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Letteratura
- Elisa
Gambaro
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- IMMAGINI
DI SPAZIALITÀ NEI RACCONTI DI ELSA MORANTE E
KATHERINE MANSFIELD
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- Sulle
tracce di un'antica
ossessione
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- Roma - 19
Gennaio 1938
- Sogni
erotici.
- Evidentemente,
caro Antonio, la mia vita diventa ogni giorno
più stupida, una schiavitù e un'ansia
dei bisogni fisici: materiali e sessuali. Me ne
accorgo dai miei sogni. Ieri una stanza chiusa
dirimpetto alla mia casa attuale, ma dentro un
giardino. (Morante: 1990, 1579)
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- È questo l'incipit del
testo noto come Diario 1938, in cui un'Elsa
Morante ventiseienne annota per circa sei mesi i
propri sogni. Al lettore che vi si accosti, il
taccuino morantiano offre un'appassionante galleria di
situazioni e scenari schizzati con analitico
puntiglio, dove la tensione affettiva e intellettuale
della ricerca di sé trova figurazioni di grande
intensità.
- Nella fitta rete metaforica
che informa il testo, particolare predilezione
è riservata alla semantica dei luoghi: il
linguaggio del sogno tende spesso a rappresentare i
conflitti psichici in termini di iconografia spaziale,
e fin dalla prima pagina il diario esibisce un
inequivocabile nesso tra un diffuso senso di
umiliazione, di matrice sociale e sessuale, e il
minuzioso disegno di accidentate topografie oniriche.
Le sequenze di immagini di stanze, case, chiese,
creano un reticolo tanto ricco e pervasivo da destare
l'interesse autocritico della stessa scrivente, sempre
attenta a cogliere il potenziale metaforico dei propri
sogni: in un passo divenuto emblematico della poetica
morantiana, le molte cattedrali sognate sono
paragonate alla struttura del romanzo:
-
-
- Che miracolo il
sogno! Ora capisco da dove è nata la grande
e ombrosa cattedrale del mio. Ieri sera discorrendo
dell'arte nel romanzo e nell'intreccio con V.
ricordo di avere di sfuggita paragonato la
costruzione del racconto a un'architettura, a una
cattedrale, le scene isolate alle vetrate. Da
questa parola fuggitiva è nata quell'immensa
cattedrale sognata. (...) Che il segreto dell'arte
sia qui? Ricordare come l'opera si è
vista in uno stato di sogno, ridirla come si
è vista, cercare soprattutto di
ricordare. Ché forse tutto
l'inventare è ricordare (Morante: 1990,
1592).
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- Nell'intreccio tra
ricognizione dal profondo e riflessione sulla
scrittura, in cui lo sguardo impietoso sulle proprie
aggrovigliate pulsioni esistenziali non è mai
disgiunto dall'ansia di decifrare i moventi di una
vocazione, si fa strada la consapevolezza delle
analogie che apparentano il sogno e la fantasia
letteraria, entrambi contraddistinti dal ricorso ad
una figuralità cifrata.
- È una coscienza che la
giovane scrittrice deve avere a lungo approfondito, e
che segna lo sbocco di un'incerta stagione di
apprendistato. Proprio sul finire degli anni Trenta
l'incontro con il pensiero freudiano sul sogno, di cui
Diario 1938 è testimonianza
inequivocabile, contribuisce a dar forma ad un
repertorio immaginativo che rimarrà
pressoché inalterato, nei suoi caratteri
fondanti, lungo l'intera parabola artistica
morantiana.
- Ne fanno fede i racconti di
questo periodo, che troveranno sistemazione nel 1941,
nella raccolta Il gioco segreto, ma anche
quelli che dal libro d'esordio furono esclusi, riediti
di recente (Morante: 2002). Li accomuna un'atmosfera
inquieta e straniata, e certo le corrispondenze di
scenari e figure con i sogni trascritti in Diario
1938 avvalorano l'ipotesi del rilievo
dell'esperienza diaristica nell'elaborazione di una
personale materia narrativa.
- La radice onirica
dell'invenzione condiziona soprattutto l'articolazione
strutturale del testo: in genere i racconti esibiscono
un ordito temporale assai labile, ostentatamente
sfocato, a fronte di un dilatarsi delle descrizioni
ambientali, protratte con ossessivo puntiglio. Di qui
soprattutto deriva il senso di un universo bloccato e
immobile, fortemente angoscioso, ove domina
l'insistita nominazione del dettaglio, una sequenza di
case, stanze, oggetti e suppellettili instancabilmente
evocata.
- Significativamente, proprio
la rappresentazione di ambienti e luoghi pare indicare
la traccia di una contiguità sotterranea, ma
non per questo meno forte, tra l'opera giovanile e i
grandi romanzi della maturità artistica, per
cui gli scenari desolati o vetusti che fanno da sfondo
costante a questi racconti appaiono, alla memoria del
lettore, innegabilmente affini alla Palermo
"calcinosa" di Menzogna e sortilegio, o alla
Casa dei Guaglioni dell'Isola di Arturo
1.
- Se dunque è nella
prima stagione narrativa morantiana che andrà
cercata la genesi di alcune costanti spaziali
destinate a larga fortuna nell'opera successiva,
sarà utile chiedersi, preliminarmente, quale
trafila di suggestioni, ma soprattutto quale percorso
immaginativo, abbia indotto una topologia così
precisamente connotata. Le indicazioni interpretative
contenute in Diario 1938 sono in questo senso
preziose, poiché evidenziano la tendenza
dell'immaginazione morantiana ad inscenare i
più brucianti conflitti psichici in ambienti
chiusi, accentuatamente claustrofobici. Si comprendono
anche, in questa luce, le ragioni dell'influenza di un
autore come Kafka, così presente in alcuni di
questi racconti, e unico nome esplicitamente
riconosciuto da un'artista che ha sempre caparbiamente
negato filiazioni e parentele letterarie. Le turbate
geografie dello scrittore praghese, "il mondo delle
cancellerie e degli uffici, delle camere buie, logore
e muffite"(Benjamin: 1962, 276) dovevano riuscire
particolarmente congeniali all'immaginario del nostro
autore, suggerendo modalità compositive che,
diversamente declinate, avrebbero acquisito una forte
valenza semantica.
- Soprattutto, il senso di
angosciante spaesamento patito dai personaggi
morantiani allude ad un esilio nei confronti del
proprio corpo. Se in Diario 1938 è
sempre una stanza a contenere immagini di
fisicità umiliata e disfacimento corporeo, nei
racconti sono innumerevoli le associazioni tra interni
degradati e morbosa decadenza delle figure che li
abitano: si pensi per esempio alla "casa patrizia
disfatta e squallida" (Morante: 1988, 1463) in cui
languiscono i tre brutti fanciulli di Il gioco
segreto, o alle stanze spettrali in cui prendono
corpo i deliri del vecchio barone alcolizzato in Il
barone, o alla "camera sudicia e sconvolta" (1598)
dove è confinato il giudice protagonista di
Il cocchiere.
- Non basta tuttavia osservare
come in queste narrazioni operi a pieno titolo quella
fenomenologia del venerando-regressivo, e dello
sterile-nocivo, messa in luce da Francesco Orlando su
un vastissimo campionario di testi della letteratura
occidentale. Il fortissimo investimento metaforico
sulle coordinate spaziali del racconto, e il suo
rimandare, in ultima analisi, ad un dolente disagio
nei confronti della corporeità, suggeriscono di
sondare l'appartenenza dell'opera morantiana ad una
tradizione più nascosta, ma non meno influente,
di scrittura femminile.
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- Figure
di spazio chiuso: alcune ipotesi per un
confronto
-
- Sono state due studiose
americane, Sandra Gilbert e Susan Gubar, a
sottolineare la spiccata frequenza di metafore
spaziali nella letteratura scritta da donne,
testimonianza di vere e proprie "inquietudini nei
confronti dello spazio"2,
che delineerebbero una rete tematica diffusa,
condivisa da autrici anche distanti per
identità geografica e culturale. Quasi che
l'immaginario narrativo femminile debba
necessariamente confrontarsi con gli archetipi
secolari che associano il corpo della donna
all'immagine della caverna, della casa, della stanza:
davvero l'ossessione morantiana per gli spazi chiusi
non pare isolata.
- Il primo nome che si propone
al critico è quello di Katherine Mansfield, di
cui Morante tradusse nel 1945 il Quaderno degli
appunti. Si tratta dell'unica traduzione
intrapresa dalla scrittrice in tutta la sua carriera;
altrettanto significativa appare la scelta di
rivolgersi ad un testo di carattere privato,
ascrivibile ad un genere pseudo-diaristico, di incerta
definizione tipologica e fisionomia espressiva,
tradizionalmente praticato dalle donne. Le analogie
tra i racconti delle due autrici hanno forse origine
in questo retroterra condiviso di una scrittura del
sé, impura ed irrisolta, e trovano terreno di
verifica nell'impostazione delle coordinate spaziali
della diegesi.
- A prima vista, invero, le
differenze non potrebbero sembrare più marcate:
cosa possono avere in comune gli scenari decrepiti e
ctonii dei giovanili racconti morantiani con il mondo
aereo e luminoso che invece domina nelle storie
dell'autrice neozelandese? In realtà, sfondi
tanto eterogenei celano una matrice unitaria, per cui
entrambe le scrittrici scelgono di ambientare le loro
storie in quella che considerano una terra d'origine,
un luogo arcano vagheggiato da un esilio
irreversibile: per Mansfield è la Nuova
Zelanda, il "paese non scoperto" dell'infanzia evocato
sull'onda di una nostalgia impetuosa, mentre il
"triste Mezzogiorno" morantiano, luogo natale del
padre della scrittrice, si configura come lo spazio di
un'infanzia originaria (Rosa: 1995, 43), escluso dai
sommovimenti della storia. Due regioni geograficamente
marginali, dunque, dove proiettare la leggenda di un
passato perduto: si avvalora, nella genesi dei testi,
una solidarietà profonda tra la costruzione
dello spazio narrativo e i temi fondanti
dell'identità e della memoria.
- Che le coordinate topologiche
della narrazione siano guidate, in Mansfield e
Morante, da intenti espressivi consimili sembrerebbe
poi confermato da un altro, e più strutturale,
motivo di affinità: a fronte di geografie
dislocate e lontane, analoga è l'assenza di
straniamenti paesistici e tentazioni esotiche, mentre
la rappresentazione di un altrove perduto converge
nella preferenza accordata ad ambienti accentuatamente
quotidiani e domestici. Si è detto
dell'assoluta preponderanza delle scene d'interno nei
racconti morantiani, ma lo stesso accade in Mansfield,
dove l'esuberante scenario naturale neozelandese
appare appena di scorcio, spesso nella dimensione
ingentilita dei giardini che circondano le dimore, e
sfondo della narrazione sono piuttosto le case e le
stanze, e le suppellettili ivi contenute.
- Ciò che tuttavia
maggiormente colpisce, in una lettura comparata di
questi racconti, è la funzione strutturale
delegata alla rappresentazione degli interni
domestici: secondo una medesima tendenza a caricare la
cifra simbolica della descrizione d'ambiente quanto
più accurata ne è la mimesi realistica,
in entrambe le autrici i luoghi chiusi appaiono
costantemente associati alla costruzione dei
personaggi femminili.
- Nei casi più evidenti,
si assiste ad una sorta di indissolubilità tra
scena e personaggio, per cui lo spazio chiuso finisce
per diventare una vera e propria marca di
riconoscimento della figura attanziale. Una soluzione
di questo tipo impronta interi racconti, tutti giocati
sull'applicazione di un'unità di luogo che
assume manifeste connotazioni claustrali: l'anonima
narratrice di Il ladro dei lumi è
inseparabile dalla casa dove si trova confinata,
prospiciente il tempio ebraico, mentre Antonia,
protagonista di Via dell'Angelo, vive
addirittura in un convento. Vere e proprie "monache di
casa" sono le figlie del defunto colonnello
dell'omonimo racconto mansfieldiano, che
instancabilmente si aggirano per le quattro stanze del
loro appartamento senza mai uscirne.
- Questa rappresentazione
metaforica di luoghi chiusi non attiene solo alla
superficie tematica della rappresentazione, ma ne
coinvolge inevitabilmente l'aspetto tecnico. Tipico il
caso in cui, bandita ogni analisi introspettiva, la
disseminazione discreta ma reiterata di immagini di
chiusura associata ad un personaggio ne rivela
efficacemente lo stato di disperazione. Così
accade in due racconti di solitudine come La nonna
e Miss Brill, entrambi incentrati su donne
anziane. Nella novella morantiana, la figura
inquietante e pietosa della nonna, folle di gelosia
per il matrimonio del figlio, è spesso
rappresentata nell'atto di raggomitolarsi "negli
angoli della sua camera" (1438), o "immobile in una
delle nicchie così numerose in quella casa"
(1437). Analogamente la desolazione di Miss Brill,
vecchia, povera e sola, è traslata sulle
immagini ricorrenti e complementari dell'armadio e
della stanza d'affitto: "the little dark room - her
room like a cupboard"(Mansfield: 1981,
335).
- A conferma della sua valenza
strutturale, e della sua forte connessione con una
semantica del corpo, il motivo di vincoli oppressivi
finisce per connotare persino l'abbigliamento di
questi personaggi. Secondo una costante iconografica
che si propaga fino alla figura di Cesira in
Menzogna e sortilegio, le vecchie morantiane
non sono solo confinate in angoli appartati o in
camere anguste3,
ma indossano immancabilmente
fasciature4
che ne comprimono le forme fisiche, oppure - come per
la nonna del racconto omonimo, ma lo stesso
sarà per Cesira - calzano stivaletti con
stringhe e lacciuoli. È curioso ritrovare in
Mansfield l'impiego del medesimo dettaglio in un
contesto narrativo assai simile: in Life of Ma
Parker, un racconto ossessivamente tramato di
notazioni claustrali, la vecchia donna delle pulizie,
acciaccata e logora, è alle prese con
stivaletti altrettanto costrittivi: "her face was
drawn and screwed up ready for the twinge before she'd
so much as untied the laces" (302).
- Se nel caso di donne anziane
lo spazio chiuso diviene sinonimo di esclusione ed
isolamento irreversibile, il medesimo motivo assume
più accentuate valenze angosciose quando la
narrazione coinvolge personaggi femminili in
età feconda. I racconti morantiani offrono un
vasto campionario di ambienti angusti ed oppressivi,
ma è in particolare lo sguardo dolente e
straniato di giovani donne a declinare la
rappresentazione su toni esplicitamente
claustrofobici, attivando incubi
ricorrenti:
-
-
- Elena si
aggirava per quelle stanze come in fondo ad un
pozzo. Con gli occhi cercava la luce, ma le pareva
di essere rinchiusa fra mura lisce e senza uscita,
di cui tentava la scalata con sforzi replicati e
vani. (...) Di nuovo fu assalita dall'antico male,
e la parete oscura gravò su di lei come un
incubo; ma pensò che doveva partire, e si
scosse (1425-1427).
-
- Sarei fuggita
sulla strada ma non avevo più forza nelle
gambe. Nessuno mi liberava. Tutti camminavano in
punta di piedi, e poi cominciai a gridare,
perché la camera si vuotò, e io non
vidi più niente, eccetto lui. (...) Sentivo
la neve cadere intorno, e le pareti scendevano
ripiegandosi su me e su lui (1421).
-
-
- Non è difficile
cogliere le implicazioni sessuali sottese alla messa
in scena di simili ossessioni di imprigionamento e
fuga5:
immagini come queste sono comuni a moltissima
letteratura femminile, dove alla drammatizzazione di
uno spazio chiuso è delegata, consapevolmente o
meno, l'espressione di secolari risentimenti per una
reclusione storica, nonché il disagio nei
confronti di un corpo percepito come prigione e
condanna. Davvero la gioia beata e il senso di
deliziosa protezione di cui parla Bachelard a
proposito delle figure letterarie della casa e della
stanza subiscono qui un radicale rovesciamento di
segno.
- Così, se in Morante
l'insofferenza nei confronti dei luoghi circoscritti
è spesso associata ad una latente minaccia di
violenza maschile, nell'opera mansfieldiana le
sensazioni di claustrofobia sono per eccellenza
prerogativa del personaggio di Linda Burnell, la donna
sfiancata da maternità non volute e preda
dell'avido desiderio del marito. Prelude, il
lungo racconto che dà inizio alla saga
familiare dei Burnell, si apre non a caso con una
sequenza potentemente allusiva: la famiglia sta
traslocando, e il carrozzino è talmente pieno
di bagagli che le due bimbe più piccole sono
costrette a rimanere a terra. L'incipit è
lapidario: "There was not an inch of room for Lottie
and Kezia in the buggy (...) 'We shall simply have to
leave them. That is all. We shall simply have to cast
them off' said Linda" (11). Si noti che una situazione
narrativa molto simile, dove l'opposizione spaziale
dentro-fuori è metaforicamente connessa alla
maternità e al corpo femminile, si ritrova
anche in un racconto di Morante, Due sposi molto
giovani, dove la protagonista Isabella sogna un
bambino che picchia sull'uscio, invocando di
entrare6.
La rappresentazione di una spazialità
intimamente conflittuale conosce del resto ulteriori
articolazioni comuni: con eloquente parallelismo
rispetto alla Elena del racconto morantiano, nella
camera matrimoniale Linda sente la propria voce "from
the deep well" (23), e analoga è la
deformazione percettiva dello spazio, per cui le
pareti della stanza sembrano sinistramente
animarsi:
-
-
- She turned over
to the wall and idly, with one finger, she traced a
poppy on the wall-paper with a leaf and a stem and
a fat bursting bud. In the quiet, and under her
tracing finger, the poppy seemed to come alive. She
could feel the sticky, silky petals, the stem,
hairy like a gooseberry skin, the rough leaf and
the tight glazed bud. Things had a habit of coming
alive like that. Not only large substantial things
like furniture but curtains and the patterns of
stuffs and the fringes of quilts and cushions
(27).
-
-
-
- Con
gli occhi delle bambine
-
- La densità figurale
dello spazio chiuso, caricato di un peso metaforico
tanto forte, finisce tuttavia per disegnare una
topologia bifronte, così che accanto a valenze
di oppressione e clausura la stanza esprime anche
liberazione, possibilità inesplorate e
investimento fantastico7,
secondo una dinamica di rovesciamento speculare
riscontrabile nei testi di entrambe le autrici.
Né potrebbe del resto essere altrimenti, se
è vero che il luogo chiuso è deputato a
figurare un'identità femminile tradizionalmente
scissa ed instabile, nonché a dare forma
testuale alle costitutive ambivalenze della logica
psichica. Interessante è semmai notare che
Morante e Mansfield si servano anche in questo caso di
costellazioni tematiche ed espedienti formali assai
simili, filtrando la rappresentazione di uno spazio
positivamente inteso attraverso la focalizzazione
infantile, e declinandola nei motivi contigui del
gioco e del teatro. Così, se casa e stanza
significano isolamento per le donne anziane, e
prigione per quelle più giovani, gli stessi
luoghi divengono scenari di meravigliosa apertura
immaginativa se visti con gli occhi delle
bambine8.
- Nei racconti mansfieldiani,
è di solito il personaggio della piccola Kezia
a farsi portatore di uno sguardo eccentrico e
trasfigurante sugli interni domestici. Nella seconda
sezione di Prelude, la bambina si avventura
nella casa rimasta vuota dopo il trasloco: il registro
mimetico della descrizione, volto a evidenziare il
carattere patriarcale e coloniale della dimora, sfuma
nelle tonalità trasognate della visione
infantile, che converte lo spazio piatto della
quotidianità borghese in un luogo di
magie.
- Vale la pena di notare che
proprio questo tipo di focalizzazione ristretta sembra
far emergere con maggior insistenza nella descrizione
un'iconografia degli oggetti desueti, attivando in
particolare, nelle nostre autrici, quel processo di
reversibilità fra logoro-realistico e
prezioso-potenziale che esemplifica il ritorno nel
testo letterario di ciò che è stato
represso e tacitato (Orlando: 1993, 393-397).
Così Kezia si incanta di fronte agli scarti
rimasti nelle stanze abbandonate, "a lump of gritty
yellow soap in one corner of the kitchen window-sill",
o "a piece of flannel stained with a blue bag" (14), e
trova "a stay-button stuck in a crack of the floor,
and in another crack some beads and a long needle"
(15).
- Nell'opera di Morante,
dominata da un immaginario costantemente in bilico tra
realtà sordide e sfrenata accensione
fantastica, il procedimento è poi davvero
pervasivo. Impossibile dare conto delle innumerevoli
occorrenze di reversibilità tra funzionale e
anti-funzionale; a titolo esemplificativo riporto solo
un passo, dal racconto Il figlio, dove la
matrice freudiana della rappresentazione rasenta la
parafrasi di concetti psicoanalitici: "In
realtà, ora anch'egli se ne accorgeva: e
inebetito fissava quello che gli era parso un
guizzante barbaglio di gemme colorate e invece, massa
putrida e viscosa, si decomponeva sotto i suoi occhi"
(Morante: 2002, 141). Fin dalle prime prove, l'autrice
si serve sistematicamente di questa tecnica per dare
corpo ad un'idea della letteratura come sede elettiva
di ambivalenza: ad accamparsi all'interno della
diegesi è la tematizzazione della costitutiva
ambiguità del sogno, dell'illusione, della
menzogna, e, in ultima istanza, della scrittura
stessa.
- Si pensi a come è
costruito un testo importante come Il gioco
segreto, uno dei racconti morantiani che enuclea
con maggior efficacia motivi cari alla fantasia del
futuro romanziere. Trascinati dalla malia del teatro,
i tre bambini protagonisti sublimano la loro esistenza
mortificata e squallida in un'epopea fascinosa: ancora
una volta entra in gioco la deformazione allucinata
delle coordinate spaziali, ma l'animarsi delle pareti
della stanza, che altrove prendeva forme claustrobiche
e angoscianti, si rovescia qui nella visione di un
illimitato paesaggio esterno. Davanti allo sguardo
estatico della protagonista Antonietta, i pallidi
lacerti degli affreschi che ornano la stanza di un
palazzotto in rovina prendono letteralmente vita:
-
- Il silenzio
della notte era enorme; il vento si era fermato
affinché gli alberi del bosco non
stormissero. Antonietta era in piedi presso un
albero dipinto nel quale d'improvviso
cominciò a scorrere la linfa. Uccelli
addormentati ma vivi giacquero fra le foglie
(1472).
-
-
- Siamo di fronte ad un esempio
di quello che Lotman definisce "attorcigliamento
spaziale", per cui "se in un ambiente chiuso si compie
un'azione fantastica, esso perde la sua qualità
di 'interno'"(Lotman: 1975, 208). In questa luce, la
scelta di declinare in senso teatrale la topografia
narrativa rivela una forte valenza metaletteraria,
peraltro congrua all'enfasi posta, nel racconto, sul
potere metamorfico della parola poetica. Le coordinate
topologiche del testo morantiano sembrano infatti dare
consistenza concreta al carattere fondamentalmente
scenico dello spazio artistico, uno spazio chiuso che,
citando ancora Lotman, "può incarnarsi in un
interno domestico, le cui frontiere (pareti) vengono
raffigurate sulle decorazioni sceniche"
(208).
- Anche la sperimentazione per
molti aspetti pionieristica della focalizzazione
infantile da parte di Mansfield si avvale di metafore
spaziali strutturalmente molto simili, con analoga
funzione trasgressiva e liberatoria. A titolo
esemplificativo potremmo considerare due racconti, uno
giovanile e uno più tardo. Il primo è
How Pearl Button was Kidnapped, del 1910:
dunque una dozzina d'anni posteriore a What Maisie
Knew di Henry James, il testo che inaugura un uso
sistematico e protratto della focalizzazione
infantile. Il racconto di Mansfield narra di una
bambina, Pearl Button appunto, che viene sottratta
alla "House of Boxes" per essere condotta in un mondo
colorato e bizzarro. Di per sé, la novella non
è molto più che un divertissement
onirico-fiabesco; pure colpiscono la rappresentazione
della casa d'origine come una scatola chiusa, secondo
un leitmotiv frequente nell'opera
mansfieldiana, e il fatto che il luogo ignoto dove
approda la bimba sia una casetta di legno, minuscola,
ma priva di pareti. Il secondo racconto, The Doll's
House, conclude il ciclo Burnell ed è
ancora una volta imperniato sulla figura di Kezia. Le
bambine Burnell hanno ricevuto in dono una casa delle
bambole: è una meraviglia, perfettamente
arredata e completa di tutto; mentre le piccole vi si
accostano estasiate, il discorso indiretto libero
segnala uno slittamento di prospettiva che induce un
ironico ribaltamento del topos
ibseniano9:
-
- the whole house
front swung back, and - there you were, gazing at
one and the same moment into drawing-room and
dining-room, the kitchen and two bedrooms. That is
the way for a house to open! Why don't all houses
open like that? How much more exciting than peering
through the slit of a door into a mean little hall
with a hat-stand and two umbrellas! (...) Perhaps
it is the way God opens houses at the dead of night
when He is taking a quiet turn with an angel...
(383-384).
-
-
- Come il teatro immaginario
creato dai personaggi morantiani, anche qui il gioco
assurge a metafora modellizzante dello spazio
artistico come trasgressione dei confini imposti.
Palcoscenico o scatola che sia, lo spazio del racconto
è strutturalmente limitato, eppure, riprendendo
un'altra suggestiva immagine lotmaniana che pare quasi
un commento al passo proposto, "un lato della
'scatoletta' è aperto, ma non corrisponde allo
spazio, bensì al punto di vista" (Lotman: 1975,
194).
- Sia in Morante sia in
Mansfield le oscillazioni della focalizzazione interna
contribuiscono con efficacia a costruire una topologia
narrativa assai dinamica e sfaccettata, benché
ostinatamente circoscritta; si direbbe anzi che quanto
più l'ambientazione esibisce connotati di
chiusura, tanto più intenso sia il rifrangersi
e il moltiplicarsi delle prospettive, e marcato
l'effetto di dilatazione spaziale.
- A tal fine, un'ulteriore
strategia compositiva è individuabile
nell'estesa frequenza, in entrambe le autrici, di
immagini di finestre e specchi quando occorrano
descrizioni di luoghi chiusi. Sono anzi forse queste
le figure che sottintendono con maggiore
densità metaforica il conflitto proiettato
sulle coordinate spaziali della diegesi, dove
claustrofobia e claustrofilia, prigionia e liberazione
si alternano in affreschi narrativi tanto conturbanti
quanto apparentemente dimessi.
- Indicatori liminari, sia la
finestra sia lo specchio sono mezzi in grado di
duplicare ed espandere l'orizzonte visivo, ma anche di
restringerlo, chiudendolo in una cornice; in questo
senso si rivelano espedienti figurali particolarmente
atti ad inscenare quella che Gilbert e Gubar
definiscono il motivo femminile fondante della
reclusione-fuga, "the basic female enclosure-escape
story" (1979: 315).
- Non solo: come attesta un
corpus ormai cospicuo di letteratura scritta da donne,
da Jane Eyre a Frankenstein,
l'instabilità delle coordinate spaziali e la
frammentazione del punto di vista vanno di pari passo
con una diffusa ossessione per la duplicità e
lo sdoppiamento identitario. Non a caso, nei testi di
Mansfield e Morante specchi e finestre appaiono spesso
in contesti narrativi omologhi: di solito, una giovane
donna che guarda e si guarda, o meglio è
guardata.
- Le sezioni finali dei due
maggiori racconti mansfieldiani, Prelude e
At the Bay 10,
sono ad esempio simmetricamente costruite sul calco di
una medesima scena. In entrambi i casi, protagonista
è Beryl Fairfield, la giovane sorella nubile di
Linda Burnell: nel primo, sola nella propria stanza,
Beryl è in preda ad uno smarrimento
esistenziale profondo, tanto che l'atto di riflettersi
nello specchio induce una vera e propria fenomenologia
dissociativa:
-
-
- She jumped up
and half unconsciously, half consciously she
drifted over to the looking-glass. (...) But even
as she looked the smile faded from her lips and
eyes. Oh, God, there she was, back again, playing
the same old game. False - false as ever. (...)
False even when she was alone with herself, now.
What had that creature in the glass to do with her,
and why was she staring? (57-58)
-
-
- Anche in At the Bay la
messa in scena del processo di sdoppiamento avviene
all'interno di una stanza, e anzi in un primo tempo lo
spazio circoscritto sembrerebbe assumere una funzione
protettiva, quasi un'immagine di compattezza e
coesione individuale. Subito dopo, tuttavia, la
costitutiva scissione dell'io femminile prende il
sopravvento, inverandosi nei modi della proiezione
desiderante: mentre il monologo interiore si fa
dialogo mentale, virando su toni vagamente
bovaristici, il topos liminare della finestra sancisce
l'irrisoluta antitesi tra ripiegamento interiore e
desiderio di fuga:
-
-
- It's a darling
little funny room. It's yours. Oh, what a joy it is
to own things! Mine- mine own! "My very own for
ever?" "Yes." Their lips met. No, of course, that
had nothing to do with it. That was all nonsense
and rubbish. But, in spite of herself, Beryl saw so
plainly two people standing in the middle of her
room. Her arms were round his neck; he held her.
(...) She jumped off her bed, ran over to the
window and kneeled on the window-seat, with her
elbows on the sill (241).
-
-
- Una drammatizzazione ancora
più pregnante dei turbamenti identitari di
giovani donne al cospetto dell'alterità virile
è offerta da Morante in Via dell'Angelo;
anche in questo caso, il significato della pagina
è tutto giocato sulle antitesi spaziali
aperto-chiuso, declinate attraverso le icone della
finestra e dello specchio:
-
- E si
avviò alla finestra, senza più
vergogna, anzi compiacendosi in segreto d'esser
nuda, e levando sulle punte dei piedi il corpo
sottile e candido. Si vedeva al di là dei
vetri una valle deserta piena di un lontano
misterioso chiarore, e Antonia, come una canna sul
fiume, si specchiò in quella verde notte. Ma
guardando alla montagna che chiudeva la valle, in
cima ad inaccessibili alture, scorse a picco una
casa solitaria (...) - Che cosa è quel
palazzo che si vede? - domandò a voce
bassissima, perduta nel contemplarlo. (...) - Non
mi parlare di quella cosa, - esclamò infine
[l'altro] fermandosi dinanzi ad Antonia e
fissandola quasi con odio, - possibile che tu non
sappia tacere? - Ella imbarazzata e spaurita si
nascondeva, avrebbe voluto indietreggiare sempre
più nel buio e cercava di coprirsi con le
braccia, tanto ora si vergognava del suo corpo -
(1988, 1458-1459).
-
-
- È forse uno dei testi
in cui il nesso tra corporeità e spazio
narrativo appare tanto più esplicito, quanto
più manifesta è l'alternanza di
esibizionismo e pudore in rapporto al situarsi del
personaggio nella cornice ambientale. La trasparenza
della rappresentazione e le sue perspicue
qualità visionarie attingono probabilmente ad
un sostrato onirico, del resto facilmente
documentabile, considerando che il racconto fu steso
nel 1938, contemporaneamente al diario morantiano da
cui avevamo preso le mosse. Una nota del 28 gennaio
non solo attesta una zona di massima prossimità
tra sogno e invenzione, ma soprattutto illumina
l'ineludibile connotazione di genere da cui muovono le
coordinate della scrittura letteraria:
-
-
- Di queste notti,
tre punti sono rimasti nella mia mente. I visi di
mia madre, il mio corpo nudo, esile, gentile e
candido, con quell'adolescenza sua, davanti alla
vetrata, e quella casa allungata che splende un po'
vitrea e ferrigna in cima alla vetta, di fronte
alla vetrata, ma lontanissimo oltre la campagna.
Una specie di parallelismo tra il mio chiaro corpo
e quella casa (1990, 1595).
-
-
-
- Un
cronotopo solo in apparenza
paradossale
-
- Si potrebbe a questo punto
obiettare che l'immaginario letterario della
modernità, maschile come femminile, offre un
vastissimo campionario di sdoppiamenti, sosia, e in
genere figure intente a problematizzare l'unità
psichica dell'individuo. Non può tuttavia
sfuggire che nel caso della letteratura scritta da
donne la questione si ponga su basi differenti: non si
tratta infatti di raccontare l'incrinarsi di
un'identità data, che ha storicamente goduto di
forme forti di autorappresentazione, quanto piuttosto
di mettere in scena la costitutiva frammentazione di
un soggetto definito a partire dall'altro da
sé.
- Di qui soprattutto la
polisemia degli spazi nei racconti analizzati, frutto
di un gioco prospettico di sguardi che si avvicina
alla logica multidimensionale delle impressioni
oniriche. Mentre guardano, le eroine di Mansfield e di
Morante si vedono guardate.
- Non si comprenderebbe,
altrimenti, perché mai nei testi delle nostre
autrici la definizione delle fisionomie attanziali sia
tanto enfaticamente delegata al simbolismo sparso
della topologia, e rifiuti invece un paradigma di
rappresentazione linearmente orientato. Costruiti su
coordinate di spazio tanto riccamente articolate, i
racconti di Mansfield e Morante esibiscono una
compagine temporale singolarmente statica. Così
l'atmosfera stregata delle novelle morantiane si
avvale degli effetti dell'indeterminatezza cronologica
attraverso l'impiego costante di moduli iterativi,
fino ad arrivare, come accade ad esempio in L'uomo
dagli occhiali, alla sospensione programmatica del
tempo dell'avventura. Allo stesso modo, in Mansfield
l'azione sembra procedere unicamente in virtù
del semplice giustapporsi degli ambienti
descritti11,
complice anche l'estrema rarefazione di procedimenti
analettici e prolettici e la durata generalmente breve
del tempo della storia: poche ore, al massimo una
giornata, in cui non accade davvero nulla di
eccezionale.
- Certo, la narrazione breve
facilita per sua natura un simile cronotopo, che
sarebbe invece assai più arduo mantenere
all'interno di una compagine romanzesca. Pure, il
fatto che entrambe le autrici abbiano svolto un lungo
tirocinio nella forma racconto non sembra casuale, e
suggerisce motivazioni più intimamente
necessitate: se la produzione letteraria femminile
deve prioritariamente confrontarsi con le sfasature di
un'autorappresentazione problematica, un modello
diegetico lineare e progressivo risulta inservibile.
Meglio allora affidarsi ad una memoria di sé
affettivizzata e profonda, che, per paradosso solo
apparente, è in realtà sempre
localizzata, molto più topografica che
temporale.
- La morte precoce precluse a
Katherine Mansfield la via del romanzo, a cui pure la
scrittrice si stava lentamente avvicinando; quanto a
Elsa Morante, l'imponente affabulazione romanzesca di
Menzogna e sortilegio doveva non a caso partire
dalla cameretta di Elisa, per sanare la ferita tra
soggettività e scrittura.
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