Letteratura

 

Patrizia Conte

 
DUE LIFE STORIES FEMMINILI COME SPECCHIO DEL
SUDAFRICA COLONIALE
 
 
La life story è una preziosa fonte di informazione e costruzione della storia di un popolo ed è qui utilizzata come rappresentazione della società sudafricana nel suo complesso e non solo come strumento di celebrazione di imprese individuali. La caratteristica principale della life story è infatti quella di essere sia una narrazione "ego-centrica" (Dégh: 1988, 15), sia una testimonianza collettiva poiché le esperienze dello storyteller vivono e si rigenerano nel presente di chi ascolta: si tratta di una realtà in continua evoluzione, in grado di riprodursi ciclicamente e di creare, tramite la condivisione dell'esperienza, una storia comune, la Storia, in questo caso, del Sudafrica.
Paulina Dlamini e Frances Colenso vivono entrambe in Sudafrica tra la seconda metà dell'Ottocento e la prima metà del Novecento. Le loro storie di vita raccontano di due mondi opposti, in conflitto tra loro: se Paulina è infatti una donna nera colonizzata, Frances è una bianca appartenente al mondo dei colonizzatori. Così come la società tradizionale africana e il mondo occidentale vengono a contatto, anche le storie di queste due donne sembrano intersecarsi, seppur in maniera impercettibile. Quindi, sebbene a prima vista queste due figure possano apparire inconciliabili, osservandole con attenzione si riesce a intravedere il filo sottile che le tiene unite.
La life story di Paulina Dlamini è un prezioso documento storico ed antropologico sulla vita di una donna presso la corte di un re zulu; attraverso le sue parole non solo si entra in contatto con gli usi e costumi zulu dell'epoca, ma si hanno notizie storiche dirette su Cetshwayo1, il suo carattere, il suo modo di governare e la sua politica.
Paulina Unomguqo 2 Dlamini nasce intorno al 1858 nella regione dello Zululand nel pressi del fiume White Mfolozi. I dati relativi alla sua vita derivano esclusivamente dalla sua testimonianza orale trascritta dal reverendo Heinrich Filter a partire dal 1925. Le date di nascita e di altri avvenimenti fondamentali della sua esistenza sono dedotte nelle ricostruzioni del reverendo Filter basate sugli avvenimenti storici che segnarono quel periodo e dalle indicazioni, a volte imprecise, della Dlamini. La life story di Paulina Dlamini si inserisce nel contesto storico che comprende la guerra anglo-zulu del 1879 e la guerra anglo-boera del 1899-1902.
La vita di Paulina Dlamini ruota attorno a due momenti fondamentali: il passaggio dalla fanciullezza all'età adulta, segnato dal trasferimento fisico dalla casa paterna alla reggia di Cetshwayo, e il passaggio dalla condizione pagana a quella cristiana attraverso l'inserimento nella missione. In entrambi i casi Paulina lascia una figura paterna per abbracciarne una nuova senza che la fase di smarrimento dovuta alla perdita di punti di riferimento sia prolungata (nel primo passaggio la carenza di traumi è dovuta alla mancanza di reali cambiamenti nello stile di vita di Paulina, nel secondo passaggio invece il senso di smarrimento di Paulina si avverte nel testo, ma è smorzato dalla censura dall'alto posta dall'intrusione del redattore, il reverendo Heinrich Filter).
La decisione di concedere Paulina a re Cetshwayo non viene presa spontaneamente dal padre della fanciulla, ma corrisponde a un ordine di clan al quale il vecchio Sikhunyane Dlamini non può opporsi. Nella società zulu il potere sociale si basava infatti sulla produzione dei vari homesteads e si esprimeva tramite l'autorità del re e del clan, "a social unit made up [by] men and women who believe they have descended from a common ancestor, through the male line" (Guy: 1994, 22). Scelte che nella società occidentale sarebbero considerate atti individuali, come il matrimonio, in quel contesto assumevano un valore collettivo e perciò era fondamentale che fossero approvate dal re:
 
Under the leadership of the royal house, homestead elders doubtless suffered some loss of control over youths in their own families. The Zulu King usurped a central role of homestead heads in the arrangement of marriages. [...] Shaka insisted that some homestead heads present their daughters to him as tribute; isolated in the isigodlo 3, a secluded quarter within the royal enclosure, these 'maidens' were for the king's own pleasure or presented as wives to prominent amantungwa patriarchs in return for bridewealth (Carton: 2000, 23).
 
Il matrimonio non era soltanto l'atto con cui un singolo uomo prendeva in moglie una donna, ma costituiva la tappa fondamentale che precedeva la costituzione di una nuova unità produttiva; l'intero sistema di produzione della società zulu si basava infatti sullo scambio wife-cattle 4 e vedeva proprio nel matrimonio la fonte primaria di tale acquisizione:
 
When a man married he also left his father homestead and established a new production community, served by tracts of arable grazing land, supported by its own cattle, and which was soon augmented by more wives and their offspring. Thus by controlling marriage in the kingdom through the military system the king in fact controlled the rate and the direction of the fundamental social process within the kingdom - those of production and reproduction. [...] in Zulu society, where marriage was linked with the creation of new production communities, the king's authority to hold back marriage gave him a significant degree of control over the rate at which production communities were formed and therefore over the intensity with which the environment was exploited (Guy: 1994, 11-12).
 
Il rapporto asimmetrico uomo-donna che vedeva nelle donne il perno della produzione, ma che conferiva loro solo parzialmente la gestione dei mezzi di produzione e del proprio potenziale riproduttivo, costituisce lo sfondo di tutta la prima parte della storia di vita di Paulina, Servant of Cetshwayo.
La richiesta da parte del clan Buthelezi a Sikhunyane Dlamini di concedere la propria figlia al re fu semplicemente un atto formale: "The Buthelezi clan has decided to request you to dedicate your daughter, Nomguqo, to the service of the crown prince. She is still of tender years but already comely and, as it is, also of royal descent" (Dlamini: 1986, 20). Nella sostanza infatti la decisione era già stata presa e la possibilità del rifiuto non era realmente contemplata.
Il trasferimento presso la reggia di Cetshwayo segnò per Paulina e per le altre giovani donne del clan Buthelezi il passaggio dalla fanciullezza all'età adulta. Se in un primo momento la piccola Paulina avverte l'idea del cambiamento come un fatto negativo; "I looked up in surprise. My heart began to pound, I could hardly breathe. I stammered: 'Father, I..., I must go to the crown prince? I am still a child. Father, what does this mean?" (Dlamini: 1986, 21), in un secondo tempo sembra prevalere in lei la consapevolezza dell'importanza del ruolo che le è stato assegnato: "soon after however, a surprising readiness to reassess came over me: I am no longer just a child. I am deemed fit and worthy to become a member of the king's court, to be presented to his isigodlo" (Dlamini: 1986, 22). Il culmine di questa evoluzione si percepisce nel momento in cui Paulina, avvertendo l'invidia delle altre ragazze del clan, mostra apertamente la natura di questa consapevolezza rafforzata dal riconoscimento della superiorità del suo status sociale. Tramite questo rapido conformarsi alla volontà paterna e di clan si deduce non solo che Paulina fosse stata allevata ed educata all'obbedienza, ma anche il fatto che il nuovo stile di vita alla reggia non avrebbe alterato nella sostanza la routine cui era abituata: "our duties were to plant and to harvest, to fetch water and firewood and perform all household tasks" (Dlamini: 1986, 24).
La sostituzione della figura paterna con quella del re sembra avere un potere rasserenante nei confronti delle ansie di Paulina:
 
No longer would I kneel at my father's hearth to kindle the fire, no longer would I bring light to his hut in the evenings by setting alight and holding stalks of grass in innumerable succession; [...] no longer be of service to my father; in future I should have to kneel before the king (Dlamini: 1986, 22).
 
Nonostante rimanga la certezza del carattere definitivo della scelta del padre, stupisce la calma con la quale questa piccola donna di quattordici anni si appresta ad affrontare il mondo dell'isi-godlo verso il quale le aspettative risultano essere tutt'altro che positive:
 
this was a good bye which according to human reckoning, would be forever. Any girl or young woman who was taken into the isigodlo lost her freedom forever; there was no escape, for the isigodlo women were at all times strictly supervised and guarded (Dlamini: 1986, 23-24).
 
Il passaggio dalla fanciullezza all'età adulta si conclude quindi senza traumi apparenti per Paulina Dlamini che fa proprie le scelte del padre, del clan e del re, continuando e interiorizzando le regole di un mondo ove, per le donne, il raffronto con l'esterno è del tutto assente.
Il secondo momento fondamentale della vita di Paulina Dlamini è legato al suo trasferimento dalla corte del re alla missione, ed è causato dalla sconfitta di Cetshwayo nella guerra anglo-zulu e dalla conseguente dissoluzione della reggia e dell'impero zulu. Nell'analizzare questa fase appare evidente che la donna passa da un patriarcato a un'altra forma di patriarcato. I motivi che debbono averla spinta a rifugiarsi alla missione possono essere diversi e in parte sono deducibili dal racconto. Nel momento della fuga dalla reggia di Ondini5, Paulina Dlamini appare confusa poiché necessita di un nuovo punto di riferimento che dapprima cerca nella figura di Zibhebhu kaMaphitha, "chief" di Mandlakazi, poi nel suo clan d'origine, il clan Buthelezi; alla fine si rifugia nella missione6. Si può quindi pensare che il suo primo avvicinarsi al cristianesimo sia stato dettato dalla necessità di sentirsi protetta e dalle garanzie che in questo senso la missione offriva e non da una reale convinzione. Una delle paure più grandi per una donna appartenente alla società tradizionale africana era proprio quella di trovarsi improvvisamente sola; le missioni apparivano come una valida alternativa all'isolamento:
 
It was aberrant for a woman in "traditional" African society to live alone: [...] her productive labour and reproductive powers as daughter, wife or widow belonged to her father, husband or son. But the mission station provided an alternative set of protectors and an alternative economic base which made escape possible. The mission station was a magnet for young girls avoiding marriage (Gaitskell: 1990, 253).
 
Unomguqo Dlamini fu battezzata il 21 dicembre 1887 e prese il nome cristiano di Paulina. Le congregazioni guidate dai missionari europei e americani predicavano una teologia paternalista in questo senso molto rassicurante. Se si avvalora l'ipotesi della missione come rifugio, ecco che acquista significato anche la doppia struttura del testo redatto dal reverendo Filter: Servant of Two Kings si compone infatti di due parti ben distinte, la prima Servant of Cetshwayo, la seconda Servant of God. Questa ripartizione rivela un carattere prettamente funzionale. In questo modo infatti non solo è più evidente la contrapposizione tra il bene e il male, rispettivamente la vita da cristiana di Paulina e quella da pagana, ma è possibile omettere un'ipotetica fase della vita di Paulina in cui si sarebbe potuto riscontrare uno stato confusionale nella donna oppure un periodo di transizione in cui fosse prevalente l'indecisione nella scelta tra i due re.
La perdita di orientamento e la conseguente confusione si palesano nella contrapposizione di due stati d'animo: il senso di smarrimento delle ultime fasi di Servant of Cetshwayo, in cui Paulina è impegnata nella fuga dalla reggia e tenta disperatamente di nascondersi presso altri homesteads senza trovare pace, e la fermezza d'animo ostentata dalla Dlamini nel secondo capitolo di Servant of Two Kings, che comincia con il sogno rivelatore di Paulina, già pienamente inserita alla missione. In Servants Of Two Kings la confusione emotiva di Paulina vive in maniera implicita nel vuoto volutamente lasciato dal reverendo Heinrich Filter tra i due capitoli che compongono il testo. Questo espediente era probabilmente volto a nascondere l'idea che si potessero verificare situazioni "ibride", non definite, in cui alcune donne si avvicinavano al cristianesimo quando ancora vivevano nello homestead con il marito in stato di poligamia. Tali situazioni erano in realtà molto frequenti all'epoca:
 
In 1899 an American Board missionary wrote what she claimed to be a true description of one young African wife's transition from obedience to her homestead head to obedience to God. She had been exploring Christianity at the local mission while living in a homestead with her polygynist husband. 'Trying to serve two masters' she 'found no rest until she came out boldly and told her husband...that she could not please him to the sacrifice of her master and that he must free her (Carton: 2000, 96).
 
Libertà è un concetto nuovo per Paulina Dlamini, la quale cresce condividendo e interiorizzando i valori di una società chiusa. Paulina prende coscienza del significato del termine 'libertà' solo in un secondo tempo, quando la missione le offre la Bibbia come strumento di emancipazione. Il patriarcato appare in questa storia di vita come una istituzione 'senza colore'; la missione e il senso di protezione ad essa legato costituiscono "a contradictory package" (Gaitskell: 1990, 254): se da un lato è una via di fuga dalle costrizioni del patriarcato tradizionale, dall'altro inserisce le donne in un nuovo patriarcato: "a firm incorporation into the domesticity and patriarchy of christian family life" (Gaitskell: 1990, 254).
 
Se per Paulina Dlamini la missione è un punto d'arrivo, per Frances Colenso rappresenta il punto di partenza. Dlamini abbandona la società tradizionale africana (non solo fisicamente, ma anche e soprattutto moralmente) e crede di aver trovato la propria identità all'interno della missione; Frances Colenso lascia invece la missione (sebbene silenziosamente e non del tutto) alla ricerca di una propria dimensione lontana dagli stereotipi che ingabbiavano la donna e la relegavano a una posizione marginale. Entrambe sono legate al padre/patriarca dal quale non riescono a staccarsi del tutto ed entrambe rompono gli schemi che erano stati loro imposti in origine.
Frances Colenso è una donna bianca, contemporanea di Paulina Dlamini, cresciuta nella colonia inglese del Natal. L'educazione aperta e 'senza confini' ricevuta in gioventù consente alla Colenso di vedere la libertà come una condizione di vita ideale verso cui tendere: i suoi genitori, Sarah Frances e John William Colenso, furono infatti concordi nell'iscrivere le proprie figlie maggiori, Harriette e Frances, presso Winnington Hall, un istituto femminile diretto da Margaret Bell, "an extremely clever woman, of powerful and masterful turn of mind" (Guy: 2001, 23). John Ruskin fu uno degli insegnanti della scuola di Miss Bell:
 
Let a girl's education be as serious as a boy's - You bring up your girls as if they were meant for sideboard ornaments, and then complain of their frivolity. Give them the same advantages that you give their brothers - appeal to the same grand instincts of virtue in them; teach them also that courage and truth are the pillars of their being: do you think that they would answer the appeal, brave and true as they are even now, when you know that there is hardly a girl's school in this Christian kingdom (Ruskin: 1970, 67-68).
 
È probabile che, sebbene in giovane età, Frances abbia assorbito questo nuovo modello educativo e ne abbia fatto tesoro. Questo tipo di approccio, "broad education, high minded goals, the absence of conventional prejudice" (Guy: 2001, 25) costituiva una straordinaria eccezione nel Natal di metà Ottocento ed ebbe i suoi migliori risultati proprio con Frances.
Frances Colenso nasce nel piccolo villaggio di Norfolk, in Inghilterra, nel 1849. John William Colenso ha sempre tenuto in alta considerazione le donne della sua famiglia consentendo loro un ruolo attivo nella vita pubblica ed incoraggiandole quando avessero voluto sposare le cause politiche e sociali da lui introdotte. In questo senso, la libertà ed i mezzi necessari a conseguirla furono assegnati alle donne della famiglia Colenso dall'alto, dal padre/patriarca considerato all'epoca una figura molto controversa per le sue idee religiose e politiche. Le figlie del vescovo del Natal meritano un posto d'onore per aver saputo utilizzare questi strumenti di libertà secondo i propri fini. Se per Harriette la ricerca della soddisfazione personale emerse nella scrittura di articoli, saggi e testi riguardanti gli avvenimenti storico-politici che segnarono le colonie britanniche dell'epoca, per Frances la ricerca della libertà sembra esprimersi attraverso il romanzo My Chief and I.
My Chief and I è stato scritto da Frances Colenso nella colonia del Natal nel 1875. L'opera apparve a Londra per la prima volta nel 1880. Il testo Five Years Later (1882) fu aggiunto a My Chief and I in un secondo momento, poco prima che Frances Colenso morisse di tubercolosi nel 1887. Le vicende storiche che fanno da sfondo al romanzo coprono i sei mesi successivi alla cosiddetta "Langalibalele Rebellion" del 1873. Come il titolo stesso del romanzo ricorda, Il primo e più importante intento di Frances Colenso era tuttavia "to be able [...] to add honour to names that have hitherto been unhonoured" (Colenso: 1880, 56), riabilitare presso l'opinione pubblica inglese dell'epoca il nome del suo amato Anthony Durnford, "my Chief" (Colenso: 1880)7, come veniva affettuosamente chiamato dal protagonista, Atherton Wylde. Per assolvere questo compito, la Colenso si affida al romanzo; a Frances Colenso si può infatti attribuire il merito di esser stata la prima in Sudafrica a utilizzare il romanzo come strumento politico, precedendo così Olive Schreiner8. L'invenzione romanzesca le permetteva di dilungarsi in particolari omettendo la vera identità delle fonti e non solo, le consentiva anche di proteggere se stessa e Durnford dalle voci e dai pettegolezzi che sarebbero nati alla notizia della loro storia d'amore.
Il Colonnello Anthony Durnford era un uomo sposato e conobbe Frances Colenso nella colonia del Natal all'età di quarantadue anni, quando la ragazza ne aveva ventitré. Il loro incontro avvenne grazie al comune interesse per la causa di Langalibalele. La moglie di Durnford viveva ancora nella madrepatria quando tra quest'ultimo e Frances Colenso nacque un legame tanto profondo da spingere la donna a scrivere My Chief and I e Five Years Later. Riabilitare il nome di Durnford sarebbe stato impossibile se Frances fosse venuta allo scoperto e avesse parlato in favore del Colonnello pubblicamente, a proprio nome. La scrittrice si avvalse quindi in tutto il romanzo di un alter ego maschile, Atherton Wylde, un soldato dell'esercito imperiale britannico. Sembra di poter senz'altro escludere che Frances Colenso si sia servita di una maschera perché non aveva fiducia nelle proprie capacità di scrittrice e di donna; è molto più probabile che invece abbia dovuto sacrificare il forte desiderio di esporsi in prima linea in virtù del risultato che le stava a cuore più della sua stessa libertà. La famiglia Colenso si era nel frattempo costruita una reputazione piuttosto sconveniente e non era ben vista a causa dell'appoggio incondizionato di tutti i suoi componenti agli zulu9. Se Frances avesse reso nota la sua condotta "sconveniente" avrebbe sicuramente compromesso irrimediabilmente non solo il suo nome e quello di Durnford, ma anche quello della sua famiglia, e a farne le spese sarebbero stati gli zulu e le lotte politiche di tutta una vita.
Essendo dovuta scendere a compromessi nello scrivere My Chief and I, Frances Colenso non fu in grado di creare alcun precedente per altre scrittrici dell'epoca e per questo motivo fu quasi dimenticata. La sua testimonianza rimane però fondamentale per la costruzione della storia sudafricana nonché dell'identità delle donne, come ricorda Margaret Daymond, curatrice della recente edizione del romanzo: "it is an important testimony to a woman's struggle to find her own voice, to speak with a measure of independence, within the attitudes and customs which circumscribed her life" (Daymond: 1994, 14). Per Frances Colenso Il linguaggio della libertà deve rimanere segreto, oppure emergere in superficie attraverso Atherton Wylde.
In queste due life stories la mediazione assume un ruolo fondamentale ed indispensabile per la comprensione e la divulgazione del testo; accanto alle voci di Paulina Dlamini e Frances Colenso si ascoltano anche quelle di due uomini, Heinrich Filter e Atherton Wylde. Quest'ultimo rappresenta la figura chiave del romanzo di Frances Colenso, poiché dalle parole di Atherton Wylde la totale devozione e l'amore che la Colenso prova nei confronti del Colonnello Durnford emergono a tal punto che il personaggio di Wylde risulta paradossalmente effeminato rispetto a quanto ci si aspetterebbe da un soldato dell'epoca: "I could not tell him why at first, and I think he began to suspect me of having committed the folly of falling in love" (Colenso: 1880, 128) "growing more and more confused and annoyed with myself for a sentiment which I feared would appear absurd in his eyes" (Colenso: 1880, 129); "and of those two men I was jealous, although I liked them. Windvogel aroused that feeling in my breast by a little action which for some time escaped my attention [...] Windvogel was always close to him [...] I should have liked to send him away and to take his place myself" (Colenso: 1880, 52). È probabile che Frances Colenso si rendesse conto di come queste caratteristiche fossero incongruenti con il ruolo che Atherton doveva rivestire e potessero minare la credibilità del racconto. È anche possibile quindi che Frances Colenso abbia volutamente mantenuto queste piccole imprecisioni per sottolineare il proprio timbro di voce in contrapposizione a quello maschile di Atherton Wylde. Anche il titolo My Chief and I esprime il medesimo sentimento con la stessa carica di ambiguità.
Il fatto che Frances Colenso fosse stata costretta a vestire i panni di un uomo e che probabilmente, se avesse potuto scegliere di parlare liberamente lo avrebbe fatto, "I could not help thinking that, if that young lady were to take the reins into her own hands, and speak out her mind, the priest would be rather a hen with ducklings" (Colenso: 1880, 17), è evidente in alcuni espedienti che l'autrice usa nel romanzo per rendere chiaramente distinguibile la sua persona. Nel terzo capitolo Atherton Wylde si imbatte in una giovane accompagnata da un prete e da un'altra donna. La Colenso, che in tutto il romanzo si nasconde dietro il suo alter ego maschile, viene qui allo scoperto ritagliandosi una sorta di cameo cinematografico all'interno del suo racconto:
 
I have said that only one of the speakers seemed to feel for the oppressed tribe. But there was one other present who, although perfectly silent, evidently took a vivid interest in the subject. This was one of the young ladies in the charge of the Roman Catholic priest: and I had observed her with some attention as the rapid changes in her countenance evinced her intense dissent from the harsh sentiments enunciated, her indignation against the cowardly attack upon the prisoner, and her pleasure in the old man's defence. [...] She leant forwards to look at the speaker, with heightened colour in her face. It was manifestly as much as she could do to keep silence, but it was as evident that it would not be well for a lady to take part in a discussion with these rough men, and she sank back into her place, containing herself with a widespread remark to her priestly escort, who indeed seemed to be rather nervous, and excessively anxious to keep her quiet. [...] However she seemed to be submissive enough. I observed that an awkward silence fell upon the party after this direct mention of the Bishop, and wondered what could be the cause. [...] Before we started again I inquired of one of the legislators who had exchanged remarks with me before, who were the two young ladies with the Roman Catholic clergyman. His reply was, "that one is one of Bishop Colenso's daughters" (Colenso: 1880, 17-18).
 
È per la necessità di sfuggire in qualche modo al silenzio entro cui si sentiva costretta, come altre donne in epoca vittoriana, che Frances Colenso ha bisogno di Atherton Wylde e delle proprie stesse comparse sporadiche nel romanzo: questi due episodi tramutano infatti quella che inizialmente sembrerebbe una necessità freudiana in una volontà manifesta. La Colenso sembra però rifiutare in gran parte la "gabbia" entro la quale erano confinate le donne inglesi dell'epoca (Wollstonecraft: 1972), sebbene questa "istituzione" rimanga come una presenza determinante ed inquietante in tutto My Chief and I. Il secondo riferimento esplicito di questo tipo si ritrova alla fine del romanzo, quando Atherton Wylde si riposa dalle fatiche della giornata leggendo un libro:
 
taking a book from the shelves I deposited myself in a remarkably comfortable lounging chair for a quiet read. My book was a novel, the scene of which was partly laid in Hong Kong. I had just come to the conclusion that the writer was a woman, and had never been out of England in her life, when I fell asleep (Colenso: 1880, 122).
 
Ecco che di nuovo Frances Colenso sostituisce la propria voce a quella di Atherton Wylde usando l'ironia come strumento per sottolineare la propria presenza all'interno della narrazione. La donna in stile vittoriano descritta da Frances Colenso simboleggia la necessità delle donne di potersi esprimere e dare voce alle proprie idee. In Natal, forze conservatrici quali ad esempio la Chiesa Riformata Olandese, bloccavano le idee liberali che volevano per le donne un ruolo attivo nella vita pubblica in Sudafrica. Anche gli inglesi avevano stabilito nelle loro colonie un sistema basato sulle discriminazioni di genere e sulle differenze tra uomini e donne. Lo sviluppo del capitalismo industriale nella Gran Bretagna del Settecento aveva inoltre incrementato questa divisione relegando la donna alla dimensione domestica:
 
The development of industrial capitalism in Britain during the eighteenth century was characterised by a fundamental shift in the social function of the home and family, away from its earlier importance as site of production, to a site, primarily, of reproduction and consumption. This separation between what became the essentially private domain of the home, which was the proper realm of women, and the public domain of productive work and politics, the realm of men, was basic to the organisation of gender relations in Britain in the nineteenth century (Walker: 1990, 319).
 
Nella famiglia Colenso "God did remain useful as the supreme arbiter of the [...] patriarchal order" (Walker: 1990, 319); nel processo di costruzione ed affermazione delle identità di genere, le missioni che si stabilirono in Africa tra il Settecento e l'Ottocento contribuirono a rafforzare il patriarcato e quelle ideologie che, enfatizzando l'importanza di qualità come la discrezione, la pudicizia e la riservatezza, consegnavano alle donne un ideale di donna passiva e sottomessa alla volontà del marito. L'importanza dell'opera della Colenso risiede quindi nella consapevolezza del suo ruolo nella società e nel fatto di aver saputo utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per avvicinarsi il più possibile al proprio ideale di libertà. My Chief and I e la mediazione di Atherton Wylde quindi vanno intesi non come il frutto di un compromesso negativo, quanto come una strategia intelligente e necessaria.
Sia Frances Colenso che Paulina Dlamini affidano quindi la propria life story a un uomo, come unica soluzione per emergere in superficie e fare ascoltare la propria voce (sebbene mosse da ideali differenti, Colenso sente la necessità di riabilitare il nome dell'amato presso l'opinione pubblica della madrepatria, mentre Dlamini, secondo quanto riportato da Heinrich Filter, desidera narrare la propria storia come testimonianza dell'esistenza di Dio). Se però la mediazione di Wylde può essere definita 'positiva' in quanto funzionale all'intima verità di Frances Colenso, quella del reverendo missionario luterano non può essere definita tale.
Se ad Heinrich Filter va riconosciuto il merito di aver compreso per primo l'unicità della life story di Paulina Dlamini, a lui vanno attribuiti anche alcuni demeriti, tra cui quello di aver sensibilmente strumentalizzato la storia di vita in suo possesso per assecondare i propri fini. L'opera di Filter si inserisce nel progetto delle missioni e della loro opera di proselitismo tra le popolazioni indigene del Sudafrica: "the missionaries tried to wrest patriarchal authority from homestead heads by proselytizing their wives and youths" (Carton: 2000, 54). Dai tempi delle parabole del Vangelo sino all'epoca presa in considerazione, le storie individuali dei Santi e delle loro conversioni erano usate come esempio da imitare. Attraverso le loro storie di vita, la chiesa diffondeva modelli di comportamento cui il buon cristiano avrebbe dovuto conformarsi per ottenere la salvezza. L'idea quindi di utilizzare una storia individuale come strumento di propaganda e sensibilizzazione non è nuova all'interno della chiesa, ma affonda le sue origini nel passato. Heinrich Filter non sbaglia nel momento in cui avverte il potere suggestivo della testimonianza di questa donna zulu sulle altre donne indigene che con Paulina condividevano ansie e paure. La conversione improvvisa di Paulina e la somiglianza della sua missione a quella degli apostoli: "andate nel mondo intero e predicate la Buona Novella a tutta la creazione. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, e chi non crederà sarà condannato" (Vangelo secondo Marco, 16, 15-19) sono caratteristiche che caricano la figura di Paulina di un forte potere persuasivo soprattutto nei confronti delle altre donne dell'isigodlo di Cetshwayo rimaste "orfane" dopo la cattura del re. La conversione di Paulina Dlamini, vera o presunta che sia, è un elemento che ha portato con sé omissione, distorsione e censura rispetto al periodo della sua vita corrispondente alla prima parte del testo, Servant of Cetshwayo. La tendenza all'autocensura e all'omissione è particolarmente evidente nelle descrizioni inerenti la vita delle giovani donne dell'isigodlo: "about the king's nightlife with his isigodlo girls I must remain silent; because as a Christian, who has now learnt to kneel before the King of all Kings, the Lord Jesus Christ, I can no longer speak about" (Dlamini: 1986, 82). L'imbarazzo che spesso si avverte nelle parole di Paulina Dlamini riflette in parte la mentalità vittoriana e in parte l'aderenza diventata col tempo quasi totale ai principi missionari che non tolleravano per nulla o quasi le credenze, i costumi e le pratiche dei popoli che vivevano ancora inseriti nelle proprie tradizioni.
Il rigido atteggiamento critico di Paulina nei confronti delle esperienze di vita vissute da pagana si può spiegare in più modi. La revisione del sistema di valori tradizionali era una parte dell'ampio processo di civilizing intrapreso dagli inglesi e di cui le missioni erano un pilastro. In questo contesto venivano rivisti la liceità della poligamia e alcuni riti di passaggio legati all'adolescenza delle giovani fanciulle e dei giovani uomini, come le cerimonie di iniziazione. Nell'analisi dei comportamenti e delle riflessioni a mente fredda di Paulina Dlamini non si può inoltre sottovalutare il potere intimidatorio di Filter. Il racconto di Paulina è il risultato del lento processo di negoziazione, creazione e scambio proprio della trasmissione orale dell'esperienza. La life story è infatti una narrazione, un racconto, un testo che può rimanere confinato alla sfera dell'oralità o prendere forma scritta. Talvolta nasce e si sviluppa attraverso l'interazione tra storyteller e pubblico, tra soggetto e ricercatore. Come in questo caso specifico, la storia di vita è una testimonianza in continua tensione tra realtà e menzogna, o, meglio "creazione". Heinrich Filter, avendo trovato in Paulina uno strumento efficace di persuasione dall'interno per gli zulu, che risultavano resistere alla evangelizzazione - "Missionary enterprise in Zululand was intense but conspicuous for its lack of success [...] the missionaries [...] found it extremely difficult to prise the Zulu from their way of life" (Guy: 1994, 15) - ha preferito a tratti sacrificare l'integrità del racconto in virtù del suo fine ultimo. Oltre alla vera e propria censura dall'alto ad opera del reverendo luterano è necessario ipotizzare che Paulina stessa si sia sottoposta ad autocensura e che abbia volutamente eliminato i dettagli più piccanti o per lei più compromettenti della sua storia, per timore di essere giudicata.
Sia Paulina Dlamini che Frances Colenso appaiono legate alla figura del padre/patriarca dal quale entrambe, sebbene in modi diversi, tentano di staccarsi. Se però in Paulina Dlamini non si avverte la piena consapevolezza di questo processo di distacco, in Frances Colenso la necessità di dovervi rinunciare (seppur in piena coscienza) rende il suo cammino verso l'emancipazione un percorso tortuoso e difficile. In queste due storie il patriarcato appare come una istituzione castrante e soffocante: così come in My Chief and I il popolo ngwe ha bisogno di Anthony Durnford per ottenere la libertà, così Frances Colenso ha bisogno di Atherton Wylde per potersi esprimere. Paulina Dlamini porta in superficie la difficile situazione delle donne all'interno del patriarcato tradizionale africano: considerate come l'anello fondamentale del sistema, esse sembrano accettare questo ruolo condividendo, facendo propri e trasmettendo ai figli i valori di una società che le relegava al ruolo di mogli e di madri senza che fosse fornito loro un raffronto con l'esterno. Paulina Dlamini comincia ad acquisire spirito critico con l'ingresso alla missione che porta con sé un modello alternativo di vita e nuovi valori su cui costruire la propria emancipazione. Se però Paulina dimostra di avere atteggiamento critico nei confronti dei valori e delle tradizioni zulu in cui è stata allevata, non sembra utilizzare il medesimo spirito critico nei confronti dei nuovi valori importati dall'occidente e dalle missioni. Paulina ha bisogno infatti di un nuovo patriarca per riconoscere un patriarca nel suo vecchio padre.
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