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- Luci di
confine
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- Quanti si sono mai chiesti se un mondo possa
essere trattenuto all'interno di una stanza? Io
credevo che non fosse assolutamente possibile. Tra
quattro mura doveva esistere un vero limite fisico
allo spazio di una persona. Un perimetro angusto.
Credevo. Un tempo molto lontano.
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- Ricordo che andavo alla continua ricerca di
spazi e di emozioni che non fossero solo interiori, ma
anche di qualcosa che potesse congiungermi in qualche
modo con i sublimi piaceri esteriori che solo la vista
e l'approccio tattile del mondo potevano donarmi.
Peregrinagli estenuanti tra le pieghe talvolta oscure
di ciò che mi circondava; visione d'insieme di
cui assaporavo i risvolti, anche i più minuti.
Credevo. Un tempo molto lontano.
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- Ricordo di prati verdi, ch'erano di verde
acceso d'estate e di verde spento d'inverno,
accerchiati da nugoli di cemento e mattoni. I fili
d'erba parlavano di tempi lontani quando i loro avi
scrutavano l'orizzonte libero, quando le loro famiglie
erano così numerose da non richiedere adunanze
a scadenza per censimento; loro raccontavamo del
"prima", pur non avendo mai conosciuto nient'altro che
cemento e mattoni per orizzonte.
- Io ascoltavo il verde manto sussurrare lamenti
e ne traevo consiglio con devota attenzione. Ascoltavo
e silente meditavo sulla questione dello spazio,
osservando l'esistenza di quei verdi e flebili steli
scossi da un vento che non aveva provenienze remote.
Riflettevo sulla necessità di spazio vitale.
- Spazio fisico. Credevo fosse logico e giusto.
Un tempo molto lontano.
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- Ricordo di corse infinite alla ricerca di
significati.
- Domande che rincorrevano altre domande e che
disperatamente tentavano di arrivare a conclusioni che
invece non giungevano mai. C'erano idee e tentazioni a
ghermirmi nei momenti di pausa, fulminee stoccate
spesso di pura follia, o almeno questo era il giudizio
datogli dai bipedi miei simili.
- C'erano nottate sotto la pioggia battente
passate in mezzo a vie scure e solitarie parlando con
me stesso; lunghi viaggi dentro e fuori la
città che silenziosa non proferiva e i cui
funerei figli proteggeva dalle mie incursioni.
Libertà è una parola che la città
non vuol sentire e piangono i suoi figli quando la
sentono. Erano nottate d'estasi dove io ero solo
ciò che ero, per me stesso e per
nessun'altro.
- Tenebre a volte come velluto. Le sentivo
toccarmi mentre stavo fermo su qualche panchina di
qualche solitario giardino; le sentivo sfiorarmi
mentre la mia pelle si deliziava della sensazione di
assoluto che quella aperta solitudine riusciva a
darmi.
- Ricordo di opache e indistinte figure notturne
che mi passavano accanto. Ricordo di sguardi fissi e
di stupide manifestazioni di meraviglia e pietà
insieme, in un collage insulso e ignorante.
- Ricordo il mio disappunto e la certezza di
essere sul superiore piano della comprensione della
libertà. Credevo. Un tempo molto
lontano.
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- Così, tra le flebili onde di pensieri,
talvolta umidi e appiccicaticci come nebbia, arruffate
rimembranze ondeggiano tra il passato e il futuro,
senza per questo ignorare il presente, pur nella sua
evidente limitatezza.
- Tempo e spazio. Possono realmente coesistere
all'interno di una stanza nella reale ed unica enfasi
della parola libertà?
- Le quattro mura che mi circondano sussurrano
dolcemente le voci del mondo di fuori e del mondo di
dentro; onde di forte insofferenza scuotono senza
avvisare quella che viene definita la stabilità
interiore... Ma chi può dire se sia stabile
questa stabilità? E poi che significato ha la
parola stessa?
- Stabilità. Di cosa?
- Il mondo non è stabile. La
libertà non è stabile. La vita stessa
non è stabile. La stabilità fa rima
troppo facilmente con staticità e quest'ultima
cozza rumorosamente con l'ampiezza sonora ed empatica
della ricerca e dell'evoluzione che la vita stessa
sprigiona con forza.
- Sussurrano le mura. Annuiscono.
- Ricordo di giorni dove il tempo non esisteva,
dove gli orologi colavano spenti da pareti
spoglie.
- Interminabili camminate attraverso parole e
musiche confuse che somigliano alle cacofonie dei luna
park: le magiche fiere dell'irreale, dell'effimero e
dell'insensato, il condensato principale della
società in cui viviamo.
- Viaggiano con la mia fantasia cabriolet e la
mia sognante ricerca a tutto volume. Ricordo di strade
a volte piene e a volte vuote dove io costruivo
contorni pastello attorno ai desideri e ai sogni che
di volta in volta le immagini mi suggerivano.
- Strade che spesso non esistevano, se non tra i
fumosi angoli della mia stanza; il mondo non aveva
confini ed io lo attraversavo...
- Vagavo da un mondo all'altro, ora fuori dalle
mura ora dentro, e mi facevo accompagnare da ombre
indecise, spesso solamente ricordi di
persone.
- Avevano un senso nel mio cuore insensato. Un
tempo molto lontano.
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- Ricordo di spazi aperti che gli occhi non
coglievano. Ricordo di sogni in bianco e nero mutati
per magia in capolavori technicolor. Erano i primi
incroci con la "realtà". Spesso però
confondevo le cose, perché ancora non capivo,
cogliendone solo l'esteriorità... credevo che
la libertà fosse soprattutto questo. Credevo.
Un tempo ancora lontano.
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- Oscuri silenzi intrecciano mistiche
armonie.
- Il buio recita la sua parte
- ampliando la visione dell'invisibile.
- Quattro mura come i "quattro
cardinali".
- Rondini in attesa
- sul cornicione di una casa vuota.
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- Quante persone si sono mai chieste il vero
significato del vivere dentro a se stessi? E quanto
questo ha importanza nel comune senso della
libertà? I cocci sparsi a terra rammentano
solamente la perdita di un oggetto e la sensazione di
fastidio che generalmente provoca?
- Io ricordo fumosi ambienti colmi di fatiscenti
ombre alla ricerca di una compagna, generalmente
ambrata. Ricordo suoni che sembrano parole, come
serpenti attorcigliati ad una preda e intenti a
finirla; lamenti acuti e fastidiosi di burattini
insoddisfatti. Vecchi dischi inchiodati al proprio
portafoglio e al proprio lavoro, alla crudeltà
del destino e all'inutilità di respirare ancora
il giorno dopo.
- L'inferno dantesco non avrebbe affatto
sfigurato in quegli antri di scontata psicologia da
Venerdì sera.
- Ricordo di punti interrogativi dipinti sulle
mie labbra che mutavano in sorrisi di sdegno che non
mostravo e che altresì interrogavano l'aria
tutt'intorno. Essa sapeva di rancido ma anche di
lontane reminiscenze di fili d'erba e muri di
cinta.
- Allora pensavo di essere unico. Come
bipede.
- Credevo. Un tempo ancora lontano.
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- C'erano sogni che crescevano rigogliosi. Avevo
tasche piene di questi e giravo e giravo spendendo
senza sosta. Facevo banchetti e feste e radunavo
agnelli per gioire delle libertà dell'arte e
dello spirito; osservavo il cielo sopra di me e lo
vedevo scuro e minaccioso. Comparivano sorrisi sul mio
volto bagnato ancora d'infante. Gli agnelli attorno al
desco rispondevano mostrando fauci di fiere che io non
vedevo.
- Rammento il mio cuore grande. E anche l'alto
concetto della fratellanza. Io sapevo.
- O almeno così credevo.
- Un tempo molto lontano.
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- Le mie labbra soffici baciavano il vento.
Ricordo ch'esso rispondeva con carezze ai miei lunghi
fili castani. Il mio alito sapeva di tabacco americano
e le mie orecchie si facevano penetrare da sussulti
talvolta rabbiosi, in amplessi musicali pieni di
sdegno e rabbia.
- Cercavo spesso la mia via di fuga in cavalcate
strozzate da urli di verità e verbo. Carta
filigranata usciva dalle mie mani per tanto sapere ed
io godevo agitando le braccia della certezza e della
giustizia; gioivo colmo di libertà che sapevo
certa e sinceramente predicata. Credevo. Un tempo non
troppo lontano.
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- Ricordi chi eri?
- Cosa abbracciavano
- le tue braccia nude di tenera e stupida
arroganza?
- Quali venti ornavano il tuo capo?
- Avvoltoi. Sciacalli.
- Anni venduti e trattenuti in sudari
neri.
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- Ricordo di richiami. Ricordo di forti e
insistenti richiami.
- Voci che venivamo sommesse a tirare le mie
vesti per condurmi sulla via del ritorno. Voci
insistenti che pronunciavano il mio nome con grazia e
fermezza.
- Quattro mura come i quattro venti che spirano
ricordando l'effimero che spesso ci pervade.
- Ricordo quelle voci come qualcosa di
assolutamente vero eppure allora mi sembravano
lontane, come ombre dipinte su un muro
fatiscente.
- Chiudevo le mie orecchie perché non
volevo che nessuno mi distogliesse da ciò che
credevo sacro e assoluto. La mia via, la mia
strada.
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- Ma le voci non si sono mai fermate. Hanno
attraversato il tempo e hanno resistito, anche quando
io fuggivo senza remora in quello che era un corridoio
che credevo mi avrebbe portato alla luce e alla
libertà. Credevo. Un tempo non troppo
lontano.
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- Così, ora, osservo rapito ciò che
mi circonda. I lamenti del passo ubriaco di un
viandante mi riportano ad una strada smarrita. Luci di
miele incoraggiano i pensieri e davanti allo specchio
c'è un viso che non riconosco, un viso che ha
rughe e deboli fili grigi qua e là.
- C'è del vero nell'aria, che odora di
fili d'erba mai nati tra confini di cemento.
- Quattro mura fatte di pensiero che fuggevole
s'innalza e senza paura vola. Quella libertà
che non avevo mai visto si presenta tra le mie mani,
che callose ridono felici di un tempo che appare come
mai passato. O forse mai esistito.
- Luci di confine nella mia stanza.
- Luci di confine nella mia casa.
- Luci di madre e padre e pochi amici che sinceri
applaudono il mio arrivo.
- Luci che ricordavo solo come recinti e confini
invalicabili, come queste mura che ora accarezzano il
mio spirito.
- Libero da quell'Inferno mai troppo
lontano.
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- Fili d'erba ondeggiano nell'aria.
- Il vento sostiene tesi che appoggio
- e dalla mia finestra odo cantare un
corvo.
- Sorrido e non mi muovo nel mia anfratto
d'Universo.
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