02-1998 12:38 by Claris Home Page version 2.0-->
Edizione Virtuale della rivista
Club degli Autori
È uscito il n° 101 - 102 Gennaio - Febbraio 2001
 
è stata spedita ai soci del Club degli autori il 26 gennaio 2001

Editoriale

Sommario

Per leggere alcune poesie del cinquecento

POESIA DEL CINQUECENTO
Poesia cortigiana e lirica d'amore nel Rinascimento italiano
a cura di Olivia Trioschi
 
 
 
Cinquecento anni fa l'Italia entrava trionfalmente nel XVI secolo. Fu l'epoca della Rinascenza, come riconobbero già molti contemporanei, come esplicitamente dichiarò il Vasari nelle sue "Vite"; epoca maturata lentamente, sin da quando Dante indicava in Virgilio il suo maestro di eloquenza e bello stile; da quando Petrarca ritrovava le lettere di Cicerone, sepolte da secoli e polvere, aprendo la fase eroica della riscoperta dei classici e riscrivendo le sue epistole sul modello del grande romano; da quando Boccaccio raccoglieva intorno a sé giovani intellettuali formando un primo nucleo di quella "res publica literarum", ideale repubblica di intelligenze cui sentivano di aderire tutti gli umanisti del primo Quattrocento. L'epoca in cui Pico della Mirandola scriveva: "Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato né un aspetto proprio né alcuna prerogativa tua perché quel posto, quell'aspetto e quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto". E se è vero che in quest'appassionato cantico della centralità dell'uomo nel cosmo si avverte già una distanza rispetto all'umanesimo civile dei primi fiorentini (si pensi a un Coluccio Salutati, a un Poggio Bracciolini, a un Leon Battista Albert, tutti impegnati nella costruzione di un tipo umano il cui contesto naturale era la città, le istituzioni comunali, la vita associata, il "fare masserizia" come segno di supreme saggezza e fermezza) è altrettanto vero che da secoli nessuno aveva parlato della dignità dell'uomo con toni così alti. Per questo vivissima era la coscienza di una rottura rispetto al "buio" Medioevo, e la pregiudiziale negativa su questi mille anni di storia - resa ancora più evidente dallo stesso nome, quasi un epiteto, attribuitogli: età di mezzo, di transizione, niente più che un lunghissimo purgatorio che separava la luminosa chiarezza della classicità dall'Uomo ritrovato nel XV secolo - peserà a lungo, soprattutto in epoche come l'Illuminismo che ai medesimi ideali di equilibrio, razionalità e dignità consapevolmente si riallacciavano.
Rinascita dell'uomo, dunque: che trova il suo epicentro, per una singolarissima e irripetibile coincidenza di uomini e contingenze storiche, prima nei comuni e poi nelle corti delle città italiane (da cui poi si irradierà in tutta Europa): luoghi di raffinata cultura e di orgoglio municipale, di elaborazione di altissimi ideali e di appetiti territoriali sfrenati; qui e ora comincia quella "ruina d'Italia" che sarà al centro delle meditazioni politiche di Machiavelli, che con acre ironia dimostrerà l'insania dei principi italiani, i quali pensavano - scriveva il fiorentino - che per conservare il proprio potere fosse sufficiente scrivere bei versi e ammirare bei quadri.
E intanto l'Italia si avviava a diventare mira di nuovi appetiti, stranieri questa volta: e per tutta la prima metà del Cinquecento - con al centro quel 1527, anno del sacco di Roma, che mostrò al di là di ogni ragionevole dubbio la debolezza non solo dello Stato Pontificio ma dell'intera penisola - eserciti imperiali, francesi, svizzeri, spagnoli la percorsero in tutte le direzioni, devastando e saccheggiando; e intanto Raffaello lavora alle "Stanze", Michelangelo affresca la volta della Sistina, Ariosto scrive l'"Orlando Furioso", Leonardo è a Milano, intento all'"Ultima cena"; e poi Bembo definisce il modello petrarchesco e forma il canone della volgar lingua, Tiziano è a Venezia e Baldesar Castiglione compone il "Cortegiano", dove viene fissato un altro modello di intellettuale, molto diverso da quello civilmente impegnato cui attendevano i fiorentini di quasi un secolo prima.
Chi è il cortigiano del Castiglione? Un nobiluomo, innanzi tutto (e già si misura in anni luce la distanza con le posizioni del primo umanesimo, dove alla nobilità del sangue si anteponeva quella dell'animo) che vive alla corte del principe, che non deve avere tanto a cuore le "humanae litterae" quanto la piacevolezza del dire, l'eleganza dell'abbigliamento, l'abilità della spada; che lungi dal poter incidere realmente sulla gestione della cosa pubblica, o sulle decisioni politiche, deve tuttavia cercare di guadagnarsi in virtù delle sue molteplici qualità cortigiane la fiducia del principe, orientandolo verso il bene: strenuo tentativo di dare ancora un senso civile e civico alla figura dell'intellettuale, che le vicende storiche portano fatalmente, invece, a essere il damerino vuoto e fatuo che troverà la sua più compiuta teorizzazione nel cronologicamente di poco successivo "Galateo" di Monsignor della Casa: dove l'eleganza, da fatto esornativo, diventa l'essenza stessa dell'essere cortigiano.
Abbiamo parlato sin qui di uomini e cortigiani; e le donne? Diciamo subito che il Cinquecento italiano, tra l'altro, è il secolo delle poetesse: se ne contano nel volgere di cento anni più di quante non ne abbia conosciuto l'intera storia della letteratura, forse mondiale, sino a quel momento. Il Cinquecento, infatti, è anche il secolo di Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Veronica Franco, Tullia d'Aragona, e molte, moltissime altre. Parecchie di loro furono, oltre che poetesse, cortigiane. L'aggettivo, declinato al femminile, assume nell'Italia del Cinquecento significato tutto particolare che pure va subito esplicitato: cortigiane, infatti, non sono più le dame di compagnia, le accompagnatrici addette alla corte dei principi, che difatti d'ora in poi saranno chiamate "dame di corte", ma le prostitute.
E' vero che nel suo "Cortegiano" il Castiglione dedica un intero libro, il terzo, alla descrizione della dama di corte; ed è altrettanto vero che in realtà tutto il "Cortegiano"mal ruota attorno alla figura delle due nobildonne, la duchessa e la sua dama di compagnia, che distribuiscono i ruoli agli illustri interlocutori, interrompono gli oratori troppo prolissi o noiosi, insomma conducono il gioco; ma il ritratto della donna che ne emerge è quello di una creatura gentile che, in fin dei conti, deve saper stare al suo posto (inferiore) poiché ciò che le si addice non è la "virilità soda e ferma" dell'uomo bensì una "tenerezza molle e delicata" grazie alla quale coltivare nozioni di letteratura, musica e pittura, tali da renderla una piacevole conversatrice da salotto; il salotto, beninteso, della sua casa di donna maritata, dove è opportunamente controllata da stuoli di servitori e da cui non esce se non debitamente accompagnata (e quindi ancora una volta controllata).
Le donne al centro di tutta la lirica d'amore del secolo, di tutti i sonetti dei poeti petrarchisti, sono quindi assai più creature idealizzate (non diversamente da quello che accadeva alle dame dei trovatori di Provenza di quattro secoli prima) che non esseri reali, vivi e veri. Le donne, insomma, non conoscono reali progressi nella loro condizione rispetto alle mamme e alle nonne dei decenni precedenti, salvo nel caso di alcune rare fortunate dalla nascita nobilissima (si pensi a una Lucrezia Borgia, ad esempio); d'altro canto, le donne di umili o modeste origini restano e resteranno totalmente escluse dalla storia, relegate nel fondo delle vite dei loro padri e mariti, inchiodate alle fatiche domestiche e ignote quasi a loro stesse. Tranne alcune: giovani di grande bellezza e di ancora più grande intelligenza che con il solo ausilio di queste due virtù riescono a strapparsi i cenci di dosso, ad avere sontuose dimore e corteggiatori galanti e generosi, con tutto ciò che di ambiguo e pericoloso questo comporta. Sono, per l'appunto, le cortigiane; le quali, complice la quasi totale assenza delle donne di rango dalla vita pubblica (dove compaiono solo in particolari occasioni e, come si diceva, mai sole e libere di intrattenersi con gli uomini) conducono treni di vita talvolta assai lussuosi, ricevono nobili e artisti in salotti raffinati ed elegantemente licenziosi, stabiliscono relazioni con le personalità più in vista.
La più celebre? Imperia, nome d'arte della bella romana Lucrezia, a sua volta figlia di una cortigiana e di un esponente tanto importante quanto anonimo della curia pontificia, che si suicida come una Monroe ante-litteram nel 1512 (forse per amore, forse per dolore), all'apice della fortuna e della bellezza: dopo la sua morte Giulio II, il papa guerriero, le accorda la benedizione e l'assoluzione da tutti i peccati, consente a che venga seppellita in una cappella della chiesa di San Gregorio; Agostino Chigi, ricchissimo banchiere e mecenate e suo entusiastico ammiratore, le fa erigere un monumento.
Un'altra eroina della cortigianeria? La già ricordata Veronica Franco, veneziana di nascita borghese, che tra i suoi corteggiatori conta Marco Venier (di antica e potente famiglia) e a un certo punto della sua carriera sfida a un duello all'arma bianca l'anonimo autore di certe poesie nelle quali veniva pesantemente insultata per poi, una volta scoperto l'autore delle offese, dedicargli duecentotto versi che iniziano con un'ammonizione che riprende una norma precisa del galateo cortese: "di ardito cavalier non è prodezza" colpire una donna. Nel 1574 Veronica riceve nel suo salotto, in un incontro coperto dal massimo riserbo che tuttavia - o forse proprio per questo - desta il massimo scalpore, Enrico di Valois, figlio di Caterina de' Medici in procinto di ricevere la corona di Francia: Enrico riparte da Venezia con un ritratto in smalto della bella ospite, la quale lo ringrazia delle attenzioni ricevute nel modo che le è più congeniale, cioè dedicandogli due sonetti. La poesia non è l'unico ambito in cui si manifesta l'amore di Veronica per la letteratura e l'arte: sue sono anche numerose epistole, da lei stessa date alle stampe nel 1580 ricevendone parecchi apprezzamenti, dove tra l'altro si legge: "io sono tanto vaga e con tanto mio diletto converso con coloro che sanno, per aver occasione ancora d'imparare, che, se la mia fortuna il comportasse, io farei tutta la mia vita e spenderei tutto l'mio tempo dolcemente nell'accademia degli uomini virtuosi". Difficile immaginare che si tratti solo di vanagloria, o desiderio di compiacere i colti corteggiatori: più verosimile invece pensare che Veronica abbia trovato nel mestiere più antico del mondo l'unica strada che le offrisse, a lei di oscuri natali, la possibilità di dedicarsi ai piaceri dello spirito. Non disgiunti, peraltro, da quelli della carne, di cui verseggia senza mercenaria licenziosità ma con un fondo realistico che costituisce la sua peculiarità rispetto all'imperante maniera petrarchesca. A un corteggiatore, ad esempio, scrive versi che sono un sussurro e una promessa: "Certe proprietadi in me nascose / vi scovrirò d'infinita dolcezza, / che prosa o verso altrui mai non espose [...] / Così dolce e gustevole divento / quando mi trovo con persona in letto, / da cui amata e gradita mi sento / che quel mio piacer vince ogni diletto / sì che quel che strettissimo parea, / nodo de l'altrui amor divien più stretto". Libera poesia di libero amore, vien da pensare; allo stesso modo che per i versi dedicati a un uomo di religione, amore non ricambiato di gioventù, cui Veronica dedica in età più matura un capitolo in terza rima dove sogna che quella passione possa tramutarsi in una serena amicizia non completamente dimentica del "folle amore" passato: schiettezza, testimonianza di vita e buona disciplina letteraria sono dunque gli ingredienti principali delle poesie di Veronica Franco, tanto legata alla sua città da dedicarle versi di liquida, mesta bellezza: "l'alma cittade / del mar reina, in mezzo 'l mar assisa / a' cui pie' l'acqua giunta umile cade / e per diverso e tortuoso calle / s'insinua a lei per infinite strade".
Imperia e Veronica, Roma e Venezia: capitali, secondo più di uno storico, non solo di importanti stati italiani ma anche del mondo cortigiano. A Roma la preponderanza dell'elemento maschile su quello femminile (in primo luogo per l'altissima presenza di prelati, com'è noto non così osservanti del voto di castità in particolare prima della Controriforma; in secondo luogo per l'altrettanto cospicua presenza di personale variamente aggregato alla curia) e le grandi ricchezze che vi si riversano da tutta la Cristianità determinano naturalmente e inevitabilmente l'aumento della prostituzione; a Venezia, Serenissima fastosa e mondana, centro cosmopolita e ricchissimo che ancora non avverte (o solo in minima parte) i contraccolpi dell'apertura delle nuove rotte atlantiche, complice un decreto che chiude il Castelletto dove fino al 1498 le donne di vita erano rinchiuse, esse sciamano in città, attirate come a Roma da una vita ricca e gaudente.
Ma per una Imperia e una Veronica, cortigiane "oneste" secondo la terminologia del tempo, mille e forse più ce ne sono che, come scriveva l'Aretino, "muoiono nell'ospedale": sono le cortigiane "da lume", che esercitano la loro professione in sordidi retrobottega e finiscono i loro giorni miseramente, spesso a causa di quel "mal francese" che proprio nel Cinquecento comincia a mietere le sue prime vittime; di una di queste ha lasciato una grottesca descrizione Machiavelli, che indugia sullo squallido aspetto della poveretta (della quale, peraltro, non aveva disdegnato di fare l'uso cui la donna si destinava): "li ochi haveva - scriveva Machiavelli all'amico Luigi Guicciardini - uno basso et uno alto, et uno era maggiore che l'altro, piene le lagrimatoie di cispa et e' nipitelli dipilicciati; il naso li era conficto sotto la testa aricciato in su, e l'una delle nari tagliata, piene di mocci; la bocca somigliava a quella di Lorenzo de' Medici, ma era torta da un lato e da quello n'uisciva un poco di bava, ché per non havere denti non poteva ritenere la sciliva; nel labbro di sopra haveva la barba lunghetta, ma rara" e via di questo passo per parecchie righe. Era il rovescio della medaglia dello scintillante mondo delle cortigiane "oneste", la fine straziante di quelle che non ce l'avevano fatta, spesso vittime delle violenze e degli inganni che quotidianamente minacciavano la vita di tutte le donne che praticavano il mestiere.
Il "divino", come lo chiamò l'Ariosto, Pietro Aretino, ricattatore e verseggiatore geniale che non a caso dimorò a lungo sia a Roma che a Venezia, alle cortigiane dedicò i suoi celebri "Ragionamenti", ovvero il dialogo tra la cortigiana Nanna e la figlia Pippa, che viene istruita sull'arte della prostituzione. Da un certo punto di vista i "Ragionamenti" rientrano a pieno titolo nella trattastica del tempo: non solo sono in forma dialogica ma in più si occupano, tutto sommato, di "formazione umana": così come il Castiglione delineava il tipo umano del cortigiano, allo stesso modo l'Aretino, per bocca della Nanna, fornisce precise istruzioni sulla teoria e la pratica dell'arte cortigiana, dai mille trucchi e imbroglio necessari alla prostituta per ricavare dal cliente il meglio in cambio del meno possibile, alle altrettante insidie da cui la vera professionista si deve guardare per conservare i suoi "beni al sole" e il suo buon nome. Il risultato è un quadro spietatamente realistico dei costumi del tempo, dove l'indulgenza al riso licenzioso e alla vera e propria oscenità si mescolano alla feroce irrisione dell'ipocrita moralità di una società che condanna la prostituzione ma al tempo stesso la crea e la incentiva. Che l'Aretino abbia fatto dell'oscenità e della maldicenza la cifra prima della sua attività poetica, del resto, è cosa nota: dai famosi "Sonetti lussuriosi" ispirati a sedici licenziose incisioni che circolavano a Roma intorno al 1520 (un esempio? "Marte, maledettissimo poltrone! / Così sotto una donna non si reca, / e non si fotte Venere alla cieca, / Con molta furia e poca discretione. / - Io non son Marte, io son Hercol Rangone / e fotto voi, che sete Angela Greca" dove, tra l'altro, si noti il più che preciso riferimento a un nobile signore dell'epoca e a una cortigiana altrettanto nota) alle invettive scagliate contro le donne più venerate del tempo, entrambe poetesse: Veronica Gambara a Vittoria Colonna. La prima definita "meretrice laureata", la seconda derisa perché - diceva l'Aretino - usava la poesia per consolarsi del suo vuoto letto di vedova.
I versi di queste due poetesse di nobile nascita, cui unanime andò il plauso dei contemporanei, sono stati di recente almeno in parte ridimensionati dalla critica quanto ai contenuti, rimanendo inalterato il giudizio sulla qualità stilistica che le fa rientrare a buon diritto nel novero delle migliori prove della poesia petrarchista. Per Vittoria Colonna in particolare, la mistica amica di Michelangelo cantata dall'artista come creatura superiore, è stato notato come l'alto idealismo e la forte vocazione all'apostolato (visse infatti a lungo in conventi dove si ritirava per bisogno di raccoglimento religioso) limitino fortemente l'espressione autentica dei moti dell'animo; mentre alla Gambara si riconosce una maggiore eleganza e facilità del verso, che pure resta privo di sensibilità profonda.
Qualità che invece vengono riconosciute a un'altra poetessa del Cinquecento, che secondo alcuni è anche la maggiore poetessa italiana in assoluto: quella Gaspara Stampa dalla vita misteriosa su cui schiere di storici si sono accaniti per dimostrarne o smentirne l'appartenenza alla schiera delle cortigiane "oneste"; quella Gaspara Stampa che visse a Venezia nello stesso periodo dell'Aretino ma che dalla maldicenza di questi scampò per misteriosi motivi (da viva, almeno; perché dopo la morte anche a Venezia circolarono rime anonime, da qualcuno attribuite proprio all'Aretino, dove la giovane veniva messa alla gogna); quella Gaspara Stampa di cui D'Annunzio dirà: conosco un verso sublime di questa donna, "vivere ardendo e non sentire il male" (con procedimento consueto all'Immaginifico, che estraeva cammei dalle poesie altrui, isolandoli dal contesto per volgerli ai propri fini).
Vale la pena conoscerla più da vicino, questa donna. Impresa non facile, data la scarsità di notizie certe disponibili. Gaspara, Gasparina per gli intimi, nasce a Padova nel 1523. Il padre è un gioielliere agiato che desidera per lei e per gli altri due figli, un maschio e una femmina, un'educazione raffinata: giovanissima comincia a studiare musica e metrica. Ma il padre muore presto, e la madre Cecilia si trasferisce con i figli a Venezia, decisa ad assicurare loro l'educazione iniziata sotto la guida paterna. Come la famiglia Stampa viva a Venezia è materia di congettura: di certo si sa che il loro salotto era aperto e ben frequentato, cosa che contrasta singolarmente con le modeste sostanze dichiarate sotto giuramento da Cecilia nel 1544; forse vivevano della generosità degli amici, forse la generosità non era del tutto gratuita. Gaspara e la sorella Cassandra, cui precocemente muore anche il fratello Baldassarre, poeta egli pure, erano graziose, ben educate, colte e raffinate; la loro conversazione era scintillante, la loro musica apprezzata da intenditori. Presto la fama di Gaspara supera quella di Cassandra: è chiamata "musica eccellente", si infittiscono opere letterarie a lei dedicate, è cantata come donna bellissima. E' nel pieno della giovinezza e della fama quando, nel 1548, conosce l'uomo che amerà appassionatamente e a cui dedicherà il suo "Canzoniere": il conte Collaltino di Collalto, giovane patrizio molto compiaciuto dei suoi capelli biondi e della sua prestanza fisica, molto impegnato a seguire le armate di Enrico II di Francia, di cui è capitano, molto spesso lontano da Venezia. La relazione dura tre anni durante i quali, a differenza dell'amato, Gaspara non si sposta dalla Serenissima; ma la sua fama cresce, e anche la sua consapevolezza di poetessa. I versi del suo canzoniere seguono questa vicenda con espressioni di autenticità appena mitigate dai dettami della maniera petrarchista: la poetessa indaga ed esprime tutti i moti del suo cuore, dalla pienezza di un amore vissuto (e non solo sognato o idealizzato fino alle platoniche astrazioni religiose) al timore di perdere la sua felicità, timore che pure accetta perché in esso avverte molecole di felicità; d'altro canto, nell'accorgersi del proprio valore di poetessa assegna al conte il merito di tanta creatività, ma non manca di pensare alla gloria che le può derivare dal suo stile, che è frutto solo del suo ingegno e del suo cuore: con il rattenuto orgoglio della donna che per convenzione sociale sa di non potersi esporre troppo (alle donne si richiedeva, come sappiamo, soprattutto delicatezza e discrezione) ma al contempo ha forza abbastanza per rivendicare a se stessa quella centralità e dignità di cui parlavano gli intellettuali del Rinascimento. Collalto finisce con lo sposare una donna del suo rango, e Gaspara è sola, ma non per molto: di nuovo s'accende d'amore per un altro veneziano del quale si conosce solo il nome: Bartolomeo Zen; l'inizio della relazione è segnato da uno dei sonetti più celebri del canzoniere, "Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in foco". La breve vita della donna, però, è giunta alla fine: nel 1554 muore. Un documento la dice affetta dal "mal di madre", e anche su questo dato biografi e storici si sono scatenati: chi la vuole morta di parto, chi per un aborto, chi di appendicite. Chi lo sa; del resto, l'ultimo anno di vita di Gaspara è di silenzio poetico, e nulla è dato sapere dalla sua penna. Quel che si sa è che la sua non fu, comunque la si voglia intendere - cioè cortigiana sì o cortigiana no - una condizione facile. Venezia era certamente una città unica dove confluivano e si tolleravano perseguitati, fuoriusciti politici, persone dal dubbio passato provenienti da ogni Stato: ma tanta tolleranza riguardava esclusivamente gli uomini. Le donne, stabiliva la Serenissima, o vivevano coi mariti o erano meretrici. Che dire allora di questa donna giovane, bella, intelligente e sola? Che la sua era quanto meno una situazione da irregolare, nella quale le lodi potevano confinare pericolosamente con la pubblica condanna, o peggio; e che la sua libertà, voluta e patita al tempo stesso, trovava nella dimensione amorosa il terreno più sicuro (perché consacrato dalla lirica d'amore del tempo) e allo stesso tempo più pericoloso (per la sua solitudine così spericolata) per esprimersi: come dire che la sua condizione esistenziale, che era quasi un ossimoro, trovava il suo necessario corrispettivo nel "dolce fuoco" dell'amore. Condizione, comunque, che accomuna molte tra le poetesse del Cinquecento; soprattutto quelle, le cortigiane "oneste", che sperimentavano una libertà nuova con il coraggio delle pioniere, e con i loro versi e la loro vita testimoniavano la volontà di essere protagoniste vive, fatte di carne e sangue, di quell'amore che, nei versi dei loro colleghi uomini, le idealizzava: cioè, di fatto, ancora una volta le emarginava dalla vita vera.
 
Olivia Trioschi
 
©2001 Il club degli autori
Per comunicare con il Club degli autori:
info@club.it
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit
 
 

IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |
 
Inserito il 2 febbraio 2001