Letteratura

 
Elisa Gambaro
 
IMMAGINI DI SPAZIALITÀ NEI RACCONTI DI ELSA MORANTE E KATHERINE MANSFIELD
 

Sulle tracce di un'antica ossessione
 
 
Roma - 19 Gennaio 1938
Sogni erotici.
Evidentemente, caro Antonio, la mia vita diventa ogni giorno più stupida, una schiavitù e un'ansia dei bisogni fisici: materiali e sessuali. Me ne accorgo dai miei sogni. Ieri una stanza chiusa dirimpetto alla mia casa attuale, ma dentro un giardino. (Morante: 1990, 1579)
 
 
È questo l'incipit del testo noto come Diario 1938, in cui un'Elsa Morante ventiseienne annota per circa sei mesi i propri sogni. Al lettore che vi si accosti, il taccuino morantiano offre un'appassionante galleria di situazioni e scenari schizzati con analitico puntiglio, dove la tensione affettiva e intellettuale della ricerca di sé trova figurazioni di grande intensità.
Nella fitta rete metaforica che informa il testo, particolare predilezione è riservata alla semantica dei luoghi: il linguaggio del sogno tende spesso a rappresentare i conflitti psichici in termini di iconografia spaziale, e fin dalla prima pagina il diario esibisce un inequivocabile nesso tra un diffuso senso di umiliazione, di matrice sociale e sessuale, e il minuzioso disegno di accidentate topografie oniriche. Le sequenze di immagini di stanze, case, chiese, creano un reticolo tanto ricco e pervasivo da destare l'interesse autocritico della stessa scrivente, sempre attenta a cogliere il potenziale metaforico dei propri sogni: in un passo divenuto emblematico della poetica morantiana, le molte cattedrali sognate sono paragonate alla struttura del romanzo:
 
 
Che miracolo il sogno! Ora capisco da dove è nata la grande e ombrosa cattedrale del mio. Ieri sera discorrendo dell'arte nel romanzo e nell'intreccio con V. ricordo di avere di sfuggita paragonato la costruzione del racconto a un'architettura, a una cattedrale, le scene isolate alle vetrate. Da questa parola fuggitiva è nata quell'immensa cattedrale sognata. (...) Che il segreto dell'arte sia qui? Ricordare come l'opera si è vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l'inventare è ricordare (Morante: 1990, 1592).
 
 
Nell'intreccio tra ricognizione dal profondo e riflessione sulla scrittura, in cui lo sguardo impietoso sulle proprie aggrovigliate pulsioni esistenziali non è mai disgiunto dall'ansia di decifrare i moventi di una vocazione, si fa strada la consapevolezza delle analogie che apparentano il sogno e la fantasia letteraria, entrambi contraddistinti dal ricorso ad una figuralità cifrata.
È una coscienza che la giovane scrittrice deve avere a lungo approfondito, e che segna lo sbocco di un'incerta stagione di apprendistato. Proprio sul finire degli anni Trenta l'incontro con il pensiero freudiano sul sogno, di cui Diario 1938 è testimonianza inequivocabile, contribuisce a dar forma ad un repertorio immaginativo che rimarrà pressoché inalterato, nei suoi caratteri fondanti, lungo l'intera parabola artistica morantiana.
Ne fanno fede i racconti di questo periodo, che troveranno sistemazione nel 1941, nella raccolta Il gioco segreto, ma anche quelli che dal libro d'esordio furono esclusi, riediti di recente (Morante: 2002). Li accomuna un'atmosfera inquieta e straniata, e certo le corrispondenze di scenari e figure con i sogni trascritti in Diario 1938 avvalorano l'ipotesi del rilievo dell'esperienza diaristica nell'elaborazione di una personale materia narrativa.
La radice onirica dell'invenzione condiziona soprattutto l'articolazione strutturale del testo: in genere i racconti esibiscono un ordito temporale assai labile, ostentatamente sfocato, a fronte di un dilatarsi delle descrizioni ambientali, protratte con ossessivo puntiglio. Di qui soprattutto deriva il senso di un universo bloccato e immobile, fortemente angoscioso, ove domina l'insistita nominazione del dettaglio, una sequenza di case, stanze, oggetti e suppellettili instancabilmente evocata.
Significativamente, proprio la rappresentazione di ambienti e luoghi pare indicare la traccia di una contiguità sotterranea, ma non per questo meno forte, tra l'opera giovanile e i grandi romanzi della maturità artistica, per cui gli scenari desolati o vetusti che fanno da sfondo costante a questi racconti appaiono, alla memoria del lettore, innegabilmente affini alla Palermo "calcinosa" di Menzogna e sortilegio, o alla Casa dei Guaglioni dell'Isola di Arturo 1.
Se dunque è nella prima stagione narrativa morantiana che andrà cercata la genesi di alcune costanti spaziali destinate a larga fortuna nell'opera successiva, sarà utile chiedersi, preliminarmente, quale trafila di suggestioni, ma soprattutto quale percorso immaginativo, abbia indotto una topologia così precisamente connotata. Le indicazioni interpretative contenute in Diario 1938 sono in questo senso preziose, poiché evidenziano la tendenza dell'immaginazione morantiana ad inscenare i più brucianti conflitti psichici in ambienti chiusi, accentuatamente claustrofobici. Si comprendono anche, in questa luce, le ragioni dell'influenza di un autore come Kafka, così presente in alcuni di questi racconti, e unico nome esplicitamente riconosciuto da un'artista che ha sempre caparbiamente negato filiazioni e parentele letterarie. Le turbate geografie dello scrittore praghese, "il mondo delle cancellerie e degli uffici, delle camere buie, logore e muffite"(Benjamin: 1962, 276) dovevano riuscire particolarmente congeniali all'immaginario del nostro autore, suggerendo modalità compositive che, diversamente declinate, avrebbero acquisito una forte valenza semantica.
Soprattutto, il senso di angosciante spaesamento patito dai personaggi morantiani allude ad un esilio nei confronti del proprio corpo. Se in Diario 1938 è sempre una stanza a contenere immagini di fisicità umiliata e disfacimento corporeo, nei racconti sono innumerevoli le associazioni tra interni degradati e morbosa decadenza delle figure che li abitano: si pensi per esempio alla "casa patrizia disfatta e squallida" (Morante: 1988, 1463) in cui languiscono i tre brutti fanciulli di Il gioco segreto, o alle stanze spettrali in cui prendono corpo i deliri del vecchio barone alcolizzato in Il barone, o alla "camera sudicia e sconvolta" (1598) dove è confinato il giudice protagonista di Il cocchiere.
Non basta tuttavia osservare come in queste narrazioni operi a pieno titolo quella fenomenologia del venerando-regressivo, e dello sterile-nocivo, messa in luce da Francesco Orlando su un vastissimo campionario di testi della letteratura occidentale. Il fortissimo investimento metaforico sulle coordinate spaziali del racconto, e il suo rimandare, in ultima analisi, ad un dolente disagio nei confronti della corporeità, suggeriscono di sondare l'appartenenza dell'opera morantiana ad una tradizione più nascosta, ma non meno influente, di scrittura femminile.

Figure di spazio chiuso: alcune ipotesi per un confronto
 
Sono state due studiose americane, Sandra Gilbert e Susan Gubar, a sottolineare la spiccata frequenza di metafore spaziali nella letteratura scritta da donne, testimonianza di vere e proprie "inquietudini nei confronti dello spazio"2, che delineerebbero una rete tematica diffusa, condivisa da autrici anche distanti per identità geografica e culturale. Quasi che l'immaginario narrativo femminile debba necessariamente confrontarsi con gli archetipi secolari che associano il corpo della donna all'immagine della caverna, della casa, della stanza: davvero l'ossessione morantiana per gli spazi chiusi non pare isolata.
Il primo nome che si propone al critico è quello di Katherine Mansfield, di cui Morante tradusse nel 1945 il Quaderno degli appunti. Si tratta dell'unica traduzione intrapresa dalla scrittrice in tutta la sua carriera; altrettanto significativa appare la scelta di rivolgersi ad un testo di carattere privato, ascrivibile ad un genere pseudo-diaristico, di incerta definizione tipologica e fisionomia espressiva, tradizionalmente praticato dalle donne. Le analogie tra i racconti delle due autrici hanno forse origine in questo retroterra condiviso di una scrittura del sé, impura ed irrisolta, e trovano terreno di verifica nell'impostazione delle coordinate spaziali della diegesi.
A prima vista, invero, le differenze non potrebbero sembrare più marcate: cosa possono avere in comune gli scenari decrepiti e ctonii dei giovanili racconti morantiani con il mondo aereo e luminoso che invece domina nelle storie dell'autrice neozelandese? In realtà, sfondi tanto eterogenei celano una matrice unitaria, per cui entrambe le scrittrici scelgono di ambientare le loro storie in quella che considerano una terra d'origine, un luogo arcano vagheggiato da un esilio irreversibile: per Mansfield è la Nuova Zelanda, il "paese non scoperto" dell'infanzia evocato sull'onda di una nostalgia impetuosa, mentre il "triste Mezzogiorno" morantiano, luogo natale del padre della scrittrice, si configura come lo spazio di un'infanzia originaria (Rosa: 1995, 43), escluso dai sommovimenti della storia. Due regioni geograficamente marginali, dunque, dove proiettare la leggenda di un passato perduto: si avvalora, nella genesi dei testi, una solidarietà profonda tra la costruzione dello spazio narrativo e i temi fondanti dell'identità e della memoria.
Che le coordinate topologiche della narrazione siano guidate, in Mansfield e Morante, da intenti espressivi consimili sembrerebbe poi confermato da un altro, e più strutturale, motivo di affinità: a fronte di geografie dislocate e lontane, analoga è l'assenza di straniamenti paesistici e tentazioni esotiche, mentre la rappresentazione di un altrove perduto converge nella preferenza accordata ad ambienti accentuatamente quotidiani e domestici. Si è detto dell'assoluta preponderanza delle scene d'interno nei racconti morantiani, ma lo stesso accade in Mansfield, dove l'esuberante scenario naturale neozelandese appare appena di scorcio, spesso nella dimensione ingentilita dei giardini che circondano le dimore, e sfondo della narrazione sono piuttosto le case e le stanze, e le suppellettili ivi contenute.
Ciò che tuttavia maggiormente colpisce, in una lettura comparata di questi racconti, è la funzione strutturale delegata alla rappresentazione degli interni domestici: secondo una medesima tendenza a caricare la cifra simbolica della descrizione d'ambiente quanto più accurata ne è la mimesi realistica, in entrambe le autrici i luoghi chiusi appaiono costantemente associati alla costruzione dei personaggi femminili.
Nei casi più evidenti, si assiste ad una sorta di indissolubilità tra scena e personaggio, per cui lo spazio chiuso finisce per diventare una vera e propria marca di riconoscimento della figura attanziale. Una soluzione di questo tipo impronta interi racconti, tutti giocati sull'applicazione di un'unità di luogo che assume manifeste connotazioni claustrali: l'anonima narratrice di Il ladro dei lumi è inseparabile dalla casa dove si trova confinata, prospiciente il tempio ebraico, mentre Antonia, protagonista di Via dell'Angelo, vive addirittura in un convento. Vere e proprie "monache di casa" sono le figlie del defunto colonnello dell'omonimo racconto mansfieldiano, che instancabilmente si aggirano per le quattro stanze del loro appartamento senza mai uscirne.
Questa rappresentazione metaforica di luoghi chiusi non attiene solo alla superficie tematica della rappresentazione, ma ne coinvolge inevitabilmente l'aspetto tecnico. Tipico il caso in cui, bandita ogni analisi introspettiva, la disseminazione discreta ma reiterata di immagini di chiusura associata ad un personaggio ne rivela efficacemente lo stato di disperazione. Così accade in due racconti di solitudine come La nonna e Miss Brill, entrambi incentrati su donne anziane. Nella novella morantiana, la figura inquietante e pietosa della nonna, folle di gelosia per il matrimonio del figlio, è spesso rappresentata nell'atto di raggomitolarsi "negli angoli della sua camera" (1438), o "immobile in una delle nicchie così numerose in quella casa" (1437). Analogamente la desolazione di Miss Brill, vecchia, povera e sola, è traslata sulle immagini ricorrenti e complementari dell'armadio e della stanza d'affitto: "the little dark room - her room like a cupboard"(Mansfield: 1981, 335).
A conferma della sua valenza strutturale, e della sua forte connessione con una semantica del corpo, il motivo di vincoli oppressivi finisce per connotare persino l'abbigliamento di questi personaggi. Secondo una costante iconografica che si propaga fino alla figura di Cesira in Menzogna e sortilegio, le vecchie morantiane non sono solo confinate in angoli appartati o in camere anguste3, ma indossano immancabilmente fasciature4 che ne comprimono le forme fisiche, oppure - come per la nonna del racconto omonimo, ma lo stesso sarà per Cesira - calzano stivaletti con stringhe e lacciuoli. È curioso ritrovare in Mansfield l'impiego del medesimo dettaglio in un contesto narrativo assai simile: in Life of Ma Parker, un racconto ossessivamente tramato di notazioni claustrali, la vecchia donna delle pulizie, acciaccata e logora, è alle prese con stivaletti altrettanto costrittivi: "her face was drawn and screwed up ready for the twinge before she'd so much as untied the laces" (302).
Se nel caso di donne anziane lo spazio chiuso diviene sinonimo di esclusione ed isolamento irreversibile, il medesimo motivo assume più accentuate valenze angosciose quando la narrazione coinvolge personaggi femminili in età feconda. I racconti morantiani offrono un vasto campionario di ambienti angusti ed oppressivi, ma è in particolare lo sguardo dolente e straniato di giovani donne a declinare la rappresentazione su toni esplicitamente claustrofobici, attivando incubi ricorrenti:
 
 
Elena si aggirava per quelle stanze come in fondo ad un pozzo. Con gli occhi cercava la luce, ma le pareva di essere rinchiusa fra mura lisce e senza uscita, di cui tentava la scalata con sforzi replicati e vani. (...) Di nuovo fu assalita dall'antico male, e la parete oscura gravò su di lei come un incubo; ma pensò che doveva partire, e si scosse (1425-1427).
 
Sarei fuggita sulla strada ma non avevo più forza nelle gambe. Nessuno mi liberava. Tutti camminavano in punta di piedi, e poi cominciai a gridare, perché la camera si vuotò, e io non vidi più niente, eccetto lui. (...) Sentivo la neve cadere intorno, e le pareti scendevano ripiegandosi su me e su lui (1421).
 
 
Non è difficile cogliere le implicazioni sessuali sottese alla messa in scena di simili ossessioni di imprigionamento e fuga5: immagini come queste sono comuni a moltissima letteratura femminile, dove alla drammatizzazione di uno spazio chiuso è delegata, consapevolmente o meno, l'espressione di secolari risentimenti per una reclusione storica, nonché il disagio nei confronti di un corpo percepito come prigione e condanna. Davvero la gioia beata e il senso di deliziosa protezione di cui parla Bachelard a proposito delle figure letterarie della casa e della stanza subiscono qui un radicale rovesciamento di segno.
Così, se in Morante l'insofferenza nei confronti dei luoghi circoscritti è spesso associata ad una latente minaccia di violenza maschile, nell'opera mansfieldiana le sensazioni di claustrofobia sono per eccellenza prerogativa del personaggio di Linda Burnell, la donna sfiancata da maternità non volute e preda dell'avido desiderio del marito. Prelude, il lungo racconto che dà inizio alla saga familiare dei Burnell, si apre non a caso con una sequenza potentemente allusiva: la famiglia sta traslocando, e il carrozzino è talmente pieno di bagagli che le due bimbe più piccole sono costrette a rimanere a terra. L'incipit è lapidario: "There was not an inch of room for Lottie and Kezia in the buggy (...) 'We shall simply have to leave them. That is all. We shall simply have to cast them off' said Linda" (11). Si noti che una situazione narrativa molto simile, dove l'opposizione spaziale dentro-fuori è metaforicamente connessa alla maternità e al corpo femminile, si ritrova anche in un racconto di Morante, Due sposi molto giovani, dove la protagonista Isabella sogna un bambino che picchia sull'uscio, invocando di entrare6. La rappresentazione di una spazialità intimamente conflittuale conosce del resto ulteriori articolazioni comuni: con eloquente parallelismo rispetto alla Elena del racconto morantiano, nella camera matrimoniale Linda sente la propria voce "from the deep well" (23), e analoga è la deformazione percettiva dello spazio, per cui le pareti della stanza sembrano sinistramente animarsi:
 
 
She turned over to the wall and idly, with one finger, she traced a poppy on the wall-paper with a leaf and a stem and a fat bursting bud. In the quiet, and under her tracing finger, the poppy seemed to come alive. She could feel the sticky, silky petals, the stem, hairy like a gooseberry skin, the rough leaf and the tight glazed bud. Things had a habit of coming alive like that. Not only large substantial things like furniture but curtains and the patterns of stuffs and the fringes of quilts and cushions (27).
 
 

Con gli occhi delle bambine
 
La densità figurale dello spazio chiuso, caricato di un peso metaforico tanto forte, finisce tuttavia per disegnare una topologia bifronte, così che accanto a valenze di oppressione e clausura la stanza esprime anche liberazione, possibilità inesplorate e investimento fantastico7, secondo una dinamica di rovesciamento speculare riscontrabile nei testi di entrambe le autrici. Né potrebbe del resto essere altrimenti, se è vero che il luogo chiuso è deputato a figurare un'identità femminile tradizionalmente scissa ed instabile, nonché a dare forma testuale alle costitutive ambivalenze della logica psichica. Interessante è semmai notare che Morante e Mansfield si servano anche in questo caso di costellazioni tematiche ed espedienti formali assai simili, filtrando la rappresentazione di uno spazio positivamente inteso attraverso la focalizzazione infantile, e declinandola nei motivi contigui del gioco e del teatro. Così, se casa e stanza significano isolamento per le donne anziane, e prigione per quelle più giovani, gli stessi luoghi divengono scenari di meravigliosa apertura immaginativa se visti con gli occhi delle bambine8.
Nei racconti mansfieldiani, è di solito il personaggio della piccola Kezia a farsi portatore di uno sguardo eccentrico e trasfigurante sugli interni domestici. Nella seconda sezione di Prelude, la bambina si avventura nella casa rimasta vuota dopo il trasloco: il registro mimetico della descrizione, volto a evidenziare il carattere patriarcale e coloniale della dimora, sfuma nelle tonalità trasognate della visione infantile, che converte lo spazio piatto della quotidianità borghese in un luogo di magie.
Vale la pena di notare che proprio questo tipo di focalizzazione ristretta sembra far emergere con maggior insistenza nella descrizione un'iconografia degli oggetti desueti, attivando in particolare, nelle nostre autrici, quel processo di reversibilità fra logoro-realistico e prezioso-potenziale che esemplifica il ritorno nel testo letterario di ciò che è stato represso e tacitato (Orlando: 1993, 393-397). Così Kezia si incanta di fronte agli scarti rimasti nelle stanze abbandonate, "a lump of gritty yellow soap in one corner of the kitchen window-sill", o "a piece of flannel stained with a blue bag" (14), e trova "a stay-button stuck in a crack of the floor, and in another crack some beads and a long needle" (15).
Nell'opera di Morante, dominata da un immaginario costantemente in bilico tra realtà sordide e sfrenata accensione fantastica, il procedimento è poi davvero pervasivo. Impossibile dare conto delle innumerevoli occorrenze di reversibilità tra funzionale e anti-funzionale; a titolo esemplificativo riporto solo un passo, dal racconto Il figlio, dove la matrice freudiana della rappresentazione rasenta la parafrasi di concetti psicoanalitici: "In realtà, ora anch'egli se ne accorgeva: e inebetito fissava quello che gli era parso un guizzante barbaglio di gemme colorate e invece, massa putrida e viscosa, si decomponeva sotto i suoi occhi" (Morante: 2002, 141). Fin dalle prime prove, l'autrice si serve sistematicamente di questa tecnica per dare corpo ad un'idea della letteratura come sede elettiva di ambivalenza: ad accamparsi all'interno della diegesi è la tematizzazione della costitutiva ambiguità del sogno, dell'illusione, della menzogna, e, in ultima istanza, della scrittura stessa.
Si pensi a come è costruito un testo importante come Il gioco segreto, uno dei racconti morantiani che enuclea con maggior efficacia motivi cari alla fantasia del futuro romanziere. Trascinati dalla malia del teatro, i tre bambini protagonisti sublimano la loro esistenza mortificata e squallida in un'epopea fascinosa: ancora una volta entra in gioco la deformazione allucinata delle coordinate spaziali, ma l'animarsi delle pareti della stanza, che altrove prendeva forme claustrobiche e angoscianti, si rovescia qui nella visione di un illimitato paesaggio esterno. Davanti allo sguardo estatico della protagonista Antonietta, i pallidi lacerti degli affreschi che ornano la stanza di un palazzotto in rovina prendono letteralmente vita:
 
Il silenzio della notte era enorme; il vento si era fermato affinché gli alberi del bosco non stormissero. Antonietta era in piedi presso un albero dipinto nel quale d'improvviso cominciò a scorrere la linfa. Uccelli addormentati ma vivi giacquero fra le foglie (1472).
 
 
Siamo di fronte ad un esempio di quello che Lotman definisce "attorcigliamento spaziale", per cui "se in un ambiente chiuso si compie un'azione fantastica, esso perde la sua qualità di 'interno'"(Lotman: 1975, 208). In questa luce, la scelta di declinare in senso teatrale la topografia narrativa rivela una forte valenza metaletteraria, peraltro congrua all'enfasi posta, nel racconto, sul potere metamorfico della parola poetica. Le coordinate topologiche del testo morantiano sembrano infatti dare consistenza concreta al carattere fondamentalmente scenico dello spazio artistico, uno spazio chiuso che, citando ancora Lotman, "può incarnarsi in un interno domestico, le cui frontiere (pareti) vengono raffigurate sulle decorazioni sceniche" (208).
Anche la sperimentazione per molti aspetti pionieristica della focalizzazione infantile da parte di Mansfield si avvale di metafore spaziali strutturalmente molto simili, con analoga funzione trasgressiva e liberatoria. A titolo esemplificativo potremmo considerare due racconti, uno giovanile e uno più tardo. Il primo è How Pearl Button was Kidnapped, del 1910: dunque una dozzina d'anni posteriore a What Maisie Knew di Henry James, il testo che inaugura un uso sistematico e protratto della focalizzazione infantile. Il racconto di Mansfield narra di una bambina, Pearl Button appunto, che viene sottratta alla "House of Boxes" per essere condotta in un mondo colorato e bizzarro. Di per sé, la novella non è molto più che un divertissement onirico-fiabesco; pure colpiscono la rappresentazione della casa d'origine come una scatola chiusa, secondo un leitmotiv frequente nell'opera mansfieldiana, e il fatto che il luogo ignoto dove approda la bimba sia una casetta di legno, minuscola, ma priva di pareti. Il secondo racconto, The Doll's House, conclude il ciclo Burnell ed è ancora una volta imperniato sulla figura di Kezia. Le bambine Burnell hanno ricevuto in dono una casa delle bambole: è una meraviglia, perfettamente arredata e completa di tutto; mentre le piccole vi si accostano estasiate, il discorso indiretto libero segnala uno slittamento di prospettiva che induce un ironico ribaltamento del topos ibseniano9:
 
the whole house front swung back, and - there you were, gazing at one and the same moment into drawing-room and dining-room, the kitchen and two bedrooms. That is the way for a house to open! Why don't all houses open like that? How much more exciting than peering through the slit of a door into a mean little hall with a hat-stand and two umbrellas! (...) Perhaps it is the way God opens houses at the dead of night when He is taking a quiet turn with an angel... (383-384).
 
 
Come il teatro immaginario creato dai personaggi morantiani, anche qui il gioco assurge a metafora modellizzante dello spazio artistico come trasgressione dei confini imposti. Palcoscenico o scatola che sia, lo spazio del racconto è strutturalmente limitato, eppure, riprendendo un'altra suggestiva immagine lotmaniana che pare quasi un commento al passo proposto, "un lato della 'scatoletta' è aperto, ma non corrisponde allo spazio, bensì al punto di vista" (Lotman: 1975, 194).
Sia in Morante sia in Mansfield le oscillazioni della focalizzazione interna contribuiscono con efficacia a costruire una topologia narrativa assai dinamica e sfaccettata, benché ostinatamente circoscritta; si direbbe anzi che quanto più l'ambientazione esibisce connotati di chiusura, tanto più intenso sia il rifrangersi e il moltiplicarsi delle prospettive, e marcato l'effetto di dilatazione spaziale.
A tal fine, un'ulteriore strategia compositiva è individuabile nell'estesa frequenza, in entrambe le autrici, di immagini di finestre e specchi quando occorrano descrizioni di luoghi chiusi. Sono anzi forse queste le figure che sottintendono con maggiore densità metaforica il conflitto proiettato sulle coordinate spaziali della diegesi, dove claustrofobia e claustrofilia, prigionia e liberazione si alternano in affreschi narrativi tanto conturbanti quanto apparentemente dimessi.
Indicatori liminari, sia la finestra sia lo specchio sono mezzi in grado di duplicare ed espandere l'orizzonte visivo, ma anche di restringerlo, chiudendolo in una cornice; in questo senso si rivelano espedienti figurali particolarmente atti ad inscenare quella che Gilbert e Gubar definiscono il motivo femminile fondante della reclusione-fuga, "the basic female enclosure-escape story" (1979: 315).
Non solo: come attesta un corpus ormai cospicuo di letteratura scritta da donne, da Jane Eyre a Frankenstein, l'instabilità delle coordinate spaziali e la frammentazione del punto di vista vanno di pari passo con una diffusa ossessione per la duplicità e lo sdoppiamento identitario. Non a caso, nei testi di Mansfield e Morante specchi e finestre appaiono spesso in contesti narrativi omologhi: di solito, una giovane donna che guarda e si guarda, o meglio è guardata.
Le sezioni finali dei due maggiori racconti mansfieldiani, Prelude e At the Bay 10, sono ad esempio simmetricamente costruite sul calco di una medesima scena. In entrambi i casi, protagonista è Beryl Fairfield, la giovane sorella nubile di Linda Burnell: nel primo, sola nella propria stanza, Beryl è in preda ad uno smarrimento esistenziale profondo, tanto che l'atto di riflettersi nello specchio induce una vera e propria fenomenologia dissociativa:
 
 
She jumped up and half unconsciously, half consciously she drifted over to the looking-glass. (...) But even as she looked the smile faded from her lips and eyes. Oh, God, there she was, back again, playing the same old game. False - false as ever. (...) False even when she was alone with herself, now. What had that creature in the glass to do with her, and why was she staring? (57-58)
 
 
Anche in At the Bay la messa in scena del processo di sdoppiamento avviene all'interno di una stanza, e anzi in un primo tempo lo spazio circoscritto sembrerebbe assumere una funzione protettiva, quasi un'immagine di compattezza e coesione individuale. Subito dopo, tuttavia, la costitutiva scissione dell'io femminile prende il sopravvento, inverandosi nei modi della proiezione desiderante: mentre il monologo interiore si fa dialogo mentale, virando su toni vagamente bovaristici, il topos liminare della finestra sancisce l'irrisoluta antitesi tra ripiegamento interiore e desiderio di fuga:
 
 
It's a darling little funny room. It's yours. Oh, what a joy it is to own things! Mine- mine own! "My very own for ever?" "Yes." Their lips met. No, of course, that had nothing to do with it. That was all nonsense and rubbish. But, in spite of herself, Beryl saw so plainly two people standing in the middle of her room. Her arms were round his neck; he held her. (...) She jumped off her bed, ran over to the window and kneeled on the window-seat, with her elbows on the sill (241).
 
 
Una drammatizzazione ancora più pregnante dei turbamenti identitari di giovani donne al cospetto dell'alterità virile è offerta da Morante in Via dell'Angelo; anche in questo caso, il significato della pagina è tutto giocato sulle antitesi spaziali aperto-chiuso, declinate attraverso le icone della finestra e dello specchio:
 
E si avviò alla finestra, senza più vergogna, anzi compiacendosi in segreto d'esser nuda, e levando sulle punte dei piedi il corpo sottile e candido. Si vedeva al di là dei vetri una valle deserta piena di un lontano misterioso chiarore, e Antonia, come una canna sul fiume, si specchiò in quella verde notte. Ma guardando alla montagna che chiudeva la valle, in cima ad inaccessibili alture, scorse a picco una casa solitaria (...) - Che cosa è quel palazzo che si vede? - domandò a voce bassissima, perduta nel contemplarlo. (...) - Non mi parlare di quella cosa, - esclamò infine [l'altro] fermandosi dinanzi ad Antonia e fissandola quasi con odio, - possibile che tu non sappia tacere? - Ella imbarazzata e spaurita si nascondeva, avrebbe voluto indietreggiare sempre più nel buio e cercava di coprirsi con le braccia, tanto ora si vergognava del suo corpo - (1988, 1458-1459).
 
 
È forse uno dei testi in cui il nesso tra corporeità e spazio narrativo appare tanto più esplicito, quanto più manifesta è l'alternanza di esibizionismo e pudore in rapporto al situarsi del personaggio nella cornice ambientale. La trasparenza della rappresentazione e le sue perspicue qualità visionarie attingono probabilmente ad un sostrato onirico, del resto facilmente documentabile, considerando che il racconto fu steso nel 1938, contemporaneamente al diario morantiano da cui avevamo preso le mosse. Una nota del 28 gennaio non solo attesta una zona di massima prossimità tra sogno e invenzione, ma soprattutto illumina l'ineludibile connotazione di genere da cui muovono le coordinate della scrittura letteraria:
 
 
Di queste notti, tre punti sono rimasti nella mia mente. I visi di mia madre, il mio corpo nudo, esile, gentile e candido, con quell'adolescenza sua, davanti alla vetrata, e quella casa allungata che splende un po' vitrea e ferrigna in cima alla vetta, di fronte alla vetrata, ma lontanissimo oltre la campagna. Una specie di parallelismo tra il mio chiaro corpo e quella casa (1990, 1595).
 

 
Un cronotopo solo in apparenza paradossale
 
Si potrebbe a questo punto obiettare che l'immaginario letterario della modernità, maschile come femminile, offre un vastissimo campionario di sdoppiamenti, sosia, e in genere figure intente a problematizzare l'unità psichica dell'individuo. Non può tuttavia sfuggire che nel caso della letteratura scritta da donne la questione si ponga su basi differenti: non si tratta infatti di raccontare l'incrinarsi di un'identità data, che ha storicamente goduto di forme forti di autorappresentazione, quanto piuttosto di mettere in scena la costitutiva frammentazione di un soggetto definito a partire dall'altro da sé.
Di qui soprattutto la polisemia degli spazi nei racconti analizzati, frutto di un gioco prospettico di sguardi che si avvicina alla logica multidimensionale delle impressioni oniriche. Mentre guardano, le eroine di Mansfield e di Morante si vedono guardate.
Non si comprenderebbe, altrimenti, perché mai nei testi delle nostre autrici la definizione delle fisionomie attanziali sia tanto enfaticamente delegata al simbolismo sparso della topologia, e rifiuti invece un paradigma di rappresentazione linearmente orientato. Costruiti su coordinate di spazio tanto riccamente articolate, i racconti di Mansfield e Morante esibiscono una compagine temporale singolarmente statica. Così l'atmosfera stregata delle novelle morantiane si avvale degli effetti dell'indeterminatezza cronologica attraverso l'impiego costante di moduli iterativi, fino ad arrivare, come accade ad esempio in L'uomo dagli occhiali, alla sospensione programmatica del tempo dell'avventura. Allo stesso modo, in Mansfield l'azione sembra procedere unicamente in virtù del semplice giustapporsi degli ambienti descritti11, complice anche l'estrema rarefazione di procedimenti analettici e prolettici e la durata generalmente breve del tempo della storia: poche ore, al massimo una giornata, in cui non accade davvero nulla di eccezionale.
Certo, la narrazione breve facilita per sua natura un simile cronotopo, che sarebbe invece assai più arduo mantenere all'interno di una compagine romanzesca. Pure, il fatto che entrambe le autrici abbiano svolto un lungo tirocinio nella forma racconto non sembra casuale, e suggerisce motivazioni più intimamente necessitate: se la produzione letteraria femminile deve prioritariamente confrontarsi con le sfasature di un'autorappresentazione problematica, un modello diegetico lineare e progressivo risulta inservibile. Meglio allora affidarsi ad una memoria di sé affettivizzata e profonda, che, per paradosso solo apparente, è in realtà sempre localizzata, molto più topografica che temporale.
La morte precoce precluse a Katherine Mansfield la via del romanzo, a cui pure la scrittrice si stava lentamente avvicinando; quanto a Elsa Morante, l'imponente affabulazione romanzesca di Menzogna e sortilegio doveva non a caso partire dalla cameretta di Elisa, per sanare la ferita tra soggettività e scrittura.

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