Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Fiorella Borin
Racconto quinto classificato al concorso Città di Orzinuovi 1998 sez. narrativa
Un lenzuolo di piume e una coperta di conchiglie
 
Egnazia, 11 settembre 1508
 
«Domani arriverà la nave, Thalata, mancano così poche ore all'alba...» ti dicevo, e tu tra i brividi facevi sì, al chiaro della luna mi illudevo di vedere brillare persino il tuo sorriso.
«Tienimi stretta, Marco, ho tanto freddo» sussurravi, le braccia strette alle ginocchia, raggomitolata nella tua veste corta, che non serviva a scaldarti. Speravo che il mio amore bastasse a guarirti, e che i giorni da vivere insieme fossero più numerosi dei chicchi d'un cesto colmo di grano. Invece la febbre ti divorava; il morbo che si annida tra le canne della palude non aveva avuto pietà dei tuoi occhi scuri, abituati alla luce di un sole più feroce di quello che veglia sulla mia Venezia.
«Parlami ancora, Marco. Senza la tua voce, la paura mi arriva sino al cuore». Il vento frusciava tra gli ulivi; tesi l'orecchio: lontano, un luccicare di lanterne, tre, quattro luci che ondeggiavano, accompagnando un indistinto scalpiccio, qualche mugugno, un'invocazione a san Biagio e poi, alto, il tuo nome.
«Marco, mi stanno cercando!» balbettavi, con la tua voce di febbre e di pianto. I tuoi occhi levati su di me, polle d'acqua venuta dalle stelle, contenevano tutto l'amore che Dio ha sparso sulla terra. Come può la figlia d'un pescatore e di una filatrice saperne più dei Santi del Vangelo, più degli eroi del Santo Sepolcro, più di una madre, come può?
Eppure tu, Thalata, che mi fosti sposa senza anello e senza la benedizione dei Ministri della fede, avevi così tanto amore in te, coi tuoi quindici anni e le tue piccole mani sempre aperte alla carezza, così tanto amore che non basterebbe un libro e tutta la pazienza di mille stampatori a raccontarlo. Per questo ti avevo rapita: io Marco Civran, nobile rampollo d'alto casato veneziano, volevo te e nessun'altra per sposa.
«Ne farai la tua serva, invece. Ben che vada, la tua concubina d'un mese. Poi i capelli biondi e i profumi delle dame veneziane ti condurranno via da lei» aveva detto tua madre, il mattino in cui venni alla tua casupola. Sollevò appena lo sguardo dal telaio, e con un piede continuava a ninnare la culla dove dormiva l'ultimo nato: un ricco straniero ammollito tra gli ozi e gli sprechi non merita più d'un rapido sguardo, pensai, e provai vergogna del mio corsetto ricamato alla moda di Bisanzio, e delle mie scarpe morbide, pagate un ducato d'argento al mercato di Rialto.
E adesso carezzavo i tuoi piedi nudi, Thalata, mia bambina, mio tutto. Ci eravamo rifugiati nella Città dei Morti, l'antica necropoli a pochi passi dal mare, certi che lì non sarebbero venuti a cercarci. Troppe superstizioni, troppe terrifiche leggende legate a quei luoghi di sassi e di pietre intrise di cupe maledizioni, per spingere un manipolo di pescatori a frugare tra i rovi di quella spianata incisa tra gli spogli e l'antico uliveto. Bisognava soltanto attendere l'alba e sarebbe arrivata la nave: il capitano era di Chioggia, amava il vino e le donne, ma ancora di più il tintinnio d'un sacchetto di ducati sul marmo del suo tavolino. Ci si poteva fidare, aveva al collo un chiodo della Santa Croce (regalo d'una badessa), non bestemmiava nemmeno quando era ubriaco, Thalata, è forse di lui che vuoi che ti parli? Thalata, vorrei avere un mantello di lana e una coperta di broccato, vorrei fosse questo il drappo sotto il quale consumare questa notte che sognavo diversa, che speravo fosse un preludio alla certezza di saperti mia... Accostai la borraccia alle tue labbra arse di febbre. Bevesti avidamente, poi: «Raccontami la leggenda degli ulivi, Marco».
Già la sapevi. Era con quella storia, che ti avevo incantata, prendendoti nella mia rete, mio pesciolino dagli occhi saraceni. Ma non c'era che il vento, intorno, su di noi e contro di noi, vento e basta, e il cielo non accennava a schiarire. Ti carezzavo i capelli e tu parevi rasserenata.
«Un tempo - cominciai - gli ulivi erano gli alberi più dritti e forti e belli del mondo conosciuto; così, la notte in cui i soldati vennero ad arrestare Gesù Cristo, non destò meraviglia sentir dire al centurione: "Bisognerà tagliare un ulivo, e farne una croce a cui appendere questo bestemmiatore!". Parlò a voce alta, il romano, così da far capire che chi ha la spada comanda, e chi ha le mani legate dietro la schiena deve solo aspettare il giorno e l'ora per morire. Tutti credettero che fosse il vento, a spettinare le siepi e le fronde, e non fecero caso a quello che reputarono uno stormire appena più sonoro del solito. Invece era la voce degli ulivi».
«Continua, Marco, non ti fermare...».
«Sì, mio amore per sempre, vado avanti. Gli ulivi tremavano come fai tu adesso, si toccavano l'un l'altro per infondersi coraggio, e ripetevano che era una cosa orribile impiegare il legno di uno di loro per il supplizio di un uomo non solo innocente, ma buono: si diceva fosse addirittura il figlio prediletto di Dio! Fu al più giovane che venne l'idea. "Se ci piegassimo, ci torcessimo il più possibile, se i nostri tronchi diventassero gobbi, storti, nodosi, nemmeno il più abile dei falegnami riuscirebbe a ricavare due assi per una croce!". La proposta piacque, parve anzi la sola via d'uscita onorevole; e tutti presero a contorcersi, a chinarsi verso terra e ad avvitarsi su se stessi; si lacerarono cortecce, s'inclinarono paurosamente rami fino a un attimo prima dritti come il pennone d'una galea, e non bastava il passo cadenzato dei soldati a coprire lo scricchiolio del legno ferito e martoriato eppure, Thalata, così incredibilmente felice...».
«Sto piangendo, Marco, ma sono lacrime belle...».
«Pietro ebbe modo di rinnegare tre volte Cristo, prima del cantare del gallo; gli ulivi ci misero lo stesso tempo, per cercare di salvare la vita di un uomo che sapevano giusto. Venne l'alba, e non c'era un solo ulivo dritto in tutto l'orto dei Getzemani e in tutto il mondo conosciuto. Ma non servì. Non bastò».
Bastasse la mia voce, Thalata, a riportare il sangue sulle tue gote bianche, sulle tue labbra nate per i baci e così esangui e sottili, adesso. Conosco una donna, a Venezia, dicono sia una strega, mescola le erbe e ha mille tasche nella veste: in ogni tasca un filtro, una pozione, un rimedio, un medicamento, a me non importa se dorme con Satana e il suo amante ha i piedi di capro e il fetore di Belzebù, lei ti avrebbe guarita, Thalata, lei ti avrebbe ridata ai miei baci...
Non c'è più neanche un rumore. Non ti cercano più. Sono andati alle barche, useranno le lanterne per attirare i pesci e guardarsi dagli scogli. Puoi metterti seduta, adesso, puoi tirare su la testa e appoggiarti sul mio petto, ti va? O preferisci dormire? Manca poco all'alba, se vuoi ti racconto un'altra storia, tu lo sai che non mi mancano le parole, ah quelle no di certo, sorridimi, Thalata, come posso sopportare sulle spalle il peso di tutto questo cielo se tu non mi sorridi?
Thalata? Oh Dio santo, Thalata, Thalata...
Vorrei coprirti d'un lenzuolo di piume, e scegliere per te le conchiglie più bianche e lucenti e con esse segnare i contorni del tuo corpo disteso al mio fianco, così che tutti sappiano dove dorme il mio amore, la mia sposa venuta dal mare, che ha negli occhi i sogni degli ulivi e il mistero della notte, vorrei cercare per te le piume più soffici e la madreperla più lucente, ed ecco l'alba, invece, e mi accorgo che non so più neanche pregare... Posso forse consegnarti alla terra senza un sudario? Alla morte senza carezza? Ti bacio le ciglia, amore per sempre addormentato, e poi la bocca da cui ti volò via l'anima, senza un rumore, come dai fiori se ne va il profumo. E ti prometto che...
 
11 settembre 1998
Oggi mi sono recata a visitare gli scavi archeologici di Egnazia. Un'antica necropoli e i resti d'una città distrutta: niente d'interessante, a dire la verità. Non c'erano altri visitatori, e già stavo per andarmene via, annoiata e delusa, quando uno strano biancore mi attirò sui segni di una tomba apparentemente identica a cento altre. Mi chinai; c'erano molte piume candide e un'infinità di piccolissime conchiglie, bellissime, luminescenti e intatte. Raccolsi una manciata di quell'inatteso bottino; mi meravigliò la leggerezza di quelle piume candide e la perfezione delle conchiglie; nessuna di loro era scheggiata, neanche fossero state deposte lì da pochi minuti o qualche ora al massimo. Nel corso della notte, allora? Mi domandai e tutto mi sembrò strano, incomprensibile. Tornai alla biglietteria, mostrai le piume, le conchiglie, balbettavo, faceva caldo eppure avevo l'impressione di tremare.
La faccia del custode era inespressiva. «Non so che dirle, signorina. Succede. Sono qui da sei anni, ed è già capitato».
«E quando? Per favore, non sia così laconico, non si accorge che per me è importante?». Mi pizzicavano gli occhi, all'improvviso, senza ragione.
«Più o meno in questo periodo, tre anni fa... Arriva qualcuno e mi dice: "Guardi che c'è una tomba tutta bianca". "Ci deve essere un imbecille che si diverte a fare scherzi idioti ai turisti", rispondo io».
«Uno scherzo? E perché? Per attirare l'interesse della stampa, forse? Ma se nessuno ne ha mai fatto parole?». Ero arrabbiata, ma troppo stanca per proseguire la discussione. Gli girai le spalle, tenevo ancora nella mano quell'insolito trofeo. Aprii le dita, piano, e soffiai. Volò via una piuma, poi un'altra, senza un rumore, come dai fiori se ne va il profumo.
Racconto vincitore del 1° Premio al concorso Città di Melegnano, sez. Narrativa
Racconto vincitore del 5° Premio al concorso Marguerite Yourcenar 2000, sez. Narrativa  
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Concorso Marguerite Yourcenar 2000 a sez. narrativa
 
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agg. 3 novembre 2000