Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
 
Cent'anni fa nasceva Eduardo:
Il teatro e la poesia delle "Maschere vive"
di Olivia Trioschi
Io songo nat''o millenoviciento / e tengo n'anno. / Tu sì d''o sittantotto / e n'anno tiene. / Chillo che dice: 'So arrivato a ciento!' / tene n'anno pur'isso . [...] 'A vita dura n'anno. / Tutto 'o ssupierchio è na supirchiaria.
 
Voilà tout, ecco tutto: saggezza in pillole datata 1931. Autore, Eduardo. Proprio quell'Eduardo, come si fa a sbagliare?, il solo in Italia a non aver avuto più bisogno, da un certo punto in poi, di presentarsi col cognome. Perché lui era Eduardo e basta. Il teatrante, ma anche il poeta. Praticamente sconosciuto in quest'ultima veste, Eduardo ha in realtà iniziato a scrivere poesie da giovane, e non ha più smesso. Ce lo racconta lui stesso: "dopo aver scritto poesie come fanno più o meno tutti i ragazzi, quest'attività divenne per me un aiuto durante la stesura delle opere teatrali. [...] A poco a poco ci ho preso gusto e ora scrivo poesie anche indipendentemente dalle commedie". Sono poesie dialettali nelle quali chi conosce anche solo un poco il teatro di Eduardo ritrova una certa aria di famiglia per il ricorrere degli stessi e degli stessi motivi: le strade di Napoli, la folla di personaggi variamente umili che le anima, la costante attenzione per la società umana con le sue contraddizioni e le sue ingiustizie; e che le poesie, per Eduardo, non fossero esclusivamente un passatempo individuale è testimoniato anche dal fatto che, specialmente negli ultimi anni della sua lunga vita, Eduardo amava recitarle, non solo agli amici, nel salotto di casa; spesso, in particolare quando si mobilitava per uno dei drammi umani che non lo lasciavano mai indifferente, organizzava spettacoli in cui intratteneva il pubblico con monologhi e poesie: tra gli ultimi, quelli per raccogliere fondi da destinare alle vittime del terremoto che nel 1980 devastò l'Irpinia.
L'anno dopo Pertini lo nominò senatore a vita in sostituzione di Eugenio Montale. E lui disse "Parlerò col Presidente dei terremotati; il mio primo atto di senatore sarà quello di interessarmi a loro". Il secondo fu un'interpellanza al ministro della Giustizia sulla situazione del Filangieri, il carcere minorile di Napoli. Poi andò a trovarli, i ragazzi del carcere, e non era la prima volta. "Ai ragazzi bisogna dare fiducia" soleva ripetere.
Buonismo? Paternalismo? Le visite ai carcerati sono un must per le celebrità e per i politici in campagna elettorale. Per Eduardo no, lui ci credeva. Credeva nell'impegno, soprattutto in quello individuale, e difatti non smise mai di impegnarsi: da quando, subito dopo la guerra (la seconda), investì fino all'ultimo soldo per acquistare e ricostruire il teatro San Ferdinando di Napoli, distrutto da una bomba nel 1943. Perché voleva farne il luogo della rinascita della città e allo stesso tempo un vivaio di commedie e attori che irradiasse nuova energia a tutto lo stanco panorama del teatro italiano. Teatro e vita, per Eduardo, erano la stessa cosa. L'uno non poteva esistere senza l'altra, e viceversa. Ed Eduardo non poteva vivere senza il teatro: nacque dentro il teatro, cento anni fa, e si può dire che lì morì, mentre scriveva la traduzione in napoletano della Tempesta di Shakespeare. Voleva farne uno spettacolo di marionette, ma non ci riuscì.
"Sulle tavole cominciai a muovere i primi passi, a balbettare le prime parole, a storpiare i nomi dei protagonisti delle tragedie che recitava mio padre, e ad affrontare le prime particine, il primo ruolo importante, e a concepire finalmente la prima incertezza, il primo dubbio su quello che sarebbe stato il mio avvenire [...]. Quando cammino per la strada e mi capita di battere due o tre volte il piede per terra perché mi si è attaccato qualcosa sotto la scarpa, mi sorprende sempre il fatto che quei colpi battuti non producono lo stesso rumore di quando batto il piede sulle tavole di un palcoscenico; se tocco con le mani il muro di un palazzo, un cancello di ferro, una statua di marmo, una quercia secolare, lo faccio sempre con estrema delicatezza e con la sensazione di avvertire sotto le dita la superficie della carta o della tela dipinta". Non sono parole di Eduardo; o meglio, sono quelle che mette in bocca a Oreste Campese, lo squattrinato e nobile capocomico dell'Arte della commedia.
Quanto c'è di autobiografico? Tutto. Eduardo, infatti, era figlio d'arte. E quale arte: il padre era Eduardo Scarpetta, celebre attore e autore di commedie tra cui Miseria e nobiltà, tanto per citare il titolo più noto. Ma Scarpetta non diede il nome all'omonimo figlio, né ai suoi due fratelli Peppino e Titina: perché erano illegittimi nati dalla relazione con Luisa De Filippo, nipote della moglie. Eduardo si ricorderà di questa sua condizione in due commedie, Filumena Marturano e De Pretore Vincenzo, nelle quali denuncia l'illegittimità come ingiustizia sociale. Ma questa è storia di poi. Intanto il piccolo Eduardo, nato a Napoli il 24 maggio 1900 e registrato col cognome della madre, viene seguito, più o meno a distanza, dal padre. Il debutto in palcoscenico, nella compagnia scarpettiana, avviene a quattro anni. Il teatro è il Valle, a Roma. Poi Eduardo comincia le scuole, ma si dimostra studente incostante e svogliato: "Gentile signorina - scriveva Scarpetta alla maestra - quando il ragazzo è irrequieto e non fa il suo dovere, vi prego di scrivere a me direttamente; io provvederò". Laconico e, si intuisce, certo non tenero, Eduardo padre. Aveva un metodo di studio del tutto particolare: "mi teneva legato due ore al giorno su una sedia costringendomi a riscrivere le commedie degli altri e le sue" ricordava Eduardo figlio. Il quale, diventato a sua volta attore, autore e padre, non fu certo più morbido. L'aneddotica, in questo senso, è vastissima e nutrita di testimonianze di attrici e attori che ricordano crisi isteriche, pianti, fughe dal palcoscenico. Lavorare con Eduardo non era facile, e ancor meno per chi era legato a lui da legami di parentela. Anche al figlio Luca non venne risparmiata la gavetta, cosa che del resto Eduardo aveva sperimentato sulla propria pelle prima di lui.
A quattordici anni, abbandonati definitivamente gli studi (è del 1913 la fuga, insieme al fratello Peppino, dal collegio dove li aveva iscritti il padre) entrò nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta con i compiti più vari: servire il caffè nei camerini, trovare il materiale di scena, fare il suggeritore... e recitare, ovviamente. Come comparsa o in piccole parti, ma sempre più spesso con ruoli di primo piano. Tanto che a vent'anni aveva già raggiunto una certa notorietà che Vincenzo "doveva tollerare". Già, perché successo voleva dire incasso, e l'incasso era fondamentale per la sopravvivenza della compagnia stessa: questo, cioè il problema delle difficoltà economiche legate all'attività teatrale, era una questione che Eduardo sentiva tanto da dedicargli un'intera opera, L'arte della commedia, più svariati interventi pubblici e lettere aperte. Perché in effetti il pubblico, quello contemporaneo soprattutto, ha un po' quest'idea degli attori come di personaggi sofisticati ed eterei, che lavorano per divertimento e intanto diventano ricchissimi. E no, ci raccontava Eduardo, guardate qua: i suoi personaggi di teatro nel teatro (Gennaro, Sik Sik, Oreste Campese, l'equivoco mago Otto Marvuglia) sono tutti poveracci, esperti nell'arte dell'arrangiarsi alla meno peggio, capocomici di compagnie dove mettere insieme pranzo e cena è un problema e lo spettacolo viene allestito, quando va bene, in squallidi teatri di periferia. Una vita dura, di fatiche e spesso di fame. Ma il teatro è così: "perché non deve avere fini di lucro? - polemizzava Eduardo nel 1980 con gli statuti del teatro pubblico, dove è inserita l'espressione 'l'Ente non ha fini di lucro' - Il teatro si fa sulla propria pelle e si deve pagare con la propria pelle. Il teatro deve rischiare e deve rendere. Abolire il fine di lucro perché il teatro è pagato con il pubblico denaro significa abolire il rischio, l'iniziativa, la responsabilità e la tensione dell'impatto col pubblico".
Una cosa certo si può dire: Eduardo amava parlare chiaro: "Io chesto tengo: / tengo 'o pparlà nfaccia. / Pure si m'aggia fa nemico 'e Ddio / e me trovo cu i 'isso' / ffaccia a ffaccia / nfaccia lle dico chello c'aggia dì [...] Nuie vulimmo ll'aria fresca e pura / celeste e mbarzamata [...]". È una poesia del 1971. Ovviamente scritta in napoletano, come tutte le altre e come tante commedie.
Il famoso dialetto di Eduardo. Che nelle commedie, col tempo, subì una metamorfosi straordinaria: da farsesco e naturalistico, volto cioè a far ridere il pubblico riproducendo il più fedelmente possibile la parlata degli ambienti napoletani umili e piccolo-borghesi, attraverso un'intensa sperimentazione, divenne una lingua espressiva, viva, adatta a rendere con immediatezza stati d'animo ed emozioni dei personaggi o particolari situazioni. Una lingua, dunque, che non è né dialetto né italiano ma una geniale miscela tra i due, miscela che Eduardo utilizzava con maestria piegandola alle sue esigenze di attore e autore: sicché i suoi memorabili personaggi, parlando, non si limitano a "imitare" la realtà ma diventano realtà essi stessi, le tante facce di un mondo che Eduardo mette in scena senza pietà, ma proprio per questo con grande compassione (nel senso etimologico della parola "patire insieme").
Nella poesia questa metamorfosi non c'è. Salvo qualche rarissimo caso, Eduardo continuò a scrivere versi in dialetto, la sua lingua madre, anche dopo il Sessanta, quando ormai nel teatro aveva conseguito risultati eccezionali con le sue invenzioni linguistiche. Come se avesse voluto conservare una sorta di area protetta, un luogo privilegiato dove attingere al serbatoio del vernacolo per "saggiarne" la tenuta, in termini di aderenza al parlato quotidiano, e per conservare un legame profondo con la terra che, in virtù del trasferimento a Roma, aveva quasi completamente "abbandonato".
Eduardo e Napoli ebbero un rapporto che qualcuno ha definito di amore e odio, e probabilmente non è un'osservazione errata. Eduardo mise in scena una Napoli derelitta e misera, depredata da invasori esterni e dai suoi stessi abitanti, cosa che suscitò sconcerto ma anche le ovazioni con cui, per fare un esempio, si concluse la prima di Napoli milionaria! nel 1944: "quando dissi la battuta finale, deve passare la notte, e scese il pesante velario, ci fu silenzio ancora per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso e anche un pianto irrefrenabile [...] tutti piangevano e anch'io piangevo. Io avevo detto il dolore di tutti". Era questo il ricordo, emozionante, di quella sera. D'altra parte, la Napoli di Eduardo era in qualche modo un pretesto, per Eduardo, per denunciare un certo tipo di umanità e di società che non era certo solo napoletana. Tanto che, negli anni successivi, tante commedie non furono neppure più ambientate nei vicoli o nei bassi della città ma in altri luoghi.
La Napoli folkloristica, bozzettistica - il vero "Paese di Pulcinella", non a caso titolo di una raccolta - si ritrova invece, tutta intera, nelle poesie. Che non hanno certo la profondità e l'ampiezza delle tematiche affrontate nelle commedie, né raggiungono le vette di lirismo di alcune celebri scene fatte di poche battute e di silenzi carichi di senso (a proposito dei quali si è giustamente parlato di "poetica del silenzio"), ma conservano, nei casi migliori, la straordinaria capacità di Eduardo di partire dall'infinitamente piccolo per arrivare all'infinitamente grande, e testimoniano della sua inesauribile volontà di elaborazione e osservazione. Ricchissimi di spunti e macchiette sono, infatti, i piccoli "quadri" napoletani del "Paese di Pulcinella": si ritrovano personaggi destinati a grande fortuna sul palcoscenico, come la battagliera Amalia di Napoli Milionaria!, alle prese, anche nei versi, con un marito inconcludente, e dialoghi tra minuti personaggi che tirano a campare facendosi la giacca nuova coi tavuti (le tombe) di gambardine dei soldati americani; e la storpiatura della parola non è solo comica, come ben sa chi ha visto qualche commedia di Eduardo. Quando i suoi personaggi si sforzano di parlare "forbito", sempre con risultati disastrosi, quella è la spia di qualcos'altro: chi non ricorda l'incespicare di Luca Cupiello sulla fatidica frase "ci riuniamo", che proprio non gli viene e che deve infine sostituire con "vengono e mangiamo insieme?" O donna Amalia che si schermisce dicendo "io non ci guadambio neanche niente" da quel mercato nero con cui prima sbarca il lunario e poi arricchisce perdendo se stessa e la sua famiglia?
Vivaio di situazioni, le poesie di Eduardo sono anche luogo di denuncia. "Tutto ha inizio, sempre - disse Eduardo quando gli venne consegnato il premio Feltrinelli per il teatro - da uno stimolo emotivo: reazione a un'ingiustizia, sdegno per l'ipocrisia mia e altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli. In generale, se un'idea non ha significato o utilità sociali non mi interessa lavorarci sopra". Da questa considerazione nasceva tutto il teatro di Eduardo, sia quello dei Giorni pari che, ancor più, quello dei Giorni Dispari. Giorni, questi ultimi, della caduta delle illusioni - quelle che avevano nutrito i Giorni pari - della denuncia che si fa via via più disperata: è noto che in una delle ultime redazioni di Napoli milionaria! Eduardo lasciò cadere la celebre battuta finale: la notte non sarebbe più passata. I suoi personaggi diventano sempre più soli, chiusi in un inferno familiare e sociale di incomunicabilità; il consumismo, l'ipocrisia e la corruzione hanno roso alla radice la possibilità di vivere insieme. C'è chi si finge muto, o si esprime solo con i petardi, perché tanto nessuno ascolta e capisce; chi si fa curare dai veterinari, che almeno non stordiscono i malati con inutili verbosità; chi muore immerso nel sogno solipsistico di "un mondo un po' meno rotondo e un po' più quadrato". Il mondo sarà sempre tondo, ovvero non sarà mai regolato da una giustizia razionale, quadrata. Ciò che tristemente Eduardo constatava in alcuni sonetti scritti durante l'epidemia di colera che colpì Napoli all'inizio degli anni Settanta, dove stigmatizzava gli equivoci rapporti tra Nord e Sud e tra uomo e natura. L'uomo getta schifezze nel mare, e solo di queste la povera imputata cozza si può nutrire: così lei le rimanda al mittente, e allo stesso modo il Meridione esporta al Nord quello che ha ricevuto. Corruzione della società e corruzione dell'individuo: i due poli della riflessione di Eduardo, le sue bestie nere. Chi non si fa corrompere è condannato all'isolamento. Ma sono pochi, molto pochi; perché la società con le sue contraddizioni porta quasi inevitabilmente alla perdita dell'integrità morale e della dignità: i guagliuncielle scrivono tutti allo stesso modo, recita una poesia, ma poi studiano per cambiarsi la calligrafia: ma perché? "Chi cagne è pè superbia, t'ho dich'i'..." è la sconsolata risposta; e dopo che sono cambiati, i guagliuncielle rincorrono la sedia - impagliata o imbottita di velluto - il giocattolo dei piccerille grosse.
A vent'anni, quando ebbe inizio la sua fortuna di attore - il successo come autore è di dieci anni dopo, con il capolavoro Natale in casa Cupiello - Eduardo era "magro come una canna da zucchero, due orecchie a sventola da fare impressione, due occhi grandi, allampanati, espressivissimi: A guardarlo tutto, testa, gambe e corpo era di una comicità irresistibile". Felicissimo ritratto "schizzato" da Peppino, il fratello amato-odiato, anche lui. Ritratto per tutte le stagioni, verrebbe da dire: di quell'aria stralunata e quegli occhi "espressivissimi" Eduardo fece la cifra della sua recitazione, una recitazione di tale maestria che pareva non essere neppure tale. Eduardo, sulle scene, non recitava: era, semplicemente. Si calava così profondamente nella parte da respirare e vivere come il personaggio stesso, conferendogli uno spessore e una vitalità senza pari. E restando immortale - osiamo? - proprio in quei soggetti, sognatori, isolati, esclusi, immersi in un proprio mondo "un po' meno rotondo e un po' più quadrato", grazie ai quali poteva esaltare sguardi e silenzi. Silenzi, soprattutto, che amplificavano le parole dando loro respiro universale. È stato acutamente notato che il suo teatro, accostato frequentemente al suo esordio a Pirandello, si discosta al contrario da quello del grande siciliano perché è fatto di maschere vive e non nude: quello che cercava Eduardo era l'integrità dell'io, non la sua frantumazione; la solidarietà anche quando tutto sembra impedirlo, non la chiusura. Mentre Pirandello smaschera, Eduardo denuncia, senza posa.
Quei silenzi e quelle pause che determinavano eco vaste e stupefatte e lo resero inimitabile Eduardo le cercava anche nella poesia: lì si possono trovare i momenti squisitamente privati che forse rappresentavano i luoghi privilegiati della riflessione e del ricordo. Lì si può vedere Eduardo alla finestra - "aprire la finestra e guardare" è uno dei gesti più ricorrenti nelle liriche - che osserva i colombi sul terrazzo, i panni stesi, le navi al porto, il mare; e ognuna di queste cose viene osservata minutamente, isolata ed enfatizzata attraverso pause e sospensioni che sembrano quelle di un Luca Cupiello o di un Gennaro Jovine: "'O mare nun accide. / 'O mare è mmare, / e nun 'o sape ca te fa paura". Versi e parole nitidi e semplici, lucidati dalla capacità di Eduardo di riconoscere che la complicazione è dote esclusivamente umana che non trova riscontro in un mondo esterno che è quello che è, e sa quel che deve fare: "Io quanno 'o sento, / specialmente 'e notte, nun è ca dico: ''O mare fa paura' / ma dico: / ''O mare sta facenno 'o mare'". Il mare fa il mare, così come il nocciolo d'oliva fa il nocciolo d'oliva, e mette radici: è l'uomo che non capisce, si affanna, accusa il mare di uccidere ma allo stesso tempo ferisce la pianta dell'olivo perché vuole piegarla ai suoi bisogni. Lì, sempre nelle poesie, si possono cogliere frammenti della biografia di Eduardo, quei frammenti che restavano ovviamente "fuori" dal teatro: ricordi della madre e della sorella Titina, tante volte sua compagna sulle scene e insuperata interprete di Filumena Marturano; il pianto per la figlia Luisella, morta ancora bambina all'inizio degli anni Sessanta; la voce del padre, "forte e lontana".
Anche il nodo del teatro di Eduardo, quel conflitto tra individuo e società che rende centrale il problema della comunicazione, e più spesso l'impossibilità di una reale comunicazione, tra io e gli altri, trova nella poesia la sua veste più semplice. Fin dalle prime commedie, valga per tutte l'esempio di Ditegli sempre di sì, Eduardo insiste sulla necessità di ritrovare un linguaggio efficace e vero, spogliato di sottintesi, eufemismi, giri di parole: "C'è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?" ripete Michele, il pazzo pronto a tagliare la testa dello studente Luigi in cui crede di aver riconosciuto, senza ombra di dubbio, un folle; così come Luca Cupiello, mentre la moglie e la figlia parlottano tra loro, conclude sconsolato "niente, niente, è un altro linguaggio". Parole che ingannano e parole autentiche: questa la dicotomia del linguaggio, il punto di partenza di tanti drammi. Ed ecco la "versione" poetica: "E tu saje ca st'arte è l'arte / ca se sceglie 'o traditore / pecchè l'ommo senza core / fa furtuna c'' o parlà. / Io, gnorsì, pure so chillo / c'ha liggiuto e s'è applicato; / c''o mestiere s'ha mparato / e se serve d''o parlà... / Se capisce ca parlanno / nuoccio, mbroglio... e faccio 'ammore. / Ma però tengo nu core / e cu te, che vuò parlà!". L'uomo senza cuore fa fortuna con le parole, ma l'uomo che ha cuore parla davvero. Spicciola, come conclusione, ma significativa di tutta l'esperienza artistica di Eduardo: "le idee mi nascono nel cuore prima che nel cervello" dichiarava, senza timore di apparire banale. Se lo poteva permettere: una vita intera stava a testimoniare cosa avesse significato per lui, vivere con il cuore.
"Il futuro non dipende dalle autorità - disse una volta ai ragazzi del Filangieri - ma anche da voi, soprattutto dalla vostra certezza di avere una coscienza, qualcosa che vi parla. E questo qualcosa ve lo dovete scegliere voi stessi, non ve lo può imporre nessuno". Responsabilità individuale, dunque, era per Eduardo la parola chiave. Sulle scene e nella vita. Quando divenne professore di teatro, all'università La Sapienza di Roma, i ragazzi gli chiedevano di spiegare, lo imploravano di spiegare come si fa a fare teatro. Non diede mai una risposta: proponeva soggetti, "buttava lì" qualche abbozzo di trama, e poi lasciava che fossero gli studenti a produrre, a creare. Come sempre, Eduardo non poteva teorizzare ma doveva lavorare su materiale umano, personaggi che da carta che erano diventassero carne e sangue. Quando recitava a Roma, durante gli ultimi convulsi anni di guerra, devolveva il ricavato a famiglie ebree; e quando decise di acquistare il San Ferdinando di Napoli, e ben presto si rese conto di non avere abbastanza soldi per completarne la ristrutturazione, si prestò a recitare in film commerciali per finanziare il suo progetto. Responsabilità individuale, per l'appunto. La lezione più severa e importante di tutta la vita di Eduardo, attore e poeta senza maschera.
 
Olivia Trioschi
 
 
 

Per leggere l'intervista a Carlo Giuffré di Adriana Montefameglio

Per leggere un articolo di Olivia Trioschi
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ins 4 maggio 2000