Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
 
Carlo Giuffrè grande interprete di Eduardo: "Quando il colto non è capito
dall'incolto la colpa non è di quest'ultimo ma del primo..."
di Adriana Montefameglio
 
 
La voce di Carlo Giuffré al telefono è profonda e bella. Una voce che modula le parole dando a ciascuna di esse una plasticità singolare, e la delicatezza o il vigore che nelle conversazioni quotidiane, tra uno squillo di telefonino e uno sbuffo di stanchezza, tutti noi perdiamo. La voce affascinante e fascinosa di chi ne fa un uso educato e attento, perché sa che essa è strumento privilegiato per la comunicazione di sentimenti ed emozioni prima ancora che di idee. È la stessa voce che da anni incanta le platee dei teatri di mezzo mondo: in questo periodo, è la voce attraverso la quale rivive Luca Cupiello, l'indimenticabile protagonista del Natale di Eduardo De Filippo. Così chiediamo a Carlo Giuffré di raccontarci del "suo" Eduardo: un attore raccontato da un attore, un mezzo senz'altro privilegiato per parlare di teatro, di commedie, di pubblico. E, naturalmente, di voci.
 
C.G. Eduardo... non l'ho frequentato moltissimo ma ho molto studiato le sue opere, la sua attività. Ho anche "rubato" tanto, da Eduardo. E sono riuscito, così, a capire molte cose e ad amare la sua drammaturgia. Tanto che, sul finire di questo secondo millennio, mi pare che una constatazione si imponga. I nostri drammaturghi, gli autori italiani che hanno davvero segnato il millennio, non sono che tre: Goldoni, Pirandello ed Eduardo, in ordine cronologico. Non abbiamo altro. Il teatro che si recita in Italia, se escludiamo questi tre grandi, è un teatro tradotto da altre lingue, da altre culture.
 
A.M. Eppure si è tanto parlato, specie agli inizi della carriera, di Eduardo come autore dialettale...
 
C.G. Vede, bisogna stare attenti quando si parla di teatro scritto in italiano. Perché a rigor di termini un teatro così non esiste. Goldoni scriveva in veneto. Pirandello, dal canto suo, inventa una lingua che ha una struttura siciliana, un po' quello che sta facendo, di questi tempi, Camilleri. Vogliamo guardare più indietro? Ruzante adottò il padovano, Machiavelli il toscano. Di autori che hanno usato la lingua nazionale, se si eccettua qualche nome - penso a un Diego Fabbri, ad esempio - non ce n'è. Tutti hanno usato il dialetto. Ed Eduardo ha preso il suo napoletano e, anche lui, l'ha reinventato, facendone il veicolo per un teatro che esprime tematiche senza tempo.
 
A.M. Lei ha usato un'espressione forte, "senza tempo". È questo, secondo lei, il segreto del teatro di Eduardo, del successo che si ripete identico a distanza di tempo e di luoghi?
 
C.G. Guardi, il grande teatro, quello, per intenderci, di Shakespeare, di Checov, di Moliére, di Ibsen, ha un denominatore comune: nel contesto di racconti realistici affronta temi eterni e sempre attuali che non riguardano il sociale ma l'uomo, la sua dimensione più individuale e intima.
Lo stesso accade nel teatro di Eduardo. Pensi a Natale in casa Cupiello: è un racconto d'ambiente, una storia molto metropolitana. Ma è anche permeata di poesia, sentimenti, vibrazioni ed emozioni, che "vivono" nella storia proprio grazie a quella lingua straordinaria di cui parlavamo prima. Perché Eduardo scrive in una lingua che, paradossalmente, sembra non scritta. È una lingua che nasce nel momento stesso in cui i personaggi vivono i sentimenti, ed è tanto diretta da sembrare frutto, ogni volta, di improvvisazione. Non è mai retorica, letteraria; al contrario, è sempre calda, viva, umana. E proprio per questo è straordinariamente teatrale e può raccontare con tanta immediatezza fatti che riguardano l'uomo, la storia dell'uomo.
 
A.M. Dunque Eduardo autore profondamente umano...
 
C.G. Si diceva prima che ci apprestiamo ad entrare in un nuovo millennio. Benissimo. Ma grazie a Dio non è un marziano, a commuoverci, bensì un piccolo grande uomo come Luca Cupiello. È lui che può ancora darci vibrazioni e grandi emozioni.
 
A.M. Eduardo ha scritto anche molte poesie. Pensa che abbiano la stessa "magia" del teatro?
 
C.G. Fissiamo un punto. Eduardo era un grande, grandissimo teatrante. Al cinema, al contrario, non sfondò mai. Perché il primo piano, al cinema, lui non lo affrontava, lo subiva senza superarlo. Era la macchina da presa che lo disturbava. Ma lei ha mai visto Eduardo in teatro? No, vero? Già, ci vogliono i settantenni come me per ricordarlo sul palco. Ebbene, se si fosse seduta nell'ultima fila lei avrebbe sentito gli occhi di Eduardo, quelli che arrivano dall'anima, fino in grembo. In teatro Eduardo aveva una presenza che arrivava addosso, letteralmente. Un fascino e un carisma come nessun altro. Eduardo, in teatro, era straordinario. Ma le sue poesie sono un'altra cosa. Come dire?, combinata. La sua lingua teatrale è poetica persino nei sospiri, nei lamenti. Ma quando Eduardo scrive poesie è come fosse obbligato, chiuso entro certe forme, i versi, che gli tolgono spontaneità e quindi comprimono la sua vena poetica più autentica. So che tenne anche recital di poesie, ma lì non raggiunse mai le vette che toccò col teatro. Per carità, sono tutte attività collaterali apprezzabili, anche per il loro carattere sperimentale, ma Eduardo sapeva fare, eccome, solo il teatro. Io non credo che ci sia mai stato un attore capace, come lui, di catturare il pubblico e dare, al contempo, una scrittura teatrale così completa, nella quale si fondono elementi umoristici, grotteschi, onirici, drammatici, crepuscolari... tutto, in una parola. Nel teatro di Eduardo c'è tutto. La sua era una personalità intensa e struggente. Ed era quasi un autodidatta, non dimentichiamolo. Ma per fortuna in teatro non servono le culture. Le culture appartengono ad altre attività, alla letteratura. Io dico sempre che quando il colto non è capito dall'incolto la colpa non è di quest'ultimo ma del primo...
 
A.M. Perché non si fa capire...
 
C.G. Esattamente. E questo è un guaio, soprattutto per il teatro italiano. Che nasce, il nostro teatro, come Commedia dell'Arte, e muove i primi passi proprio nel napoletano, tra Capua e Caserta, dando poi esempi notevolissimi anche in Veneto. Ma, dopo, la Commedia dell'Arte si ferma, bloccata dall'arrivo del melodramma. Eppure è ancora lì, nella Commedia dell'Arte, che bisogna cercare per dare linfa al nostro teatro. L'ha fatto Eduardo, che era figlio di Scarpetta, il quale era stato, a sua volta, allievo di Petito... Tutti grandi autori e attori cresciuti nella Commedia e per la Commedia. Ed è quando si fa questo teatro che il pubblico corre, soprattutto oggi. Viviamo tempi in cui si ha bisogno di cose che ci appartengono, perché allontanarsi dalle nostre tradizioni ci fa sentire smarriti, privi di riferimenti. Noi frequentiamo il teatro straniero, ma ci riguarda meno: il dramma delle figlie di Re Lear è meno toccante del dramma dei figli di Filumena Marturano, o di quelli di Luca Cupiello. Quelle sono figlie di re, questi di una prostituta o di un pover'uomo. Ci toccano di più perché ci sono più vicini e familiari, hanno a che fare con la nostra storia più recente, oltre che con problemi senza tempo. Questo, che è anche il teatro che porto in scena da alcuni anni, è quello che chiamo il teatro "caldo", non attraversato da finzioni letterarie o da colti riferimenti: è un teatro diretto, senza impedimenti e senza simbologie complicate da portare alla luce. È un teatro che "arriva" tutto allo spettatore. E infatti ha successo. Come il nostro Natale.
Guardi, siamo già stati due volte all'Eliseo e abbiamo sempre avuto il tutto esaurito. Dopo di noi è andata in scena Fedra, di Racine, con Mariangela Melato. Grandissimo testo e grandissima attrice, ma la folla non era la stessa. E non per bravura mia, per carità. Perché il teatro è la folla, la gente che corre. Altrimenti rimane un fatto isolato, elitario, e il messaggio non arriva, o arriva solo a pochissimi.
 
A.M. Mi piacerebbe ascoltare un suo ricordo di Eduardo uomo, fuori dalle scene.
 
C.G. Sa, a essere sincero io tutta l'umanità di Eduardo la trovo nel teatro. Del suo privato so ben poco, a parte l'aneddotica che è nata intorno a lui. Com'era naturale, dal momento che Eduardo era sarcastico, e molto spiritoso. Mi viene in mente un episodio, ma forse l'ha già sentito. Lo raccontai a Romolo Valli e lui lo scrisse in un suo libro, così ora lo conoscono un po' tutti. Risale ai tempi in cui la Televisione era ancora più burocratizzata di quanto non sia ora. Un giorno un funzionario della Tv telefonò a casa di Eduardo, presentandosi così: "qui parla la televisione". Il maggiordomo, o segretario che fosse, di Eduardo chiedeva "ma chi parla?" e all'altro capo del filo quello niente, continuava imperterrito "qui parla la televisione". Allora Eduardo prese la cornetta e propose garbatamente "aspetti che le passo il frigidaire". Di aneddoti così ce n'è tanti, ma in fondo importano poco. Molto di più importa quel che Eduardo ci ha dato con il teatro. Che è moltissimo, e mi basta per pensare che Eduardo può benissimo stare in paradiso.
 
A.M. In paradiso o nel mondo dei sogni, come tanti suoi personaggi.
 
C.G. In quasi tutta la drammaturgia di Eduardo compare un personaggio che scappa dalla realtà per inseguire i sogni. E questo ci conforta e ci dà gioia, ed è tanto più attuale - a proposito di attualità del teatro di Eduardo - quanto più i tempi diventano malvagi e crudeli, come ora. Io penso che ci sia davvero il bisogno, forte, di ritrovare sentimenti buoni: nel suo Presepe Luca Cupiello vede un microcosmo dove tutto va bene e tutti vivono in armonia. E quando scopre che la realtà è aspramente diversa da quel microcosmo, allora muore. Luca muore quando scopre il dolore... È una morte eroica, la sua. Noi abbiamo recitato il Natale a Zurigo, in lingua tedesca, e un critico ha scritto di Eduardo che "è lo Shakespeare del teatro italiano". Così torniamo ancora una volta al cuore del suo teatro: alla sua lingua. Lingua dell'anima che accompagna le scansioni del cuore, lingua che parla e comunica. Parole che quasi non si sentono perché sono sommerse dal sentimento. Non t'accorgi se gli attori hanno parlato in veneto, in polacco o altro: l'emozione t'è arrivata direttamente, semplicemente.
 
A.M. Questo è il vero teatro?
 
C.G. Il teatro serve a comunicare sensazioni, vibrazioni. E perché la comunicazione funzioni deve essere semplice ma anche nutrita di cultura profonda: cultura umana, non paludata. Se non arrivano sentimenti, è cattivo teatro.
 
Ci salutiamo. Ma prima Giuffrè, con una voce ora diventata mite, mi chiede "è contenta?". E io rispondo solo "sì", sperando che anche la mia voce, per una volta, trasmetta tutte intere le mie sensazioni.
 
Adriana Montefameglio
 
Per leggere un articolo di Olivia Trioschi
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ins22 febbraio 2000