Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Fiorella Borin
Con questo racconto ha vinto il quinto premio del concorso Concorso Letterario Marguerite Yourcenar 2000 sezione narrativa
L'ultima notte
 
Socchiusi gli occhi e la vidi. Veste bianca e capelli buttati all'indietro, a offrire il viso ai miei sguardi. Forse la sua pelle sapeva di latte... La voce del carceriere spezzò l'incantesimo.
"Mi dispiace dovertelo dire. Ma sarà per domani".
Berretto floscio a tagliargli in due la fronte, grigio il volto nel riquadro dello spioncino, e la sua voce mal modulata, priva d'accenti, ad annerire la luce della dea.
"Ti dispiace; hai detto che ti dispiace" sorrisi. Pietosa smorfia grottesca, il sorriso sulle labbra di un uomo che morirà l'indomani.
"Sì. Oggi il re ha firmato la condanna: all'alba ti verrà mozzata la testa. Puoi fare a meno di credermi, ma ripeto che mi dispiace". (Patetica intimità fra un prigioniero e il suo secondino: maturata in mezzo ai topi, la sporcizia sul pavimento, e lo stridere della chiave quattro volte al giorno nella serratura - scodelle di minestra rancida e acqua amara come il ferro... il ferro che domani si prenderà il mio sangue).
"Ti credo" risposi. Lui aprì la bocca come per parlare ancora, poi scosse il capo e richiuse lo spioncino. Buio. Di nuovo e ancora buio. Mi distesi sul tavolaccio, afferrai una manciata di paglia e me la strinsi sul petto con tutta la forza che mi era rimasta - fu solo un dolore breve, una ferita da poco - per soffocare la disperazione che mi graffiava il cuore.
"Ma se desideri qualcosa, chiamami. Non avere riguardo". Dietro la porta sbarrata, ancora la voce di quell'uomo: rauca, invecchiata nella rabbia lenita da un vino aspro quanto la sua sorte. Esitava - udivo il suo respiro breve, incerto - attendeva una risposta. Ebbe il mio silenzio; comprese, andò via.
Il volto schiacciato sulla parete, cercavo con l'indice la piccola crepa nel muro: la benevola fessura da cui filtrava talvolta un brivido d'aria fresca, pulita, l'aria che appartiene agli uomini liberi - quelli che camminano e godono e si bevono l'aria senza accorgersi che sa di sole. Quando si è rinchiusi in una cella, l'odore è sempre e solo quello della notte: odore greve, di muffa e saliva sudore orina e sangue, un solo torbido lezzo a plasmare l'angoscia che enumera le colpe e urla i peccati.
E adesso? - non finivo più di domandarmi - e adesso?
Un pugno di ore da vivere aggrappato al legno alla paglia alla mia scodella vuota - la bocca incollata al capezzolo di un muro scrostato, là dove palpita la nenia del vento che spiana la fronte degli uomini liberi, che del vento nulla sanno, né sapranno mai. Silenzio. Morirò nel rosa dell'alba di domani.
Correvano come trottole, i pensieri. Si accavallavano, si abbracciavano gli uni agli altri, mescolando trionfi e peccati, visi di donna e rancori e pentimenti, e una malinconia lieve, che faceva sembrare dolci persino i ricordi legati agli schiaffi dati e presi da bambino, nella piazza del paese. L'affanno mi lacerava il petto.
"Calmati" sussurrò con la sua voce di bimba. (Aveva il profumo dei glicini a maggio, il suo fiato sottile). Carezze di primavera a donar luce alla polvere, a volare sul pavimento lordato dai topi e dai miei passi di poeta assassino.
La vidi. Nella penombra, la sua veste replicava il chiarore bianco della luna. Pallida, membra inventate dal dio dell'aurora, viso scolpito dalla mano di chi conosce ogni regola di arcane geometrie e prodigi celesti e incantamenti. Ai lati della bocca, due pieghe accentuavano il sorriso.
Riuscii a mettermi seduto. Ma mi occorse del tempo, perché la testa girava e il sangue rombava nelle orecchie - torrenti di linfa e paura mi torcevano i nervi, e nelle pupille smaniavano lampi colorati, aloni rossastri, scrosci di luce maligna. Protesi il braccio verso di lei, allungai invano le dita: non la toccai per timore di sporcarla.
S'intenerì sulla mia devozione e aggiunse: "Non c'è più motivo di avere paura". Disse così, lei dolce e innocente figlia della notte, lei sorella e vergine sposa e angelo di quest'uomo senza Dio e senza domani. Lei incommensurabilmente lontana dalle schiavitù della carne, io a centellinare minuti e respiri, a dolermi di ogni fremito, smarrito nella memoria che era recinto al mio ieri (vivere la malora e incatenare le parole in versi), accendere la fiamma dell'ultimo amplesso consumato per amore (quando? e quale? ci fu mai, questo dono?), e lo strazio di quel pensiero feroce che non mi abbandonava più, notte e giorno sempre lo stesso pensiero: datemi il pane benedetto - lo intingerò nel vino consacrato e lo inghiottirò senza sfiorarlo coi denti, come ci aveva insegnato la suora nei giorni delle corse nei prati e delle cacce ai nidi di rondine... i ricordi picchiavano alle tempie, si facevano aghi di ghiaccio, corona di spine.
Improvviso, mi balenò davanti l'orrore del fuoco dell'inferno. Caddi in ginocchio, atterrito dalla visione nitida di ciò che sarebbe stato il mio destino. "Reciterò l'atto di dolore" balbettai congiungendo le mani.
Lei scosse il capo, benevola. Le si arrossarono le gote per la commozione quando portò l'indice teso alle labbra. "Taci. Rimettiti seduto, invece. C'è una cosa di cui ti debbo parlare..." "Dopo!" gridai, rannicchiato sulla paglia marcia, le mani premute sulle orecchie affinché i suoni che udivo in lontananza acquistassero corpo e chiarezza. Il miracolo si stava compiendo. Precise, esatte, affioravano alla mente le preghiere che mia madre mi aveva insegnato nell'infanzia: il ringraziamento per il sole che si leva, scalda il cielo e va a dormire; la benedizione che insaporiva un cibo sempre troppo scarso e insipido per la nostra fame ("Signore, ti offriamo il frutto delle nostre fatiche e del lavoro dell'uomo..."). Parole scritte dai santi per le mie labbra di peccatore, ultimo sorso d'acqua da serbare in bocca prima dell'inferno.
"Ascoltami!" ripeté più volte, veemente, la mia pallida amica; ma io non mi tenevo più stretto alla sua voce: come un cieco brancolavo nel buio e allungavo le braccia per ritrovare Dio.
"La tua vita è salva".
Il cuore si fece pietra nel mio petto.
"Hai capito bene, sì: vivrai. Per amor tuo mi sono offerta alle voglie del Primo Consigliere, e la sua intercessione presso il re bastò a fargli revocare la sentenza. Adesso il boia si sta ubriacando all'osteria: non dovrà avere la mano ferma, all'alba di domani. Tu vivrai".
Morsi l'aria, succhiai il gusto di quelle parole. Vivrai. Aveva detto così. La testa di un poeta assassino venduta nel candore e nel sangue delle sue carni. (Scriverò per te i miei versi più belli).
"Sei felice?" Ancora la sua dolcezza a lavare l'aria della mia prigione.
"Sì" dissi, "Sì!" ripetei e poi gridai; affondai le mani nella paglia e la gettai verso il muro sbrecciato, uno sputo d'erba fradicia addosso alla crepa da cui era entrata l'ombra - soltanto l'ombra, però - di quell'aria, quel vento, quella vita che avrei incontrato un'altra volta, e nuovamente goduto, fino a cadere ubriaco, fino a cadere sotto il peso del cielo spalancato sopra la mia testa.
"E ora dormi, mio uomo-bambino" mormorò. "Dormi finalmente sereno, giacché domani si aprirà la porta sul tuo volto radioso e sarò io che ti condurrò per mano..." non terminò la frase. "Dove?" domandai. (Ti seguirò ovunque ti guideranno i tuoi capricci, io coi miei anni malvissuti, tu morbida giovinezza...) "Lo saprai domani" concluse, sorriso d'occhi e labbra socchiuse, luce il suo volto, luce, luce...
Dormii. Fu un sonno greve, senza rimorsi né poesie. Lontanissimo da Dio.
 
La chiave esaurì i suoi giri nella serratura. "È l'ora" disse il secondino. Fissava il pavimento sudicio e gli tremavano le mani. Io risi. Risi sino a soffocare nel mio stesso riso. Ma il suo volto rimaneva triste, aggrondato.
Una morsa mi afferrò le viscere. "Sono libero, no?!" articolai a fatica. Lui, rughe e chiaroscuri, taceva. Un'ombra si stagliò nello specchio della porta. Cappuccio in testa, scure stretta in pugno. Con l'altra mano faceva rotolare un ceppo; lo rizzò proprio al centro della cella. "Perché?" gridai. Il boia si era inghiottito tutta l'aria della stanza, la crepa nel muro si era fatta piaga putrida, oscena, i topi scorrazzavano tronfi, squittivano, mordevano... solo topi e il ceppo e la lama a gettare rubini sul rosa dell'alba... "Perché?"
"È il volere del re. Te lo spiegai ieri sera" mormorò stancamente il mio carceriere, e in quell'attimo compresi che era stato lui e soltanto lui l'amico - l'unico - a cui avrei voluto stringere la mano, e supplicarlo di pregare Dio per la mia anima, giacché temevo il fuoco eterno più dei topi, molto più del ceppo e la lama brandita contro di me... il boia mi afferrò per la nuca; rantolai quando mi buttò in ginocchio, guancia premuta sul legno, schegge appuntite e nere come ultima carezza. Sbarrai gli occhi: lei era tornata. Avanzava verso di me, quasi volava; si raggomitolò al mio fianco, veste bianca e pelle di latte...
"Dimmi il tuo nome, presto!" ansimai, "Che io possa maledirlo!"
Il boia sogghignò mentre levava altissima la scure.
Lei risplendeva di una luce quieta e dolce. Immota.
"Inferno", disse piano, "Inferno" e mi baciò la bocca.
 
Racconto vincitore del 1° Premio al concorso Città di Melegnano, sez. Narrativa
Racconto vincitore del 5° Premio al concorso Citta d'Orzinuovi 1998, sez. Narrativa  
Concorso Marguerite Yourcenar 2000 a sez. narrativa
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agg. 3 novembre 2000