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Dossier
Studi Culturali
Jolanda
Guardi
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- ISLÀM
E CULTURAL STUDIES
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- Esaminando
un qualunque carattere singolo di una
cultura, esso risulterà tale da non
essere solo economico o solo religioso, o
solo strutturale, ma da partecipare di
tutte queste qualità secondo
l'angolo da cui lo si
considera.
Gregory
Bateson (1988: 104)
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Gli studi culturali nei paesi a capitalismo avanzato
hanno trasformato l'oggetto di studi delle scienze
umane1.
In particolare, per quanto riguarda l'islàm, la
forte predominanza degli studi letterari ha ceduto il
passo all'interesse nel produrre letture di tutti i
tipi di testi di cultura e nell'indagare la
riproduzione delle soggettività. Questo
compito, in Italia, è stato assunto
principalmente dalle discipline antropologiche, che
hanno studiato le diverse manifestazioni della cultura
arabo musulmana tenendo conto di come l'ideologia
operi per determinare struttura e usi dei testi
stessi. La caratteristica principale che ha segnato il
rapporto fra studi culturali e islàm è,
come afferma A. Katz (1995: 2), "l'introduzione della
politicizzazione della teoria", nel senso che, se fino
ad anni recenti lo studio dell'islàm era
considerato e voluto come completamente distaccato da
qualsiasi inserimento in un contesto, l'ingresso dei
cultural studies ha costretto gli studiosi
della disciplina a rivolgere la ricerca più
sulle relazioni esistenti tra i diversi elementi che
compongono la cultura arabo musulmana che su i termini
stessi. È pur vero che in Italia questa nuova
prospettiva in cui inquadrare gli studi di islamistica
subisce un forte ritardo, dovuto a circostanze
storiche precise; in ogni caso sempre più
ricerche sono svolte nel contesto degli studi
culturali.
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- Nella prefazione a Il
fascino dell'Islam, Maxime Rodinson, commentando
Orientalismo di E. Said, afferma: "Larga parte
delle critiche rivolte all'orientalismo tradizionale
restano valide e l'effetto traumatico del libro si
rivelerà utilissimo se indurrà gli
specialisti a capire di non essere innocenti, come
ritengono di essere, a tentare di svelare quelle idee
generali a cui inconsapevolmente si ispirano, a
prendere coscienza e rivolgere ad esse uno sguardo
critico" (Rodinson: 1988, 14).
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- Rodinson, pur ponendo
l'accento sui limiti dell'opera di Said, ne riconosce
in questo il merito. In seguito alla pubblicazione di
Orientalismo, quindi, gli islamisti si sono
trovati a dover riconsiderare il loro modo di studiare
l'islàm e i musulmani. Essi si trovavano
"prigionieri in gran parte dell'orientalismo,
rinchiusi in un ghetto" (Rodinson: 1988, 143),
situazione questa aggravata dalle necessità di
specializzazione, in contrasto coll'essere legati ad
un conservatorismo conformista che spingeva e spinge
questa categoria di studiosi ad indietreggiare di
fronte a ciò che par loro legato alla
destabilizzazione. L'analisi di Rodinson mette in luce
un certo "ritardo" dell'islamistica nell'aprirsi alle
nuove discipline e una tendenza a restare ancorati a
schemi di ricerca tradizionali.
- Il fascino dell'Islam
è stato pubblicato, nell'edizione originale,
nel 1980, due anni dopo la pubblicazione di
Orientalismo, che però è stato
pubblicato in italiano nel 1991 per la prima volta. Il
ritardo nella traduzione è in parte dovuto alle
aspre polemiche suscitate nel nostro paese
dall'apparizione del volume: L'islamistica e
l'arabistica italiane ebbero come prima reazione una
totale chiusura; a conferma di ciò basti
leggere un fugace riferimento di Francesco Gabrieli al
testo di Said, definito come "(...) l'astiosa
requisitoria di un non orientalista arabo americano"
(Gabrieli: 1983, 401).
- Seppur lentamente, tuttavia,
un cambiamento si è verificato; la forza dei
cultural studies nel campo dell'arabistica e
dell'islamistica è quella di scardinare la
rigida separazione tra le aree umanistiche così
come in vigore fino ad oggi e creare un collegamento
fra le diverse discipline e la società
contemporanea. Non solo: il metodo, applicato allo
studio dell'islàm, ha permesso di dar voce a
due categorie di studiosi generalmente tenuti in
secondo piano nella disciplina, attori donne e non
occidentali2.
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- Metodologia
e storia
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- Affrontare il problema degli
strumenti metodologici a disposizione dello studioso
che voglia affrontare la ricerca nel campo degli studi
sul mondo musulmano pone quindi alcuni quesiti di base
ai quali è necessario rispondere per
contestualizzare la metodologia stessa. A livello
generale, a nostro avviso, non è possibile non
tener contro delle critiche mosse all'approccio
occidentale né di studi - certamente da leggere
criticamente - ma che in ogni caso hanno posto in
discussione la storia europea stessa3.
- È stato dunque
necessario, da un lato; "decolonizzare" (Sahli: 1965)
la storia, se non addirittura riscriverla tenendo
conto degli apporti delle culture arabo musulmane,
dall'altro riconoscere come il modello di riferimento
dell'occidente, la Grecia, facesse riferimento a sua
volta all'Africa, con tutte le conseguenze che ne
derivano4.
Questa riscrittura, questa necessità di
assumere in prima persona la responsabilità
della trasmissione dà esito su due fronti: il
recupero dell'oralità e la stesura di una
storia scritta da autoctoni (che si appropriano in
questo caso della parola scritta del colonizzatore;
Cadorna: 1991). Il nuovo progetto storico relativo
all'islàm può esser fatto risalire alla
pubblicazione di "L'ethnographie devant le
colonialisme" (Leiris: 1950), saggio che, per la prima
volta, elabora un'ampia analisi del rapporto tra
sapere antropologico e colonialismo. L'articolo di
Leiris è interessante perché anticipa il
momento in cui gli "oggetti" osservati avrebbero
ribaltato la situazione e sarebbero diventati
osservatori, smantellando lo sguardo occidentale
(Clifford: 1993, 294). Poco più di una decina
di anni dopo, nel 1962, si tenne ad Accra il Primo
Congresso Internazionale degli africanisti - non
ancora compiute tutte le indipendenze - al quale
parteciparono cinquecento specialisti provenienti da
cinquantatre paesi. Da subito, in questo primo
congresso, nasce l'idea di una Storia
dell'Africa, sostenuta dall'UNESCO. Nel rapporto
finale della riunione tenutasi a Parigi nel 1969 - la
Storia Generale dell'Africa sarà
composta di otto volumi che usciranno in tempi molto
lunghi (1978-1993) rispetto a quelli previsti -
leggiamo che "per essere scelti come relatori si deve
dar prova di una simpatia profonda per l'Africa e i
suoi problemi (...)" (Ogot: 1980, 17).
- Si cita la storia dell'Africa
dell'UNESCO, in primo luogo per rilevare come in
realtà Orientalismo abbia segnato l'acme
di un discorso già intrapreso, in secondo
luogo, perché in essa diversi paesi musulmani
entrano a far parte a pieno titolo del continente
africano, recuperando quelle radici che gli studiosi,
per motivi ideologici, avevano sempre cercato di
spezzare, considerando il mondo arabo a parte dal
resto del mondo africano (Ki-Zerbo: 1980,
40)5.
Ancora, a partire da questo momento, l'islàm
africano sarà sempre più al centro
dell'interesse degli islamisti, mentre in precedenza
era considerato islàm "periferico". Al nostro
discorso è particolarmente utile il primo
volume, Méthodologie e préhistoire
africane, che affronta il problema dell'esistenza
stessa delle culture. Secondo un'opinione diffusa fino
ad allora "la storia comincia quando l'uomo si mette a
scrivere" (Newton: 1923, 29). Buona parte delle lingue
e delle culture europee, tuttavia, è stata
creata, di fatto, dagli intellettuali (Amselle: 1997).
Trascrivendo le lingue, le consuetudini, il folklore,
la musica e diffondendo i loro scritti, costoro hanno
contribuito all'emergere dei nazionalismi europei dei
secoli XVIII e XIX, nonché alla comparsa dei
loro "sottoprodotti", le culture delle minoranze
etniche (Gellner: 1985; Clifford: 1993). Di
conseguenza, la logica culturale, che appare come una
delle principali acquisizioni dell'antropologia
(Latouche: 1993), è l'effetto di ritorno della
dominazione delle culture scritte su quelle orali
(Ong: 1986). I nostri predecessori hanno identificato
per noi una serie limitata di società che
producono "cultura". Le stesse definizioni di
società "senza" stato, "senza" scrittura,
definendo per mancanza, permettono di affermare la
superiorità dei nostri stati nazione
alfabetizzati (Cadorna: 1991; Amselle: 1997; Gellner:
1985). Non si tratta quindi di chiedersi se viene
prima il paganesimo o l'islàm, ma di postulare
un sincretismo originario (Amselle: 1997), una
mescolanza di cui è impossibile dissociare le
parti (Remotti: 1996)6.
- In tale ottica si sono
sviluppati una serie di studi che "talvolta senza
volerlo o saperlo" (Labanca: 2000, 146) si inseriscono
nei cultural studies.
- Intanto, a proposito delle
fonti per lo studio dell'islàm, si è
dato più ampio spazio allo studio di quelle
degli arabi stessi (lo studioso di islàm
è sempre più, contrariamente al passato,
anche un conoscitore della lingua araba); opere quali
la "Storia" di Tabari, Khalifa ibn Khayyat (la
più antica opera annalistica araba), il
Kitàb wulat misr wa qudatuha di Kindi
sulla storia dell'Egitto, hanno trovato spazio nelle
trattazioni del mondo musulmano con un'apertura verso
altri tipi di fonti come quelle geografiche,
giuridiche e religiose, archivistiche (fonti
d'archivio, atti di waqf e testi di
fatwa comparati e studiati insieme a documenti
europei che riguardano l'Egitto e il Maghreb), e alle
fonti orali, oggi rivalutate soprattutto per quanto
riguarda il periodo coloniale, per il quale, in alcuni
casi, non esiste quasi nulla di scritto da parte dei
colonizzati. Altri studiosi arabi del periodo classico
come Al-Mas'udi, al-Bakri, Ibn Battuta e Hasan ibn
Muhammad al-Wuzza (Leone l'Africano) sono stati presi
in considerazione come fonti per lo studio di altri
paesi come l'Africa subsahariana, l'India, la Cina o
anche l'Europa, come ha fatto Marc Bloch, che ha
utilizzato gli scritti di Ibn Khaldun per la sua
presentazione dell'Europa all'inizio del Medioevo
(Djait: 1980, 131-135). Non indifferente per gli studi
di islamistica è stato l'apporto dello studio
delle fonti orali. È stato dimostrato che gli
usuali canoni della critica storica (Vansina: 1976)
possono essere applicati alla raccolta sistematica e
all'interpretazione di tali dati7.
- Vansina sottolinea la
confusione che i metodi di altre discipline portano
allo storico e tuttavia sostiene
l'interdisciplinarità del metodo e
dell'utilizzo di altre discipline, che non vengono
più considerate accessorie, come archeologia,
geologia, ecc. e, in campo linguistico, - aspetto
centrale quando si tratta di islàm e ampiamente
trattato sia da Vansina che dall'Histoire
Générale - linguistica (non solo
storica), arabo, glottocronologia, antropologia
semantica e così via. L'aspetto che interessa
qui sottolineare è il contributo che il metodo
storico degli arabi può fornire agli studiosi
per il trattamento delle fonti orali: Vansina, nel suo
volume del 1976, fornisce una spiegazione del
funzionamento della tradizione orale nei seguenti
termini:
- osservatore ð fatto
osservato ð prototestimonianza ð ascoltatore 1
ð ascoltatore n,
- che comunica la tradizione a
colui che la mette per iscritto.
- Ora, per chi si occupa di
islàm, salta immediatamente agli occhi che si
tratta del metodo dell'isnàd (lett.
"catena") utilizzato per la trasmissione di
hadith (tradizioni riferite al profeta
Muhamamd), che sono tradizioni orali a tutti gli
effetti, per la valutazione della veridicità
dei quali esistono metodi collaudati dagli storici
musulmani da secoli. E dei quali lo studioso
può trarre strumenti molto
utili8;
inoltre, stabilito che la cultura arabo musulmana
è una cultura a oralità primaria (Ong:
1986), ampio spazio è stato dato alla
rivalutazione dell'analisi degli studiosi musulmani e
del ruolo dei rawi' e dei poeti, che svolgevano
un ruolo sociale fondamentale: essi, infatti,
specialmente nel primo periodo dell'islàm,
quando non si erano ancora formate le figure dello
storico, del giurista, del tradizionalista, del
teologo o del polemista, rivestivano una funzione
politico-religiosa all'interno della società
(Kilito: 1983).
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- Lingua
e linguistica araba
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- Strettamente connessa alla
questione dell'oralità è quella della
lingua, che ha da sempre rivestito un ruolo di primo
piano quale veicolo attraverso il quale è
passata l'affermazione identitaria - soprattutto nei
paesi musulmani - e si pensi al ruolo svolto dalla
lingua urdu nella costituzione dello stato pakistano -
a maggior ragione quando si è cercato di
veicolare quest'affermazione per mezzo di una lingua
scritta. Merito dei cultural studies è
stato, da un lato, quello di spingere la ricerca a
investigare il legame fra lingue musulmane e
nazionalismo: cuius regius eius lingua.
L'opinione corrente degli studiosi, infatti, era che
il nazionalismo tenderebbe a un'omologazione della
cultura e in tal senso il problema della lingua
sarebbe legato ad esso. In realtà recenti studi
hanno dimostrato il contrario (Gellner: 1985):
è il desiderio di omogeneità a creare il
nazionalismo. Quindi la lettura per cui il
nazionalismo sorge perché si recupera una
storia, una cultura, una lingua - spesso considerata
"pura" e "originaria" (Clifford: 1993, Remotti: 1996)
- va completamente capovolta: il nazionalismo soddisfa
una nuova esigenza di classe di alfabetizzazione
superiore che va a recuperare eredità storiche,
culturali e linguistiche (e ne siano un esempio le
recenti vicende dell'Afghanistàn). È
frutto dell'industrializzazione, della mobilità
e dell'omogeneizzazione della cultura
superiore9.
In base a quest'identificazione, le culture appaiono
allora come le naturali depositarie della
legittimità politica. In tale contesto si ha
una diffusione generalizzata della lingua mediata
dalla scuola e controllata a livello accademico, in
contrasto con ciò che invece il nazionalismo
stesso afferma (una cultura popolare esistita nel
passato) traendo il suo simbolismo dallo sha'b,
popolo contadino10.
- Fenomeni come
l'arabizzazione, la defrancesizzazione, la
colonizzazione e la decolonizzazione partono tutti per
agire su aspetti culturali ben più importanti
del contingente aspetto militare (oggi si parla,
infatti, di colonialismo culturale o neo-colonialismo
(Calchi: 1995) e il riconoscimento della "storia"
passa per la cultura e la lingua11.
- Nella società
musulmana, ad esempio, è evidente che le
società agricole non definiscono unità
politiche a partire dalla cultura: anche la "casta"
degli ulama', i dottori della legge, è
transpolitica e transetnica, poiché si basa
sulla religione. Esistevano dunque una cultura
superiore e una inferiore che si avvicendavano, ma non
alteravano sostanzialmente la società. È
la modernizzazione che fa cambiare le cose. Con
l'arrivo del colonialismo la variante inferiore viene
sconfessata e sfruttata, mentre quella superiore
diventa quella attorno alla quale si cristallizza il
nazionalismo (Gellner: 1985; Fanon: 1965, Chomsky:
1998 e 1998a), particolarmente nel caso di un gruppo
linguistico la cui lingua sia collegata a una
rivelazione, oppure - come nel caso dell'Algeria,
linguisticamente non omogenea - il gruppo musulmano si
contrappone ai detentori privilegiati del potere. In
Algeria l'arabizzazione è un'autotrasformazione
culturale che la modernizzazione, per quanto detto
supra, comporta. L'emergente nazionalismo
qabili (dall'arabo qabìla,
"tribù", termine significativo perché
denominazione data dagli arabi - cultura superiore -
nel momento dell'invasione del Nord
Africa12)
è interessante perché esprime il
sentimento di ex contadini urbanizzati che hanno
saputo ben approfittare dell'emigrazione in
città senza perdere la loro base rurale (e
difatti chiedono autonomia anziché
indipendenza, poiché non sono cultura
dominante)13.
- La linguistica araba, scienza
peraltro di recente formazione in Europa, mostra
ancora una certa reticenza ad accettare il fatto che
la denominazione "lingue camito-semitiche" sia ormai
desueta anche per questa disciplina e che sarebbe
più corretto parlare di lingue afro-asiatiche o
eritree (Greenberg: 1963). Questa denominazione,
"camitica", ormai in completo disuso per le etnie, e
formulata per la prima volta da C. G. Seligman,
attribuisce tutti gli avvenimenti culturalmente
rilevanti a una presunta popolazione camitica
proveniente dall'esterno dell'Africa14
e non è estranea, a nostro avviso, al radicarsi
della "questione berbera".
- Gli studi di linguistica
araba nell'ambito dei cultural studies,
inoltre, hanno portato in luce il fenomeno della
"glottofagia" (Calvet: 1977 e 1987) e hanno eroso,
lentamente ma inesorabilmente, la figura dell'arabista
come un esperto di lingua e letteratura araba classica
"che delimita per se stesso un campo in cui, con i
propri colleghi, è maestro e sovrano,
respingendo ogni apporto pertinente da parte di chi si
trovi al di fuori di tale campo" (Rodinson: 1980, 144;
Guardi: 2003).
- Franz Fanon, ne Il negro e
l'altro, conduce un'illuminante analisi del
rapporto fra negro e bianco, che è altrettanto
valida per il rapporto fra arabo e bianco, proprio
attraverso lo studio del linguaggio; e nel contempo
introduce, legato anch'esso alla questione
lingua-identità-nazionalismo, il discorso sulle
etnie, altro argomento che, nell'ottica degli studi
culturali, ha consentito una svolta nel campo degli
studi di islamistica.
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- Le
scienze umane
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- In questo settore si trovano
i contributi a nostro avviso più interessanti
per la comprensione del mondo musulmano moderno. Le
scienze umane sono, infatti, quelle che si sono
dimostrate più "aperte" allo studio
dell'islàm in un'ottica diversa; ciò ha
portato non solo alla riformulazione di concetti come
l'identità etnica o la tradizione, ma ha anche
permesso che venissero affrontati argomenti fino a
qualche anno fa considerati veri e propri tabù
in ambito accademico. Le culture materiali, le
espressioni artistiche, come danza (Nieuwkerk: 1995;
Guardi: 2000) e musica (Guardi: 2001) e anche la
letteratura hanno beneficiato ampiamente degli studi
culturali e le ricerche pubblicate (poche a vero dire
in italiano) hanno contribuito e contribuiscono a una
definizione il più possibile completa del mondo
musulmano (Fabietti: 2002, 24).
- Per quanto riguarda il
concetto di etnia, esso è il prodotto
dell'interazione tra politiche amministrative
coloniali e costruzioni intellettuali prodotte dagli
europei. La nomenclatura ad esse relativa è il
prodotto delle classificazioni volute dagli etnografi:
è perché si ha bisogno di creare
classificazioni e tipologie che servono elementi da
classificare, e se si può legittimamente
estrarli dal loro contesto è perché, fin
dal principio, si è negato che tali elementi
costituiscano unità politiche situate in un
continuum socioculturale (Hegel, a questo
proposito, parlava di "intelletto tabellare"). In
epoca coloniale questo concetto evolve in rapporto
alla griglia amministrativa e alle ideologie pratiche
del governo coloniale, per poi diventare uno dei
fulcri di aggregazione nel conflitto di interessi nel
periodo della decolonizzazione e, successivamente,
nella competizione per occupare il potere e
controllare le risorse. È nel quadro dello
slancio del nazionalismo nel secolo XIX, che rende
possibile l'adeguamento di una cultura alta, fondata
sulla scrittura e sull'esistenza di una classe di
professionisti del potere e del sacro (gli
ulema') e di uno stato territoriale, che si
costituisce la ragione etnologica, con la squalifica
delle società altre e degli altri in seno alle
società europee. Tutti i gruppi che non fanno
parte dello stato-nazione, esterni o minoritari,
vengono ormai confinati nelle razze o etnie esotiche e
nelle minoranze domestiche: e si badi che nazione qui
è inteso secondo la definizione culturale, non
quella volontaristica (Gellner: 1985), proprio per il
legame lingua-etnia-cultura ancestrale.
- Che cos'è allora
l'etnia, e come i cultural studies nel campo
dell'islamistica hanno contribuito a modificare la
visione delle società arabo-musulmane? Essa
è insieme realtà e invenzione,
poiché sempre riferita a circostanze storiche
specifiche e risulta anche chiaro che non sia l'unica
variabile che possa descrivere le complessità
delle trasformazioni storiche - nelle sue due
accezioni di vissuto di una comunità umana e
disciplina scientifica che spiega i nessi fra stato e
società, ricostruisce il passato e preannuncia
il futuro - e delle dinamiche politiche del mondo
arabo-musulmano. L'etnia viene rispolverata ancor oggi
dagli stati indipendenti - a riprova di quanto detto
supra - quanto più i regimi a partito
unico o militari hanno impedito la formazioni e
l'espressione di ogni altra organizzazione di
dissenso: si considerino a solo titolo di esempio i
due recenti casi dell'Afghanistan e dell'Iraq, dove,
nel primo caso, si è avuta un'invenzione della
tradizione (Fabietti: 2002; Hobsbawm: 1993) nel
secondo un movimento ortodosso, la sci'a,
è stato trasformato dai media in etnia. In
conseguenza di ciò il mondo musulmano è
stato studiato ampiamente a partire dalle origini
etniche delle nazioni (Smith: 1992) con particolare
interesse per l'islàm in Europa, in Nord
America e in Asia (Eickelman and Piscatori 1996). Le
implicazioni politiche e culturali a lungo termine
della laicizzazione dell'istruzione, il ruolo politico
degli artisti, la formazione di una società
civile sono stati studiati per definire come un'azione
politica possa essere riconosciuta come "musulmana" e
perché l'islàm sia un elemento che "fa
la differenza" nel determinare le politiche di buona
parte del mondo. Interessanti studi sulla concezione
dello spazio (Zannad: 1984), sulla sessualità
(Boudhiba: 1975), sull'immaginario (Chebel: 1993) e su
aspetti più strettamente sociologici
(Abdelmalek: 2002) hanno contribuito a mostrare come
l'islàm non sia un monolite e a meglio
definirne la transnazionalità.
- Studi
di genere
-
- All'interno di tale
prospettiva ampio è stato lo sviluppo degli
studi di genere. Oltre le descrizioni della condizione
della donna nell'islàm attraverso i secoli
(Ahmed: 1995) e alla riscrittura della storia da parte
delle donne (Mernissi: 1992) si è cominciato a
parlare di "genere, politica e islam"
(Saliba-Allen-Howard: 2002 e Badran: 1990) e a
superare lo stereotipo della donna araba (Sabbagh:
1996), per inserire il discorso di genere in una
cornice più ampia, che accomuni il gender
discourse musulmano a quello di altre
società. Particolarmente interessante il fatto
che a esprimersi e a pubblicare siano numerose donne
musulmane, anche con opere all'avanguardia. Merita
particolare attenzione il rapporto tra islàm e
femminismo, nello specifico la risposta alla domanda:
si può essere musulmane e
femministe?15
(Badran: 2002). Le donne musulmane, infatti, hanno
prodotto recentemente nuove letture del testo sacro,
il Corano, dando vita a un'ermeneutica al femminile
(Barlas: 2002, Wadud Muhsin: 1992; Anwàr:
1996). Una lettura che dimostri come le donne
musulmane possono lottare per l'indipendenza
all'interno dell'esegesi coranica, contrariamente a
quanto credono i musulmani conservatori (perché
ne hanno dato una lettura patriarcale) e quelli
progressisti (perché ritengono ci si debba
distaccare dal testo per andare verso svariate
sfumature di laicità), è
possibile.
- Si parte dal presupposto che,
innanzitutto, ogni religione è aperta a
varianti di lettura e dalla constatazione che,
poiché nell' islàm nessuno è
investito del monopolio dell'interpretazione del
significato religioso e non esiste un clero, detta
interpretazione è libera.
- Ciò detto, ovviamente,
contestare letture misogine o proporne di nuove non
è sufficiente; è anche necessario
stabilire la legittimità di ogni nuova lettura
a partire dal testo stesso; assunto fondamentale di
tutte le interpretazioni che si rifanno a questa linea
di pensiero è che nessun cambiamento
potrà aver luogo nelle società musulmane
se non deriva la propria legittimità dal testo
stesso del Corano.
- Questo è ciò
che sostengono diverse studiose musulmane che si
autodefiniscono e/o vengono definite femministe
musulmane. Il presupposto da cui si parte, pur se con
sfumature a volte non indifferenti, è che vi
è sempre stata una confusione fra islàm
normativo e islàm storico. Ovviamente la
condizione della donna nell'islàm storico non
è stata e non è determinata dal solo
fattore religioso, ma è stata soprattutto
determinata da un'interpretazione del testo sacro di
esclusivo monopolio maschile.
- In quanto testo, il Corano
è polisemico, ovvero aperto a interpretazioni
differenti. Le letture fino ad oggi proposte sono
letture patriarcali, per comprendere le quali è
necessario non solo studiare il rapporto tra
ermeneutica e storia, ma anche tra contenuto della
conoscenza e metodi attraverso i quali essa è
generata. Il compito non è ovviamente semplice.
Si parte però da una constatazione: nessuna
teoria della sovranità del maschio sulla donna
è compatibile con la dottrina del
tawhìd, perché Dio è uno. Il
concetto di tawhìd permette di classificare
come teologicamente errata qualsiasi lettura
interpretativa che ponga il maschio su un gradino
superiore alla donna. Una lettura del testo sacro,
inoltre, che suggerisca anche sottili paralleli tra
Dio e i maschi nella loro capacità di padri e
mariti nell'islàm dev'essere respinta come
eresia. Per riprendere le parole di Mary Daly nel suo
Beyond God the Father, chiamare Dio padre
è chiamare i padri Dio16.
Questo atteggiamento non è parte
dell'islàm. "Sono profondamente grata al fatto
che la mia prima idea di Dio sia stata formata
dall'islàm, perché sono stata capace di
pensare al divino come qualcosa di completamente senza
sesso o razza e pertanto completamente
'a-patriarcale'", afferma Sartar Aziz (Cleary-Aziz:
2000). Il testo stesso, tra l'altro, ci dice che
esistono alcune letture migliori di altre, mentre al
contempo nota il suo stesso essere polisemico (se
esistono letture migliori di altre, è ovvio, ve
n'è più di una).
- Queste letture - differenti
da quelle tradizionali - sono proposte da donne le
quali rompono quindi con una tradizione che vuole gli
interpreti del testo sacro maschi: donne credenti,
ovvero che non mettono in discussione il fatto che il
Corano sia parola di Dio.
- L'ermeneutica femminista
ricerca dunque nel Corano la conferma dell'uguaglianza
di genere, ritenendo sia stata occultata dagli esegeti
maschi che hanno redatto tafsìr
(commentari) a partire da un'ottica patriarcale.
È ancora il Corano stesso ad affermare in
diversi punti la parità tra uomo e donna.
Ontologicamente tutti gli esseri umani sono pertanto
uguali, si distinguono fra loro esclusivamente sulla
base della loro pratica del principio coranico
dell'equità. Dunque non c'è
contraddizione tra essere una musulmana e una
femminista, se per femminismo si intende il
perseguimento della realizzazione di un sistema di
genere più equo.
- Oltre a operare una
distinzione tra principi universali contenuti nel
Corano e principi legati alla situazione contingente
della società nella quale si verificò la
rivelazione, questa ermeneutica femminista opera
rileggendo versetti controversi da un'ottica
femminista, facendo costante riferimento a quei
versetti che enunciano in maniera inequivocabile
l'uguaglianza fra uomo e donna e, contemporaneamente,
sottolineando il contesto e affermando che è
solo in esso che un versetto può essere
compreso nel modo migliore.
-
- Letteratura
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- È purtroppo proprio
nel campo degli studi letterari che rileviamo
maggiormente la mancanza di quella lettura
"contrappuntistica" (Said: 1998) che permetterebbe una
migliore comprensione della cultura arabo musulmana.
Solo da pochi anni (e ci riferiamo qui alla sola
situazione italiana), infatti, si è cominciato
a parlare di letteratura dei singoli paesi
anziché di letteratura "araba" in generale,
anche se gli studi pubblicati restano fedeli a
un'impostazione di tipo storico descrittivo. Un
risultato, tuttavia, è sicuramente stato
raggiunto: l'interesse per il mondo arabo in generale
ha avuto come esito perlomeno la pubblicazione di
molte traduzioni. Ciononostante manca, a nostro
avviso, un progetto coerente e di ampio respiro -
basti pensare che le case editrici che hanno
pubblicato letteratura tradotta dall'arabo sono in
Italia 32 - che preveda la pubblicazione della
letteratura di un singolo paese, ad esempio, o che
copra un arco di tempo che possa render conto delle
trasformazioni graduali ma in continuo progresso del
mondo arabo, soprattutto per quanto riguarda gli stati
arabi del Maghreb17.
La letteratura, campo privilegiato dei cultural
studies, resta così legata a fattori
"evenemenziali" e viene proposta in base a scelte
puramente di "cassetta" spesso senza curare la
traduzione. L. Venuti (1999) parla di "violenza
etnocentrica della traduzione" e, nel caso della
letteratura araba, tale affermazione risulta
particolarmente corretta. Resta ancora un campo di
ricerca da approfondire il rapporto tra letteratura
araba e società che evidenzi se e in che modo
l'intellettuale arabo è il portavoce di una
determinata struttura sociale.
- La letteratura, per sua
natura stessa, dovrebbe essere "letta" dal maggior
numero di utenti possibile e contribuire dunque alla
decodificazione della realtà (e non è
questo forse uno dei significati della parola
"lettura"?) dei paesi arabo musulmani. Tale è,
in quest'ambito, la posta in gioco.
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