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Edizione Virtuale della rivista
Club degli Autori
 
È uscito il n° 101-102 Gennaio - Febbraio 2001
è stata spedita ai soci del Club degli autori il 26 gennaio 2001
 

Editoriale

Sommario

Per leggere l'articolo "Poesia cortigiana e lirica d'amore nel Rinascimento italiano"
Poesia di Veronica Franco tratta da:
"Storia della Letteratura Italiana"
Il Cinquecento - Garzanti
 
Quando miro la terra ornata e bella
di mille vaghi ed odorati fiori,
e che, come nel ciel luce ogni stella,
così splendono in lei vari colori,
ed ogni fiera solitaria e snella,
mossa da naturale istinto, fuori
de' boschi uscendo e de l'antiche grotte,
va cercando il compagno e giorno e notte;
 
e quando miro le vestite piante
pur di bei fiori e di novelle fronde,
e de gli augelli le diverse e tante
odo voci cantar dolci e gioconde,
e con grato rumore ogni sonante
fiume bagnar le sue fiorite sponde,
tal che di sé invaghita la natura
gode in mirar la bella sua fattura,
 
dico, fra me pensando: Ahi quanto è breve
questa nostra mortal misera vita!
Pur dianzi tutta piena era di neve
questa piaggia, or sì verde e sì fiorita;
e da un aer turbato, oscuro e greve,
la bellezza del cielo era impedita;
e queste fiere vaghe ed amorose
stavan sole fra monti e boschi ascose.
 
Né s'udivan cantar dolci concenti
per le tenere piante i vaghi augelli,
ché dal soffiar de' più rabbiosi venti
fatt'eran secche queste e muti quelli;
e si vedean fermati i più correnti
fiumi dal ghiaccio e i piccioli ruscelli;
e quanto ora si mostra e bello e allegro
era per la stagion languido ed egro.
 
Così si fugge il tempo, e col fuggire
ne porta gli anni e 'l viver nostro insieme!...
 
Or, dopo così lieta primavera,
forma d'autunno, assai più che d'estate,
varia vestite assai da la primiera.
E, se ben in viril robusta etate,
l'oro de la lanugine in argento
rivolto, quasi vecchio vi mostrate;
benché punto nel viso non s'è spento
quel lume di beltà chiara e serena,
ch'abbaglia chi mirarvi ardisce intento (...)
In questo l'alma un certo affetto prova,
ch'io non so qual ei sia; se non che vosco
l'esser e 'l ragionar mi piace e giova;
e, se 'l giudicio non ho sordo e losco,
quest'è de l'amicizia la presenza,
ch'al volto ed a la voce io la conosco.
Del mio passato amor da la potenza
queste faville in me sono rimaste,
più temperate e di minor fervenza:
da queste accesa, le mie voglie caste
in quella giusa propria di voi formo,
che 'l santo Amor a circonscriver baste.
In amicizia il folle amor trasformo,
e, pensando a le vostre immense doti,
per imitarvi l'animo riformo;
e, se 'n ciò i miei pensier vi fosser noti,
i moderati onesti miei desiri
non lascereste andar d'effetto vuoti.
 

 
Poesie tratte da: "Rime" - Gaspara Stampa
 
Rime d'amore
 
I
 
Voi, ch'ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l'altre prime,
ova fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de' miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.
E spero ancor che debba dir qualcuna:
- Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!
Deh, perché tant'amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?
 
***
 
VII
 
Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
miri un signor di vago e dolce aspetto,
giovane d'anni e vecchio d'intelletto,
imagin de la gloria e del valore:
di pelo biondo, e di vivo colore,
di persona alta e spazioso petto,
e finalmente in ogni opra perfetto,
fuor ch'un poco (oimè lassa!) empio in amore.
E chi vuol poi conoscer me, rimiri
una donna in effetti ed in sembiante
imagin de la morte e de' martiri,
un albergo di fé salda e costante,
una, che, perché pianga, arda e sospiri,
non fa pietoso il suo crudel amante.
 
***
 
VIII
 
Se, così come sono abietta e vile
donna, posso portar sì alto foco,
perché non debbo aver almeno un poco
di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
S'Amor con novo, insolito focile,
ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco,
perché non può non con usato gioco
far la pena e la penna in me simìle?
E, se non può per forza di natura,
puollo almen per miracolo, che spesso
vince, trapassa e rompe ogni misura.
Come ciò sia non posso dir espresso;
io provo ben che per mia gran ventura
mi sento il cor di novo stile impresso.
 
***
 
XIV
 
Che meraviglia fu, s'al primo assalto,
giovane e sola, io restai presa al varco,
stando Amor quindi con gli strali e l'arco,
e ferendo per mezzo, or basso or alto,
indi 'l signor, che 'n rime orno ed essalto
quanto più posso, e 'l mio dir resta parco,
con due occhi, anzi strai, che spesso incarco
han fatto al sole, e con un cor di smalto?
ed essendo da lato anche imboscate,
sì ch'a modo nessun fess'io difesa,
alla virtute e chiara nobiltate?
Da tanti e ta' nemici restai presa;
né mi duol, pur che l'alma mia beltate,
or che m'ha vinta, non faccia altra impresa.
 
***
 
XXVI
 
Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;
piangerò, arderò, canterò sempre
(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre
a l'ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)
la bellezza, il valor e 'l senno a canto,
che 'n vaghe, sagge ed onorate tempre
Amor, natura e studio par che tempre
nel volto, petto e cor del lume santo;
che, quando viene, e quando parte il sole,
la notte e 'l giorno ognor, la state e 'l verno,
tenebre e luce darmi e tôrmi suole,
tanto con l'occhio fuor, con l'occhio interno,
agli atti suoi, ai modi, a le parole,
splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.
 
***
 
XXVII
 
Altri mai foco, stral, prigione o nodo
sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
non arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
quanto 'l mi' ardente, acuto, acerba e sodo.
Né qual io moro e nasco, e peno e godo,
mor' altra e nasce, e pena ed ha diletto,
per fermo e vario e bello e crudo aspetto,
che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo.
Né fûro ad altrui mai le gioie care,
quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio,
mirando a le mie luci or fosche or chiare.
Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio,
fin che potrò e viver ed amare,
lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.
 
***
 
XLI
 
Ahi, se così vi distrignesse il laccio,
come, misera, me strigne ed affrena,
non cerchereste d'una in altra pena
girmi traendo, e d'uno in altro impaccio;
ma perch'io son di foco e voi di ghiaccio,
voi sète in libertade ed io 'n catena,
i' son di stanca e voi di franca lena,
voi vivete contento ed io mi sfaccio.
Voi mi ponete leggi, ch'a portarle
non basterian le spalle di Milone,
non ch'io debile e fral possa osservarle.
Seguite, poi che 'l ciel così dispone:
forse ch'un giorno Amor potria mutarle;
forse ch'un dì farà la mia ragione.
 
***
 
LXII
 
Or che torna la dolce primavera
a tutto il mondo, a me sola si parte;
e va da noi lontana in quella parte,
ov'è del sol più fredda assai la sfera.
E que' vermigli e bianchi fior, che 'n schiera
Amor nel viso di sua man comparte
del mio signor, del gran figlio di Marte,
daranno agli occhi miei l'ultima sera,
e fioriranno a gente, ove non fia
chi spiri e viva sol del lor odore,
come fa la penosa vita mia.
O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore,
a comportar che degli amanti stia
sì lontano l'un l'altro il corpo e 'l core!
 
***
 
LXXXVIII
 
Lassa, chi turba la mia lunga pace?
chi rompe il sonno e l'alta mia quiete?
chi mi stilla nel cor novella sete
di gir seguendo quel che più mi sface?
Tu, Amore, il cui strale e la cui face
ogni contento uman recide e miete,
tu ber mi desti del tuo fiume Lete,
che più mi nòce, quanto più mi piace.
Ahi, quando fia giamai, ch'un giorno possa
voler col mio voler, resa a me stessa,
del grave giogo periglioso scossa?
 
***
 
CIV
 
O notte, a me più chiara e più beata
che i più beati giorni ed i più chiari,
notte degna da' primi e da' più rari
ingegni esser, non pur da me, lodata;
tu de le gioie mie sola sei stata
fida ministra; tu tutti gli amari
de la mia vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m'ha legata.
Sol mi mancò che non divenni allora
la fortunata Alcmena, a cui stè tanto
più de l'usato a ritornar l'aurora.
Pur così bene io non potrò mai tanto
dir di te, notte candida, ch'ancora
da la materia non sia vinto il canto.
 
***
 
CIX
 
Gioia somma, infinito, alto diletto,
or che l'amato mio tesoro ho presso,
or che parlo con lui, che 'l miro spesso,
m'ingombrerebbe certamente il petto,
se 'l cor non mi turbasse un sol sospetto
di tosto tosto rimaner senz'esso,
per quel ch'io veggo a qualche segno espresso,
ché sol apre Amor gli occhi a l'intelletto.
E, se ciò è, io vo' certo finire
questa misera vita in un momento,
anzi ch'io provi un tanto aspro martìre;
perché conosco chiaramente e sento
che senza lui mi converria morire,
ch'è l'appoggio, a cui 'l viver mio sostento.
 
***
 
CXLII
 
Rimandatemi il cor, empio tiranno,
ch'a sì gran torto avete ed istraziate,
e di lui e di me quel proprio fate,
che le tigri e i leon di cerva fanno.
Son passati otto giorni, a me un anno,
ch'io non ho vostre lettre od imbasciate,
contro le fé che voi m'avete date,
o fonte di valor, conte, e d'inganno.
Credete ch'io sia Ercol o Sansone
a poter sostener tanto dolore,
giovane e donna e fuor d'ogni ragione,
massime essendo qui senza 'l mio core
e senza voi a mia difensione,
onde mi suol venir forza e vigore?
 
***
 
CCVIII
 
Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in foco,
qual nova salamandra al mondo, e quale
l'altro di lei non men stranio animale,
che vive e spira nel medesmo loco.
Le mie delizie son tutte e 'l mio gioco
viver ardendo e non sentire il male,
e non curar ch'ei che m'induce a tale
abbia di me pietà molto né poco.
A pena era anche estinto il primo ardore,
che accese l'altro Amore, a quel ch'io sento
fin qui per prova, più vivo e maggiore.
Ed io d'arder amando non mi pento,
pur che chi m'ha di novo tolto il core
resti de l'arder mio pago e contento.
 
***
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Inserito il 2 febbraio 2001