-
- ultimi
versi e basta
-
- Al mio
paese
-
- Sempre,
sull'onde
- nostalgiche
dei
- cari ricordi
spiri
- tu l'aria dei
carmi
- all'immenso
mio
- cuor di
fanciullo,
- di capre
paese
- e di
zappe,
- ove di
fischi
- i treni non
empiono
- gli uditi,
né odori
- salmastri
- giungon dal
mare:
- via del
Vento,
- passeggier
girovago.
-
- Dal campanil
della
- tua
chiesa
- al sommo
quasi
- (ove a
picchiar felice
- i bronzi
sacri
- fanciulletto
andavo)
- vidi i verdi
colli
- primi e
valle:
- e da questi
luoghi
- (del morto me
del vento
- amico) del
campanòn
- vedea nei
dì festivi
- nell'immensa
bocca
- la ferrea
lingua
- per rintocchi
sonori
- al ciel
parlare.
-
- E pur tu nei
vecchi
- muri allegri
passeri
- avevi (e
vocieri sciami
- per l'aria
volavano)
- cui Primavera
in bocca
- grilli
metteva
- a trar musica
vivace,
- onde
deliziar
- del figlio
tuo
- ultimi tardi
i risvegli
- e i sogni nel
cuor.
-
-
- XX
secolo
Atomiche
armi,
civiltà
superbe, lunari
sonde e
venusiane
e missili,
spaziali
navi e santo
papa:
religion
cadente
e fame, fame,
fame, fame!
Ecco un bel
secolo
incosciente
ch'io d'anni
già
carico e di lutti
andare
incontro al metafisico
sepolcro
delle ore vedo;
ove tutte
remote sono ère
d'immanenti
cose madri,
e delle meno
antiche
epoche, cui i
prediletti
furon figli
gli atavi
miei e ignoti
all'uomo
d'oggi tutti,
il morto tempo
indisturbato
giace; e dei miei
cari amici i
vecchi padri
vedo su la
funerea via
andar con
esso, e non il mio,
già da
più lustri estinto.
Ahi! pur io
già m'appresso
a questa via
onde passa
il pensier
mio incessante;
e sempre
più, il cuor mio
ostinato,
prole al Sole
nega,
perché io vinca, unico
modo, e sol
d'altri la morte
e della vita
i guai.
Purtroppo
sol chi non
nasce
fugge l'avide
mani
dell'antica
Morte,
che tutto e
ognuno,
con frequenti
viaggi,
nel
segretissimo
suo ostello
porta!
E
serberà la Morte
d'ogni cosa e
uomo morto
il nome,
allor che stanca
la Terra a
generar peccati
e lai
all'uman genere,
nell'universo
probabilmente
vagherà
dissolta.
Ma forse un
giorno
questa madre
Terra
lungi per suo
divago
andrà
dal Sole sposo,
e in gelida
fascia e in grande
buio, di sua
letargica vita
vivente,
sarà di per sé memore
fors'unica
generatrice di vite,
per cui
già d'insondabil tempo
i mortali si
tramandano
gli spirti
donde le guerre
e danzano sui
sogni
candidi di
bella Pace,
e l'Uomo e la
sua mano
e il grande
senno intessono
incompiuta
ognora
al postero la
bella Storia.
Tu non
udrai
di pargoletti
miei
i vagiti
primi,
o paterno mio
Secolo!
né
sentirai di lor vita
il pianto cui
d'antichi
tempi il dio
Dolor si nutre.
Invano la mia
vecchia madre
morendo
attenderà nipoti:
né
guerrier forzato,
né
tiranno ardito o servo
nascerà
dal mio volere.
I raggi pii
del Sole
cercheranno
invano
i non nati
figli
a illuminar
di vivida
luce i lor
vergini occhi,
perché
vedali colei
che felice li
fecondava
nel suo
grembo materno
e, i mesi e i
giorni
annoverando,
li cresceva.
Forte la
Natura
(invincibile
matrigna
di miserevoli
esseri
e infiniti)
nel misterioso
suo intento
offesa,
porgendo ad
asìaco macaco
o d'Africa
antropomorfo
i dolcissimi
suoi frutti,
raccomanderà
ad esso
la fiaccola
mia di questa
passeggiera
vita.
E
morrà per sempre questo
sangue, e
così questo
mio ribelle
cuore.
Ma fino a
quando la rotante
intorno al
Sole Palla
viaggerà
sull'aerea via
(i mari e i
monti tutti
e gli animali
e l'uomo
capitano e le
sue dame seco
a spasso nel
ciel portando)
i del buio
naviganti
Posteri
vedran dell'ombre
del sole i
gioghi quali
mute danze,
ove
encomiabil
Zeffiro
è
maestro; marciranno
l'enfiate
carogne
di caligine
prede ove
non corvo,
non marabù,
non famelica
jena,
né
avvoltoio o sciacallo
avrà
l'invito a l'aperta
mensa
d'orribil pasto
che, con di
lezzo pregna
aria
chiamando, offre
ai suoi
selvaggi figli
Natura; i
miti pastori
canteranno
appo gli armenti
e più
forte palpiteranno
lor nei petti
i cuori
quando,
latrando intorno
a' ricci i
lor fidi
festosi
scodinzoleranno;
l'avide genti
ancora
impazziranno
a conclusion dei
fallimenti, e
Tirannia
e Odio sempre
vivranno
a provocar le
lotte agli
uomini
affinché essi
non s'abbian
tempo
a meditar su
l'inutilità
d'ogni vita.
Ma a l'armonioso
coro di vita
mancheranno
le dome
cavalle di bradi
puledri
madri,
che
già il moderno
uomo,
dell'antico aurato
cocchio omai
privo
e
dell'aratro, solo
a fornir
beccai nudre
il cavallo.
Né più nell'aria
soffiando il
gentil Zeffiro
scambia agli
equini uditi
i tremuli
nitriti
che gioconda
fean e cara
al rude uomo
la campagna.
L'usignol
sarà, sagace;
e, tornato
alla natale
valle, nel
dolce sambuco
in bianchi
ombrelli
fior
fischiando, ridesterà
il ramarro
dal letargo,
perché
esso un giorno,
movendo il
passo rumoroso
nella fratta
arsiccia,
disvierà
la mira dai pennuti
al giovin
tirator di fionda,
scalzo
monello
del villaggio
abitator.
Oggi, al
suonar mio
del
trentennio morto,
a ben scrutar
dei figli tuoi
nei pregi,
ovunque l'occhio
lacrimoso io
meni poeta
non scorgo in
sì vaste
terre, o
Secol, che dei giorni
tuoi ultimo
corso l'umane
mosse a
poetar s'accinga.
Odo
però di spensierato
riso un
clamor di gioie
che nei nuovi
palazzi
canta un
passeggiero inno.
Ivi dimora ha
il dotto
e la mondana;
ivi
il fanciullo
beato
ignaro cresce
al ministero
grato, ove
del padre
scaltrezza e
la fortuna
posseggono
già ora
il
tramandabil seggio:
ivi la balia
allatta
un pargolo al
gioco
assente con
il sen materno.
In queste
umiliatrici stanze
v'entrai in
veste di barbiere,
e vidi il
maggiordomo fare
inchini a
mille al suo
commendatore;
e i servi
vidi, quali
zelanti,
mostravan
dell'uomo la nullità.
Ma spariti al
mio guardo
i servi,
miravo lucenti
cose e
artistiche
e ordinati
libri e belli
in un scaffal
pregiato:
e il cuor mi
gioìa nel petto
pel vano
all'angol nello scaffale.
Di
nullità ti cibi, e tenerello,
pensai;
battimi pur festoso
in petto che
certo avrai,
o misero, il
dono che sogni.
E il grazie
astieni al pingue
uom che te
non loda s'anche
i versi aduna
in biblioteca:
a ornare il
tutto ei gode;
né a'
librai porgilo
o ad editori
che a gloria
ambir non
sanno: i derisori
di Mecenate
il grande
che in Roma
antica
di
signorilità gettava
nell'arte un
seme eterno,
premi
largendo a puri
estri a
gloria eletti.
Son del
Calcio essi i mecenati!
Ma se del
Postero
la
città si crea
già
nuova e nuovo il vitto,
e di
velocità infinita
il cocchio
ch'ei
recherà
da Terra
a Marte e a
Giove
e sulla Luna
in cielo,
perché
poeta non nasce
a pinger co'
versi
una tela
bella
a vergin
nome
Novecento?
Così,
par d'uomo,
stancatasi
Natura,
affidato a
terzi
l'arduo
compito,
più
non cura l'arte?
Pietà
mi desti, o Postero
lettore. Ad
antiche fonti
un dì
il tuo spirito recherai
a dissetar
col suon del verso,
ov'io passai
coi labbri avidi
su secche
bave che ivi lasciarono
i fatati da
Nausea e Schifo.
E ne nascea
la gloria a onta
delle
ricchezze ad essi avverse.
Così
si immortalavano i nomi.
Unico premio
che Poesia rende
ai poveri
vati, sacri morti.
Ma questi
nobili membri d'eletta
famiglia, che
sì quetati
dormon gli
spiriti un tempo alteri,
quando
nell'iperuranio regno,
l'angelo lor
spedito, largendo
scelta
offriva dalla destra palma
dell'or
terren la via e un cuore
tranquillo e
duro, mentre dalla
mancina il
sentier petroso
che a Gloria
conduce e un cuore
ramingo e
solo e di pietà imbevuto
ciascuno a
suo turno, ghermendo
i miseri doni
che la sinistra
cari
stringea, al mesto nunzio
dignitoso
rispondea: "D'ACHILLE,
MORTAL
PRIMIERO CHE GLORIA
RAGGIUNSE CON
VITALI DI' PAGANDO,
DELL'UCCISOR
D'ETTOR DI TROIA
E DI PATROCLO
AMICO SCELGO LA VIA
CHE' NE'
LONGEVA VITA, NE' SACCHI
COLMI D'ORO
FELICE L'UOMO FANNO.
MA CARA M'E'
SI' FAMA AL NOME
CH'IL MONDO
SUONERA' CON VARIO
FAVELLAR, E,
vedendo il nunzio
tacito
udente, aggiungea radioso:
AL TUO SIGNOR
DIRAI CH'INFRA
BRAVI IN
TERRA MEDIO ESSER NON PAGA
IL MIO
SPIRITO; MA TAL CH'OGNUNO
L'ESTRO
ADDITI QUANDO SPICCATO
IL VOLO
L'OPRA AVRA': E NE RINTRONI
SI' LUNGO
L'ECO DEL SUON DEL NOME,
CHE' AL DOLCE
MIO RITORNO
GODER NE
POSSA ETERNO.
Il capo
movendo in dissensoso
gesto, queto
il servo s'allontanava.
"O Signor mio
possente", al sire
giunto dicea,
"questi poeti
son pazzi,
pazzi, pazzi". E a lui
commiserando
l'iddio: "Beato
tu sei
ché poeti non intendi".
E già
non spero o Posteri,
che ancora
ignoto un grembo,
vi
porterà alla luce un triste,
ameno, pien
di senno; che verso
oggi non
nasce forte a dire:
A ME FA PUZZA
IN TASCA IL SOLDO!
Pur
anelerà l'uom di poi
portar
l'orecchio ai freschi versi
d'aurea
collana ultimo anello.
Ah sì,
pur domani un giudice
dirà a
quest'era mia nefanda:
RUBANDO
L'UOMO VISSE E CON CAMBIALI.
Mille armonie
eterne vivono
nelle leggi
che Natura all'uomo
adduceva
ornando orizzonti
e senni; e in
fascino ancor risplendono
ov'io
prostrato nacqui ai piedi
d'un Supremo.
E pio mi fanno
i remoti
astri a illuminare
del mar la
volta nati
ed i pianeti
oscuri Mondi.
Ma quando
penso all'armonia
dei senni che
fan dell'uomo
la famiglia,
e a questo viver vario
d'animali e
vegetale regno,
immobile qual
sono e muto
al meditare
intendo, la fronte
in gesto
privo mi segno.
E non
fors'ateo son'io,
se d'ogni
vita il fin mi chieggo?
Non so
fors'io che Iddio
padre non
ebbe e nascita giammai?
Arcano, e
più, è questo
in ciel
nascosto Iddio,
affascinante
e nulla cui
ogni uom di
senno traccia
brama. Arcana
dell'uomo
è la
speranza che pur morta
di lui la
carne e incenerite
l'ossa e la
sua mente,
riviva eterno
egli o in aria
o di remota
terra in seno
o in una
stella: oppur nel flutto
lezzo
dell'inferno. Arcano
è il
fine per cui al Sole
le vite
eterne vengono
e nelle
tenebre mute tornano.
Così
tu al ragionar mi porti,
o padre mio
Secolo; ché taluni
figli atei
non facesti,
e religiosi
neppur si sanno.
E di questi
spiriti ribelli
Ugo fece
parte; ché cantando
alle obliate
sepolture
e del
sacrario italo glorioso
il bello,
volgea all'eterno
il senno e a
Iddio; ma poi
che l'estro
dentro gli dormia
(ove della
gloria il sogno
tace e di
pura material vita
ardono i
sensi) aborriva certo
i Numi,
l'ire, e i lor castighi.
E serbi il
Tempo all'uomo
il mistico
mistero
e il pensier
vario, ove
del Cielo al
beare risorga
la speranza
nei ribelli figli
erranti al
dogma di Cristo.
E solo ai
ribelli nati,
o Foscolo,
serba il Fato
gloria
imperitura, se lungo
il terreno
cammino
un umanista
in tempo un libro
addita a chi
ignorante
e genio vive.
Ma talora
il Grande
pascendo agnelli
invecchia, e
nella nuda gleba,
di squallidi
natali desolata
madre, ignaro
muore: e se pur pria
che l'almo
Sol saluti,
un ciarliero
labbro gli narri
a caso un
fatto eterno,
ei
confonderà certo, amato
mio, la
gloria alla ricchezza.
Io ti scoprii
per fato
e il Dante
prima ed altri.
E forse
perché fatale
che l'egoista
gloria,
che imponeva
il viver forzato
al tuo stanco
corpo,
raccogliesse
la mia lode,
canto. Di
mille maestri
il superbo
fosti a Gabriele
che pure
d'amori n'ebbe
mille e prode
fu nell'armi,
in lettere, e
tra i borghesi:
e del tempo
fu contento
e degli
amici. O egregia cosa,
o Maestro
miro! La bella
Terra che in
mar distende
il corpo
snello e il capo posa
grosso sul
guancial di vari
popoli fatto,
che vantò infiniti
geni e pure
del tuo bel nome
imbandierata
gode, s'anche
le reliquie
tue sacre conserva,
agli amati
figli non ha mutato
il
trattamento antico; madre
Natura per
essi un patto
stipulò
crudele onde pel poeta
i litigi
ovunque han calamita:
e tenebroso
è il campo ove
d'armi privi
ei sempre pugna.
Ma te certo
il cuor di gioia
s'empia quel
giorno quando
Calliope
cortese ti fece
dell'Indovin
la profezia.
Io il so. Tu
quel dì nel cielo
volasti con
la Musa alata
in visita
alle celesti cose;
e un giovanil
vigor dentro
ti scuotea e
t'incitava alle
dolci
speranze d'emulare
dell'amore
l'iddio e il vento
libero. Ecco!
Il tuo aver ti rendo.
E semplici le
parole ti siano
conforto e
vanto...
Sovrasti la
fama del nome tuo,
non dei
mortali ultimi i giorni,
ma dei
notturni astri la vita,
ond'Esso e il
Tempo (soli!),
per man
congiunti nell'amicizia
estrema, e
d'Eternità fratelli,
lacrimeranno
sull'estinzione
del Mondo
dell'Uom le doglie
e
sull'ottenebrata luce, donde
ridenti o al
tergimento pietoso
intente,
all'Ore d'esse
liete vengon
or le Vite.
Di tanto
sapere e di più lode
degno, o non
tacito Profeta,
il tuo
spirito nelle miserie
tue
campò grande e signore
qual mai
altro il Mondo non ebbe.
E se del
corpo tuo la sostanza
fu fragile e
ne perì anzitempo,
reo altro non
fu fuori
dell'invidiabil
tuo viver completo!
Paterno mio
Secolo,
nel declino
tuo lento
abissale, un
genio
che vien
dallo stivale
con te non
invecchia.
Arido deserto
e piatto,
ove la vetta
è duna,
è or
l'antica patria
dell'uomo
genio.
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