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Utilizziamo questo termine (fr. Sciences humaines,
ing. Humanities) in mancanza di un'espressione
italiana che copra il campo di studio in oggetto.
Precisiamo inoltre che, per motivi di leggibilità,
nel presente contributo non sono state prese in
considerazione opere scritte in lingua
araba..
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L'islamistica è per tradizione una disciplina
squisitamente maschile ed europea.
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Il riferimento è, oltre al testo di E. Said
Orientalismo, a M. Bernal, Athena nera, e
J. Clifford, I frutti puri
impazziscono.
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Secondo Bernal, a partire dal 1830 circa si è
verificato l'occultamento sistematico di fonti che
dimostrano che per la Grecia il riferimento culturale
fosse l'Egitto antico. Egli fa coincidere tutto questo
con l'ascesa dell'antisemitismo in Europa. Peraltro
questa tesi trova qualche riscontro (poco studiato
ancora) nella strumentalizzazione della questione berbera
da parte del governo francese. Bernal, di origine
ebraica, sinologo, dedicandosi alla ricerca delle proprie
radici si imbatteva sempre più spesso in elementi
che contrastavano con quanto la storia aveva trasmesso in
occidente sulla cultura greca e cioè che i greci
avessero come modello di riferimento la cultura
ariana.
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"(...) cette histoire ne saurait être autre que
l'histoire des peuples africains dans son ensemble (...)
L'histoire de l'Afrique intègre évidemment
le secteur méditérranéen
(...)".
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Questo
atteggiamento ha portato, ad esempio, ai problemi
concernenti la valutazione della poesia araba
preislamica. Si
può essere musulmane e femministe? Risponde
Asma Barlas, Associate Professor and Chair, Department of
Politics and Director of the Center for the Study of
Culture, Race, and Ethnicity, Ithaca College, Ithaca, NY.
(Il testo fa parte di un'intervista realizzata il 12
marzo 2002). "Trovo
la domanda problematica per due motivi. Innanzitutto
opponendo il femminismo - termine con il quale presumo le
persone intendano il perseguimento dell'uguaglianza
sessuale - all'Islàm, la domanda suggerisce che
non vi sia posto per l'uguaglianza nell'Islàm. Un
tale punto di vista ovviamente confonde letture
patriarcali dell'Islàm con l'insegnamento del
Corano e, secondo il mio punto di vista, queste letture
patriarcali del Corano sono solo alcune letture, ma non
le uniche. In effetti, studio la loro legittimità
con/testuale, appoggiandomi in parte sulla tesi di
Umberto Eco che, anche se possiamo non essere d'accordo
con quella che è l'interpretazione migliore di un
testo, dovremmo essere in grado di "essere d'accordo sul
fatto che alcune interpretazioni non sono legittimate
contestualmente". Credo - e ho cercato di dimostrarlo nel
mio libro - che un'esegesi del Corano che vi legga il
principio della superiorità ontlogica del maschio
e la subordinazione femminile all'uomo - l'idea di
inuguaglianza sessuale - sia una lettura illegittima dal
punto di vista del contesto. Scopo del mio libro è
mostrare come e perché e anche dimostrare che non
è necessario usare un'ermeneutica femminile per
leggere il Corano come testo anti patriarcale ed
ugualitario. In
secondo luogo, preferisco il termine femminismo musulmano
a quello femminismo islamico se proprio se ne deve usare
uno. Cerco di distinguere tra la religione (Islàm)
e le persone che la praticano (Musulmani), come si
distinguerebbe tra Cristianità e Cristiani o
Italia e Italiani. Può sembrare una questione
secondaria, ma ha implicazioni significative,
perché permette alle persone di notare che non
tutto ciò che i musulmani fanno è sempre
"islamico" nel senso che non rappresenta sempre gli
insegnamenti del Corano. So bene che non si confonde
islamico con coranico ma se si è interessati agli
insegnamenti della religione, come visualizzata nelle e
dalle sue scritture, allora una tale distinzione diventa
non solo importante, ma cruciale." Risponde
Ghazala Anwar, Ph. D., Department of Philosophy and
Religious Studies, University of Canterbury, New Zealand.
(Il testo fa parte di un'intervista realizzata il 2
aprile 2002). "Per
alcune donne essere una femminista e una musulmana
può sembrare mutuamente esclusivo, ma altre si
identificano sia come musulmane che come femministe e
combinano questi due elementi della loro identità
con successo. È su questo secondo gruppo che
soffermerò la mia attenzione. Le
donne musulmane che trovano il loro conforto personale
negli insegnamenti spirituali e nelle pratiche
dell'Islàm e che lottano per la completa
equità fra i sessi hanno il compito di generare
una nuova comprensione degli aspetti politici, culturali
e sociali della vita musulmana. Il compito è vasto
e collettivo ed è già cominciato,
poiché sempre più studiose musulmane
esprimono il loro punto di vista sull'Islàm e
sfidano alcune delle inclinazioni sessiste e misogine
della tradizione tra le più profondamente
radicate. Personalmente vedo il bisogno di rivedere ogni
aspetto dell'Islàm dal punto di vista "La ilah
illa allah". E quindi: (1)
Il nostro linguaggio esclusivamente maschile per
riferirci a Dio non rende Dio un maschio. (2)
Il Corano è la rivelazione di Dio, ma non è
Dio, e come tale ci invita a pensare criticamente e a
porre fiduciosi domande. Qualsiasi siano le domande e le
preoccupazioni sollevate, Dio può comprenderle e
soddisfare la nostra ricerca. (3)
Il Profeta Muhammad non è Dio ma un servo e un
messaggero di Dio e come essere umano soggetto ad errore.
Il modello del Profeta non è da ricercare in ogni
suo singolo insegnamento quanto piuttosto nel suo
coraggio nel vivere una vita dettata dalla sua fede e
dalle sue convinzioni al meglio della sua capacità
di comprensione. Le donne devono anche continuare
l'approccio storico critico allo studio delle fonti
disponibili per trarre informazioni sul Profeta
Muhammad. (4)
La s˜ari'a non è Dio e come tale è aperta a
una revisione completa dalle fondamenta ai particolari.
Mentre la Legge e la gestione della Legge restano un
aspetto centrale di ogni popolo o comunità inclusa
quella musulmana, la struttura e il contenuto di una
legge sono soggetti a revisione e cambiamento con
l'evolversi della comunità in una società e
una umma più equa nei confronti dei
sessi."
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Luce Irigaray (1991: 41) osserva che: "è in
Occidente che il genere di Dio guardiano di ogni soggetto
e discorso è sempre paterno e maschile". Una
teologia che rivela il divino attraverso l'incarnazione
in un corpo lo colloca per forza di cose in un genere e,
inevitabilmente, fornisce giudizi sul genere opposto. Una
teologia che colloca la manifestazione divina in un libro
(il Corano) non fornisce alcun giudizio sul genere. In
arabo, il termine di riferimento al divino è
huwa (egli), ma i grammatici e gli esegeti
concordano nel ritenere che non è allegorico:
l'arabo non possiede il neutro e l'uso del maschile
è normale in questa lingua per vocaboli neutri,
non esiste un'implicazione di preponderanza maschile
tanto quanto non esiste un'implicazione di preponderanza
femminile nel genere femminile di plurali neutri.
Ciò non significa che il genere sia assente dalla
metafisica musulmana. Gli studiosi di kalàm
lo hanno bandito dal mondo non fisico. Ma i sufi lo
leggono in tutto il creato: il Dio fenomenico si
manifesta non in uno ma nei due generi. L'aspetto
femminile di Dio ha permesso a quasi tutti i principali
autori sufi di riferirsi ad esso come layla -
l'amato celestiale - termine femminile che normalmente
significa "notte".
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Naturalmente
ci riferiamo a traduzioni dalla lingua araba. Per
tradizione l'arabistica si è maggiormente occupata
delle letterature arabe "orientali" lasciando in disparte
paesi come Tunisia, Marocco, Algeria e Libia e
privilegiando la conoscenza di autori egiziani e medio
orientali. È pur vero che negli ultimi quindici
anni la diffusione della letteratura arabofona ha avuto
un'impennata in quanto a numero di traduzioni pubblicate,
ma la maggior parte degli studi accademici sono ancor
oggi riferiti alla letteratura classica e il numero degli
autori tradotti rispetto ai titoli pubblicati è
esiguo. Alcuni coraggiosi tentativi sono stati fatta da
piccole case editrici come Jouvence (Roma, che traduce
esclusivamente dall'arabo) e Edizioni Lavoro (Roma), ma
se si censiscono le opere, si rileva che la stragrande
maggioranza viene tradotta dal francese in particolare
sulla scia di eventi che fanno notizia (come la
condizione della donna). In tal senso, ad esempio, la
letteratura contemporanea di un paese come la Tunisia
è praticamente inesistente sugli scaffali delle
librerie, mentre per l'Algeria la quasi totalità
dei titoli è di autori che scrivono in francese,
come a veicolare l'idea che l'arabo non sia lingua di
cultura (è questa è già una
notazione su cui riflettere).
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Le
tradizioni orali sono diventate fonti solo dal 1957,
quando, all'Università di Leuwen, per la prima
volta è stato accettato un lavoro di ricerca
ufficiale basato su fonti
orali.
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Vansina
dedica a questo aspetto una sola riga nella postfazione
scritta per la pubblicazione dell'edizione italiana, pur
affermando che la lista delle discipline utili allo
storico non finisce mai, né sembra aver cognizione
degli studi di Propp sull'analisi dei testi "letterari",
che pure tratta ampiamente.
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Caratteristica
della cultura superiore è l'educazione gestita
dallo stato; per questo gli stati indipendenti puntano
spesso sull'educazione per creare un'identità
nazionale.
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In
questo caso si parla pertanto di invenzione della
tradizione, per cui si veda Hobsbawm
(1993).
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In
Francia, ad esempio, solo il 10 maggio 1999 una legge
dell'Assemblea Nazionale ha riconosciuto l'utilizzo del
termine "guerra"in riferimento ai "fatti" d'Algeria
(Addi: 1995) 1954-61, fino ad allora nominati
esclusivamente con il termine
événements. In seguito a questa
ammissione si è avuto un boom di pubblicazioni
relative alla tortura utilizzata sistematicamente dai
militari francesi, ma, e questo è interessante a
nostro avviso per il nostro discorso, si trattava
esclusivamente di testimonianze "orali" (che hanno
perciò meno valore).
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Anche
la denominazione "berberi" rientra in questo contesto;
essa infatti deriva dall'arabo barbara,
"borbottare", vocabolo attribuito loro dagli arabi che,
giunti in Nord Africa, non comprendevano il loro
idioma.
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Tornando
all'Algeria e alla questione berbera, le richieste
principali del movimento autonomista berbero sono state
proprio in questo senso: introduzione dell'insegnamento
della lingua nelle scuole, richiesta di un canale radio e
di un telegiornale in linguaamazigh. Del resto
Salem Shakr, linguista dell'Institut National des Langues
et Civilisations Orientales (INALCO) di Parigi afferma
che è la lingua e non la storia che è
servita da polo di aggregazione identitario ai berberi.
Ciò risulta ancor più evidente se si
considera quanto i francesi abbiano contribuito alla
creazione di un movimento di rivendicazione berbero da
opporre al nazionalismo arabo algerino fin dai primi anni
della conquista (1830-1962) creando la corrente
"berberista" nella letteratura francese (Said: 1998, ma
anche Messadi: 1990), oltre a una scuola di scrittori, e
sostenendo la creazione dell'Accademia Berbera
(già nella seconda metà dell'800) la cui
sede è, ancora oggi, a Parigi e spingendo per la
trasposizione scritta del tifinagh con l'adozione
di caratteri latini peraltro assolutamente inadeguati dal
punto di vista fonetico a rendere i suoni del berbero;
tanto che si è dovuti ricorrere all'inserimento di
simboli presi dall'alfabeto... greco. Fino al 1980, anno
della "primavera berbera" il governo algerino non
riconosceva l'identità berbera. Ma nella nuova
costituzione del 1996 (sottoposta a referendum
consultivo) si afferma che l'identità nazionale
è fondata sull'arabismo, l'islàm e
l'"amazighinità". Non a caso quest'affermazione
ufficiale corrisponde a un declino del nazionalismo
algerino e dell'ideologia del partito unico; mentre i
berberi restano ancora in qualche modo legati all'ipotesi
camitica - soprattutto in campo linguistico - ormai
ampiamente superata.
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Questo perché gli "africani" erano considerati
troppo primitivi.
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Le autrici cui facciamo riferimento sono
principalmente Ghazala Anwar, Asma Barlas, Amina
Wadud-Muhsin, Rifaat Hassan, Aziza al-Hibri, Fatima
Naseef e Jadicha Candela. Riportiamo di seguito alcuni
stralci di due interviste da noi condotte in relazione
all'argomento: