetua e libera dall'ideologia di poetiche prefabbricate.
«La posizione del poeta non può essere passiva nella società: egli "modifica" il mondo. Le sue immagini forti, quelle create, battono sul cuore dell'uomo più della filosofia e della storia. La poesia si trasforma in etica, proprio per la sua resa di bellezza: la sua responsabilità è in diretto rapporto con la sua perfezione... Un poeta è tale quando non rinuncia alla sua presenzauin una data terra, in un tempo esatto, definito politicamente».
La poesia quando è tale, raggiunge l'etica.
 

Massimo Barile

 

Ricerche e appunti sparsi su S.Quasimodo, Massimo Barile, 1981, (Osservazioni e studi di vari autori)

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