Letteratura


Paolo Dondossola
 
FANTASCIENZA E LIBERTÀ
GLI ARCHETIPI LETTERARI E IL VALORE DELLA DIVERSITÀ*
 
 
La fantascienza è una modalità di indagine per conoscere gli esseri umani, sebbene sia stata spesso considerata soltanto un genere letterario "popolare", quasi che la sua commerciabilità fosse necessariamente sinonimo di banalità. Questo era indubbiamente vero tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, quando, fatta eccezione per due dei fondatori di questo genere - Jules Verne e Herbert George Wells - la maggior parte di ciò che veniva pubblicato era narrativa di mediocre fattura, scritta ad uso e consumo di chi preferiva letture disimpegnate e fantastiche rispetto alla più "nobile" letteratura realistica.
Ma le cose cambiarono grazie a Hugo Gernsback e John W. Campbell Jr., che hanno influenzato la fantascienza americana (e, di conseguenza, mondiale) più di ogni altro, attorno ai quali si coagulò nel corso del tempo - ma specialmente dopo la metà degli anni Trenta, quando si affermò la Golden Age - una nutrita schiera di giovani scrittori del calibro di Isaac Asimov, Ray Bradbury, Robert Heinlein e Theodore Sturgeon1.
La science fiction cominciò così ad uscire dal "ghetto" dei pulp magazines, acquisendo dignità letteraria e affermandosi come un genere in grado di analizzare - prima da un punto di vista scientifico, poi sotto il profilo sociologico e psicologico - gli enormi cambiamenti sociali apportati dalla scienza e dalla tecnologia, riallacciandosi così alla tradizione utopistico-distopica che, da Platone a Orwell, si era sempre posta il problema di immaginare possibili "mondi" alternativi per comprendere meglio il proprio.
La fantascienza non è semplice "paraletteratura" (Suvin: 1979, 3), ma tratta i grandi temi della vita, come la fede, l'etica, il rapporto tra gli esseri umani e le istituzioni, per mezzo di una profonda analisi - talvolta politica, più spesso metaforica - della società in cui viviamo. In breve, è possibile affermare che la science fiction sia il genere letterario che decanta il valore della libertà in ogni sua forma e sostanza.
Alcuni ritengono che gli elementi tipici della fantascienza siano rintracciabili fin dall'antichità (Suvin: 1993, 788-792); altri, invece, accostano questo genere letterario al romanzo poliziesco, per via della comune discendenza dal "romanzo nero", o gothic, un sottoprodotto popolare della rivoluzione romantica (Solmi: 1978, 55); altri, ancora, sostengono che tutta la letteratura, dalla Bibbia in poi, presenti determinate tematiche che, per un verso o per l'altro, rientrerebbero nella science fiction. Ma ci sono anche autori che denunciano questa pratica acritica che tende a non tenere conto dell'originalità dei temi trattati dalla fantacienza (Kornbluth: 1964); tali critiche considerano la SF una forma moderna di letteratura non riconducibile al passato (Scholes e Rabkin: 1979, 13). Essa appare come un elemento caratteristico dell'età contemporanea in grado di rivelare le tendenze del momento, ma anche di inglobare e rendere evidente la maggior parte delle "costanti epocali" (Dorfles: 1965, 208) presenti in ogni società. Ciò nonostante, la science fiction presenta elementi comuni con l'utopia positiva del passato, e ancor di più con la distopia del XIX e XX secolo.
 
La storia della fantascienza è anche la storia di come l'umanità ha cambiato atteggiamento di fronte allo spazio e al tempo. È la storia del progresso della nostra comprensione dell'universo e della posizione nell'universo della nostra specie (Scholes e Rabkin: 1979, 9).
 
La specificità della fantascienza risiede nel fatto che, allargando i confini spazio-temporali, permette di passare dalla conoscenza dell'individuo a quella dell'umanità nel suo complesso, scandagliando le meraviglie e gli orrori della società, nel tentativo di comprendere il genere umano. Di questo avviso è il critico Darko Suvin:
 
La posizione di chi scrive è che la fantascienza sia la forma letteraria dello "straniamento cognitivo" e che debbano essere accettati come primi esempi di fantascienza non solo tutta la narrativa utopistica e gran parte dei voyages extraordinaires, ma anche molti generi affini risalenti, ad esempio, alla Repubblica di Platone, a Luciano di Samosata, a Moro, Cyrano e Swift. Questo problema può essere superato se si ricorda che tra il XVII e il XVIII secolo, all'epoca delle rivoluzioni borghesi (e specialmente della rivoluzione industriale), accanto ai luoghi tipici della fantascienza, il passato e lo spazio, fu introdotto il futuro, concepito come una quarta dimensione (come ad esempio in La macchina del tempo di H. G. Wells). E questo mutamento operato dalla fantasia, omogeneo al tipo di vita introdotto dal capitalismo, è così fondamentale da caratterizzare l'intero cronotopo della fantascienza anche là dove essa continua (come in Verne o nelle prime avventure interplanetarie) a essere collocato nello spazio, o addirittura nei casi in cui ritorna al passato (come in Uno yankee del Connecticut alla corte di re Artù di Mark Twain o nel sottogenere fantascientifico del "romanzo preistorico"). Pertanto si può individuare un corpus - lo si chiami poi "passaggio all'anticipazione" o fantascienza tout court - il cui termine a quo è l'ambiguo gruppo di scritti dell'epoca delle rivoluzioni democratiche. Questo corpus inizierebbe con gli entusiasmi per le innovazioni più radicali di L'an 2440 di Sebastien Mercier e del Prometeo liberato di Percy Bysshe Shelley, e con la reazione a esse del Frankenstein di Mary Wollstonecraft Shelley e di alcuni racconti di Poe. Il corpus della fantascienza risultante da un approccio di questo tipo, accettabile nelle sue linee generali, potrebbe essere suddiviso in una parte premoderna e in un'altra moderna, con Wells come momento di passaggio fra il cronotopo newtoniano e quello einsteniano, tra un'anticipatoria pretesa all'estrapolazione e "mondi possibili" alternativi, peraltro decisamente analogici al nostro (Suvin: 1993, 788).
 
Brian Aldiss sosteneva che nella fantascienza confluiscono due correnti principali, la scientifica e la fantastica, quella che si basa sulla realtà e quella che costruisce castelli in aria.
Il lungo e difficile cammino compiuto dalla science fiction per trovare un posto di prima importanza nel panorama letterario passa anche attraverso le definizioni che la identificano come un genere indipendente dalle altre correnti narrative. Se le origini "tematiche" ed epistemologiche della fantascienza possono essere rintracciate nella letteratura fantastica del passato, è senz'altro vero, tuttavia, che il neologismo che ne definisce la natura è figlio del Novecento, ed è ascrivibile a una delle figure editoriali più importanti del settore, Hugo Gernsback2. Nel 1926 ideò la rivista destinata a entrare nella storia degli appassionati del genere: Amazing Stories, dove comparve, per la prima volta, il termine scientifiction. Nel 1929, invece, fu ideato il neologismo science fiction, che divenne la definizione ufficiale del moderno genere letterario, grazie a una nuova rivista, Science Wonder Stories.
Con l'andare del tempo tale termine divenne sempre più "stretto": negli anni Sessanta, la nuova generazione di scrittori - quella formata dai vari Ellison, Dick, Spinrad - non faceva più largo uso della scienza, e la tecnologia, comunque, rivestiva una funzione diversa all'interno della narrazione rispetto alla fantascienza hard degli anni precedenti3. Cominciarono ad affermarsi diverse definizioni, tra cui quelle di science fantasy e speculative fiction, che, avendo in comune con il termine science fiction le iniziali, permettevano l'identica abbreviazione di SF4. Fu in quest'ottica che nacquero le discussioni sulla differenza tra estrapolazione e speculazione.
 
Extrapolation, as is implicit in the word's etymology, is basically a logical and linear process. The author accepts the current state of scientific knowledge, projects from it either in time or in space, and tries to imagine and articulate the resultant situation or conditions. In "pure" extrapolation one must adhere strictly to the current state of scientific theory and fact. Writers firmly committed to extrapolative SF occasionally find themselves in an embarassing position when subsequent scientific discoveries invalidate the facts which they had presumed to be true while writing the story (Malmgren: 1991, 12).
 
La speculazione, invece, è un sistema di comprensione visionario e intuitivo; nondimeno, non significa che essa sia un modo per evadere dalla realtà o per cercare una via di fuga dai problemi quotidiani. Al contrario, il pensiero speculativo trascende l'esperienza, ma unicamente per cercare di spiegare, comprendere, unificare e ordinare l'esperienza stessa.
 
The emphasis here upon the intuitive nature of speculation and upon its desire to transcend experience, to discover as it were a deep structure of reality, pertains, I think, to the creation of speculative SF worlds. Working metaphorically rather than metonymically, the speculative writer tries to inscribe a world whose relation to the basic narrative world is less logical than analogical or even anagogical; there are systems of correspondence between the two worlds, but they are not linear or one-to-one, and they are consequently more problematic, more difficult to establish with certainty (Malmgren: 1991, 13).
 
Comunque sia, la fantascienza è un genere letterario mobile perché tale è la società di cui essa narra. Non ha importanza che si parli di science fiction o speculative fiction, che si tratti di un romanzo di anticipazione, di estrapolazione o di pura speculazione.
 
La fantascienza è la ricerca di una definizione dell'uomo e della sua condizione nell'universo che si inserisce nel nostro avanzato ma confuso stato di conoscenza (scienza) ed è caratteristicamente forgiata nello stampo gotico o post-gotico" (Aldiss: 1973, 14).
 
La science fiction, quindi, non è solo lettura di svago - "literature of escapism" (Nicholls: 1976, 8) - ma serve a comprendere meglio la realtà che ci circonda, a mostrare come dietro l'apparente normalità degli eventi si estenda un mondo oscuro animato da fenomeni grotteschi poco o per nulla visibili agli occhi della gente. Essa rappresenta, in ultima analisi, l'interface area, "the area where science fiction meets real life" (Nicholls: 1976, 8).
La novità letteraria di Frankenstein (1818), la presenza cioè della creatura - definita, di volta in volta, mostro, demone, ecc. - che non solo rappresenta l'incapacità degli esseri umani di riconoscersi nell'altro da sé (il diverso) e di trovare in esso amore e compassione, ma che è anche l'emblema del risultato teratologico di chi osa sfidare la Natura, costituisce il fulcro di molti romanzi della science fiction contemporanea, specialmente quelli incentrati sulle figure dei mutanti. Pur non comprendendo una vera e propria teoria scientifica, Frankenstein può comunque essere considerato un racconto di fantascienza (Pagetti: 1993, 5)5.
La fantascienza è nata sotto il segno del mostro. Il primo romanzo definito quasi unanimemente di SF è, appunto, Frankenstein, e dal 1818 questo genere si è diramato in una incredibile serie di sottotipi che hanno affrontato il difficile tema della diversità sotto ogni punto di vista.
Già il Medioevo e l'epoca moderna furono pervasi da figure straordinarie e mostruose narrate dai viaggiatori e dagli esploratori, specialmente europei, che incutevano timore e un forte senso di repulsione, e che avrebbero giustificato gli stermini e gli incubi palingenetici dei dominatori bianchi. In quei tempi il "mostro" era una creatura naturale che rivestiva di volta in volta valori e significati differenti, ma che, di fatto, testimoniava un'ibridazione tra uomo e animale - dove spesso la linea di confine tra le due entità non era nemmeno troppo netta - i cui risultati erano a dir poco orrifici6.
Il passaggio dall'ibrido naturale a quello artificiale fu piuttosto breve. Nel Rinascimento l'alchimia giocò un ruolo essenziale nella creazione della figura dell'homunculus e del golem - l'automa, la figura senza spirito che, nella leggenda giudaica, indica l'essere creato magicamente dai Cabalisti - che attestò il tentativo da parte dell'uomo di imitare la creazione divina, con la conseguente e inevitabile ribellione da parte della creatura nei confronti del proprio creatore. Era il punto di partenza di quell'artificializzazione della natura che, nel corso del 1900, avrebbe prodotto nella letteratura della science fiction le figure del robot, del cyborg e dell'androide, provocando una mutazione antropologica - indotta dalla crescente avanzata della tecnologia - sconvolgente e alienante.
 
La tecnologia è figlia di un'attività umana, e come tale non è causa, ma sintomo eclatante, elemento mediatore, simbolo della trasformazione che ci avvolge. Ciò non toglie che quando il cambiamento è magmatico, prepotente, pervasivo, l'uomo stenti a riconoscere la propria impronta in ciò che avviene e preferisca attribuire a figure autonome, che si ergono minacciose contro di lui, le cause del disordine che lo circonda (Caronia: 1985, 8-9).
 
Il primo passo verso la completa frantumazione dell'Io, verso quel vacillamento ontologico che, nel nostro secolo, avrebbe prodotto un'inquietudine metafisica di tipo esistenzialista negli uomini, fu compiuto da Mary Shelley. Frankenstein è un vero e proprio conte philosophique che racchiude in sé i temi dell'umanità: il rapporto tra il creatore e la creatura da lui forgiata, metafora dell'invisibile catena che unisce Dio al genere umano; il pentimento del creatore e il suo rifiuto nei confronti di un essere tanto ripugnante, simbolo della solitudine umana; la scintilla, non prevista, del libero arbitrio della creatura, che, una volta appreso l'uso del linguaggio e la capacità di pensare, si ribella al proprio padrone; il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di avere qualcuno accanto da amare e il rifiuto del creatore di generare un altro essere tanto abietto; la rivolta del "mostro" a un mondo così insensibile e privo di umanità.
Frankenstein introduce il tema del doppio: il doppelganger, ovvero la copia o la proiezione di se stessi, un topos tipico della fantascienza contemporanea. Il doppio "umano" della letteratura fantastica si trasformerà nella science fiction del Novecento nel doppio "artificiale", vale a dire nel robot, nell'androide e nel cyborg, ma anche in una forma umana deviata rispetto a ciò che viene comunemente definito "normale".
In realtà, sono almeno quattro i grappoli narrativi in cui si può suddividere il tema della diversità nella fantascienza, a volte sconfinando negli archetipi che appartengono essenzialmente al genere horror. Il primo è costituito dai romanzi incentrati sulle figure degli alieni, esseri cioè provenienti da altri pianeti, a volte minacciosi, altre volte pacifici; la produzione letteraria di questo sottotipo è incalcolabile. Il secondo grappolo include le opere che hanno per oggetto i vampiri e i licantropi. Il terzo riguarda le figure del robot, del cyborg e dell'androide - che presentano notevoli differenze biologiche o biomeccaniche - mentre il quarto grappolo narrativo annovera tutti i romanzi e i racconti che sviluppano il tema della mutazione7.
L'alieno, oltre che rappresentare un "rompicapo biologico" (Giovannoli: 1991, 39), diviene un mezzo per proiettare le paure sociali - scaricandone, di fatto, le tensioni - "al di fuori" (di una nazione, o addirittura del mondo intero). In un periodo che possiamo grosso modo racchiudere tra la fine degli anni Trenta - la Golden Age, ed escludendo tutta la letteratura precedente che pure annovera opere che hanno avuto il pregio di alimentare l'interesse della gente comune - e gli anni Cinquanta - quando l'avvento della fantascienza sociologica spostò l'attenzione verso problemi più "terrestri", senza tuttavia soppiantare completamente i viaggi interstellari e gli incontri con forme di vita extraterrestre - la science fiction americana (che ha sempre costituito il novantacinque per cento circa di tutta la SF) alimentò i sogni di conquista dello spazio, alternando vicende dozzinali ad altre molto più attente ai problemi connessi all'estrapolazione scientifica e ai rapidi sconvolgimenti tecnologici di quell'epoca. Era inevitabile che anche il cinema, in quegli anni, facesse ricorso alla fantascienza per esorcizzare - o nutrire - l'isterismo collettivo e la repulsione per il diverso, che spesso acquisiva connotazioni politiche o razziali.
L'alieno, biologicamente dissimile, diviene dunque una proiezione dell'alterità ontologica, metafora di tutte le possibili forme di diversità tra gli esseri umani. Sebbene la science fiction abbia prodotto anche alieni amichevoli, la maggior parte della letteratura sugli extraterrestri li dipinge come nemici terribili, sempre pronti a impossessarsi delle risorse della Terra, assoggettando il genere umano e rendendolo schiavo. In passato, l'interpretazione sociologica attribuiva questi elementi al "pericolo comunista", ma in epoche più recenti essi sono stati analizzati essenzialmente come forme di paure biologiche - ad esempio il cancro e le mutazioni da radioattività - o come una semplice immagine del Predatore (Giovannoli: 1991, 59). Ma è sufficiente osservare la realtà che ci circonda per capire quali siano i reali motivi che hanno spinto gli scrittori di SF a descrivere simili situazioni: ancora oggi ci sono nazioni che combattono guerre spietate in nome di Dio o di una ideologia politica, Stati afflitti da lotte intestine per la supremazia etnica, governi tirannici che mantengono il potere con la violenza, la tortura e l'assassinio, ed esecutivi "democratici" che mentono sistematicamente al popolo, promettendo qualcosa che non sarà mai mantenuto. Di fronte a un ipotetico pericolo comune, nulla di tutto questo avrebbe più importanza: il colore della pelle, le opinioni politiche, le scelte confessionali, la cultura di appartenenza... niente di tutto questo avrebbe più senso, o meglio, tutto acquisirebbe un significato più intenso e profondo, proprio perché sarebbe la vita umana - di tutto il genere umano - a guadagnare la giusta dignità. Il pericolo alieno, oltre che rappresentare l'incapacità degli uomini e delle donne di identificarsi e di fondersi nell'altro, estraneo ma simile, costituisce probabilmente - insieme al sottogenere delle catastrofi naturali - il momento di massima collaborazione mondiale, almeno per ciò che riguarda il panorama letterario - e cinematografico - della fantascienza.
Vampiri e licantropi fanno parte di un filone fantastico sempre a cavallo tra science fiction e horror. Sebbene si tratti di archetipi utilizzati quasi sempre per suscitare terrore, queste figure possono anche assumere una connotazione più vicina al classico tema della diversità, caro a molti autori di fantascienza, proprio perché, come gli alieni, rappresentano una forma di vita biologica deviata rispetto alla normalità, ma tuttavia umana. Ecco perché, comunque, l'orrore indotto è spesso superiore a qualsiasi altro archetipo letterario.
La figura dei vampiri non è che l'ennesima proiezione del "morbo di Frankenstein", metafora letteraria dell'incomprensione umana, non tanto sotto il profilo della ribellione delle creature - che pure esiste - quanto, piuttosto, per la latente incapacità degli individui di percepire la diversità altrui come punto di contatto e di dialogo, anziché come forma di rivendicazione di superiorità culturale o razziale.
 
L'Altro è l'essere che è diverso da te stesso. Tale essere può differire da te nel sesso; o nel suo reddito annuale; o nel modo di parlare, di vestire e di agire; o nel colore della pelle, o nella quantità di gambe e di teste che ha. In altre parole, esiste l'Alieno sessuale, e l'Alieno sociale, e l'Alieno culturale, e infine l'Alieno razziale (Le Guin: 1986, 87).
 
Questo rapporto di identificazione/opposizione con "l'alieno" è stato affrontato dagli autori di science fiction anche e soprattutto attraverso le figure del robot, del cyborg e dell'androide, che acquistano nomi diversi a seconda del grado di antropomorfismo raggiunto.
 
Il termine robot designa un automa vagamente antropomorfo, in genere con superficie metallica; ma se l'automa, pur conservando una natura essenzialmente meccanica, è ricoperto da una "pelle" molto simile a quella umana, si comincia a parlare allora di un androide; infine, se il robot è piuttosto un uomo sintetico, costituito da tessuti organici artificiali e artificialmente vivi, viene talvolta usato il termine replicante.
Sembra che questa nomenclatura presupponga un continuum graduato (di cui designa solo le principali regioni),
(i) che in tutta la sua estensione è una sorta di divenire, di metamorfosi, di evoluzione che porta dalla macchina all'organismo (o viceversa, se si inverte l'asse del tempo);
(ii) il cui massimo assoluto è una copia dell'uomo (o comunque di un organismo) indistinguibile dall'originale, cioè, di fatto se non di principio, ad esso identica (Giovannoli: 1991, 22).
 
Il cammino dall'uomo al robot - passando attraverso il cyborg e l'androide - costituisce un vero e proprio processo di macchinizzazione degli individui che racchiude in sé molte metafore: l'allontanamento dalla natura, l'incapacità di amare, la ricerca dell'immortalità, l'alienazione e la frammentazione del mondo interiore scaturiti dall'aumento dei compiti delegati alle macchine e, non ultimo, una sorta di fenomeno entropico dove, se da un lato la macchina si umanizza sempre più - come alcuni robot di Asimov - dall'altro gli esseri umani si macchinizzano, cedendo, con l'andare del tempo, quei valori e quelle qualità che ne definiscono l'essenza. Si tratta, in definitiva, di un cammino a senso unico, tutto giocato sulla distinzione - non da poco - tra essere e apparire. L'androide sembra un uomo, ma non lo è; il cyborg non sembra un uomo, ma lo è; il robot non sembra un uomo, e non lo è. La vecchia distinzione tra essere umano e macchina, tra naturale e artificiale, così come la conoscevamo fin dai tempi di Cartesio - per il quale l'universo era una gigantesca macchina e gli animali non erano altro che automi; solo l'individuo era parzialmente esente da questa visione meccanicista8 - si dissolve di fronte a una simile disgregazione della realtà, e tutto, all'improvviso, appare indistinto, vago, incerto.
Il mostro di Frankenstein, i robot di Capek in R.U.R. e quelli di Asimov simboleggiavano l'inquietudine degli individui di veder affiorare in corpi "artificiali" sentimenti, pensieri e sensazioni ritenute "umane". Questo senso di disorientamento si fa ancora più profondo quando ci si imbatte nella figura del cyborg9, vale a dire in una creatura in cui il corpo di un essere umano è inestricabilmente unito a quello di una macchina. Si tratta, di fatto, di un ibrido - come lo erano le creature di Wells in The Island of Dr. Moreau - ma l'elemento animale è sostituito da una componente meccanica che trasforma il cyborg in una sorta di freak tecnologico da mostrare a tutti come un fenomeno da baraccone per esaltare il progresso scientifico, e, al tempo stesso, da nascondere, poiché il processo di cibernetizzazione non annulla le qualità umane del nuovo essere, incutendo un notevole senso di fastidio negli osservatori.
Nati come ideali esploratori dello spazio, all'inizio i cyborg non suscitarono interrogativi radicali, ma vennero salutati come un ulteriore passo del genere umano verso quella perfezione così lungamente inseguita. Questa sorta di ottimismo meccanicista ebbe vita breve; infatti, nel giro di poco tempo prevalsero l'alienità e la mostruosità del nuovo essere, e il senso di caos e desolazione subì un passaggio decisivo dall'esterno all'interno degli individui. Il corpo artificiale suscita inquietudini superiori agli stravolgimenti scientifici del passato, perché c'è la consapevolezza che dietro alla struttura di metallo vive e opera un cervello umano.
 
Mentre l'automa settecentesco, quello concreto e materiale costruito dai grandi automisti, aveva anche l'effetto di rassicurare riguardo all'eccellenza del corpo dell'uomo (così complesso da meritare di essere imitato) e della sua mente (così acuta da essere capace di realizzare quell'imitazione), il robot, l'androide, il cyborg della fantascienza annunciano il declino dell'uomo quale noi lo conosciamo, o quale pensiamo di conoscerlo da ciò che la storia e l'abitudine ci hanno tramandato, e la nascita di un nuovo uomo, simbionte della creatura che lui stesso ha costruito ma ormai in qualche modo autonomizzata. Lo fanno riproponendo un interrogativo certo non nuovo, ma indiscutibilmente attuale ("che cosa è l'uomo?"), nella forma emotivamente e narrativamente più efficace del "come si distingue un uomo 'naturale' da uno 'artificiale'?". Se risposta esplicita non si dà quasi mai, una risposta implicita è spesso contenuta nella modificazione dell'interrogativo, fino al suo radicale rovesciamento: "come può l'essere artificiale diventare uomo a tutti gli effetti?" (Caronia: 1985, 58-59).
 
Il processo simbiotico tra uomo e macchina, se inizialmente era esaltato come un tentativo di avvicinamento alla perfezione e all'immortalità e come un superamento della ciclicità e, quindi, della precarietà della vita, successivamente fa emergere interrogativi di ordine epistemologico e ontologico. Il cyborg rappresenta il connubio tra natura - l'essere umano - e scienza - la macchina. Nondimeno, ogni essere umano, proprio a causa delle sue imperfezioni, è unico; la scienza, al contrario, opera attraverso rigorose codificazioni che, di fatto, rappresentano una forma di standardizzazione. La scienza fa emergere la regolarità e le leggi che governano l'universo, mentre la tecnica imbriglia le forze della natura, mettendole a disposizione degli individui. L'unione di questi due fattori - l'elemento umano e quello tecnologico - fonde due diverse prospettive: quella ciclica della vita umana e quella lineare, ottimistica, della scienza, che prevede uno sviluppo costante e crescente delle forze produttive. La nascita di questi nuovi ibridi provoca in loro quel genere di sentimenti contrapposti tipici di ogni gruppo emarginato rispetto alla maggioranza di "normali": da un lato c'è un forte desiderio di reintegrazione nell'umanità, dall'altro un'ostinata e orgogliosa chiusura nella propria corporazione.
Il cyborg rimette in discussione tutte le credenze e le convinzioni sulla natura degli esseri umani, su quale sia la reale definizione di "uomo". Il corpo meccanizzato dei cyborg annulla ogni emozione, o meglio sottrae la possibilità di manifestare compiutamente e degnamente tutti gli stati d'animo - gioia, dolore, rabbia, amore, partecipazione, empatia - che ci rendono umani. In più, il processo di metamorfosi, come ha descritto Kafka, assume connotazioni mostruose e socialmente inaccettabili.
In quest'ottica si inserisce il bel romanzo di Frederik Pohl, Man Plus (Uomo +), dove la colonizzazione del pianeta Marte da parte degli esseri umani è resa possibile grazie all'ausilio dei cyborg, individui i cui organi sono stati sostituiti con arti artificiali e che sono stati adattati a vivere nell'atmosfera irrespirabile di Marte, traendo dal sole la necessaria energia per sopravvivere. Il Progetto Man Plus prepara gli astronauti a vivere sul pianeta, anzi, li "modifica" trasformandoli in organi cibernetici: ma il prototipo che viene mostrato agli astronauti che diverranno cyborg è una specie di mostro.
 
Il teleschermo mostrava un uomo.
Non sembrava un uomo. Si chiamava Will Hartnett. Era un astronauta, democratico, metodista, marito, padre, suonatore dilettante di timpano, ottimo ballerino. Ma non sembrava niente di tutto questo. A vederlo, era un mostro.
Non pareva affatto umano. Gli occhi erano globi sfaccettati, rossolucenti. Le narici si aprivano tra le pieghe della carne, come il muso d'una talpa stellata. La pelle era artificiale e aveva il colore di una normale abbronzatura, ma la robustezza della pelle di un rinoceronte. Non c'era nulla, in lui, che avesse l'aria di essere una caratteristica innata. Occhi, orecchi, polmoni, naso, bocca, sistema circolatorio, centri della percezione, cuore, pelle... tutto era stato sostituito o potenziato. I cambiamenti visibili altro non erano che la punta dell'iceberg. Ciò che avevano fatto dentro di lui era di gran lunga più complesso e più importante. Hartnett era stato ricostruito, con l'unico scopo di metterlo in condizioni di restare in vita, senza l'aiuto di apparecchi esterni, sulla superficie del pianeta Marte.
Era un cyborg: un organismo cibernetico. Era in parte uomo e in parte macchina, e le due sezioni distinte erano fuse insieme in modo che lo stesso Will Hartnett, guardandosi nello specchio le rare volte in cui gli era permesso di vederne uno, non sapeva quanto di lui fosse veramente suo e quanto fosse stato aggiunto (Pohl: 1976, p.12).
 
Analogo discorso per gli androidi, ma con qualche piccola differenza. L'androide, infatti, tende a confondersi con gli esseri umani; per converso, gli individui giungono al punto di mettere in discussione persino la propria "umanità". Il dubbio ontologico, qui, è portato all'estremo. L'autore più attento nell'analisi dell'alienazione degli esseri umani a contatto con gli androidi è senza dubbio Philip K. Dick: nella sua personale visione della società, l'androide diventa un sinonimo di Vuoto, oltre che di Falso indistinguibile dal Vero. Il processo di androidizzazione, per Dick, riguarda quegli esseri umani che hanno perso la capacità di provare emozioni, o che, con assoluta acquiescenza, sono stati manipolati e devitalizzati: in sostanza, Dick si domanda costantemente se siamo umani o se siamo stati programmati a crederlo. Sotto questo profilo, l'ossessione del simulacro - cioè di un essere svuotato di sostanza e significato - si riflette nella figura dell'androide.
 
Diventare quello che io chiamo - in mancanza di un termine più appropriato - un androide, significa acconsentire a trasformarsi in un mezzo, oppure essere oppressi, manipolati e ridotti a un mezzo inconsapevolmente o contro la propria volontà: il risultato non cambia. Ma è impossibile trasformare un essere umano in androide se quest'essere umano infrange le leggi ogniqualvolta gliene si presenti l'occasione. L'androidizzazione richiede obbedienza. E, soprattutto, prevedibilità. Solo quando la reazione di una data persona a una qualsiasi situazione data risulterà prevedibile con precisione scientifica, si potrà dare il via alla produzione su larga scala di androidi. (...)
Nell'universo esistono cose gelide e crudeli, a cui io ho dato il nome di "macchine". Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo. In questo caso le chiamo "androidi". Per "androide" non intendo il risultato di un onesto tentativo di ricreare in laboratorio un essere umano. Mi riferisco invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per una nostra simile (Dick: 1995, 231-232, 251)10.
 
I romanzi più famosi di Dick dedicati alla figura dell'androide sono Do Androids Dream of Electric Sheep? (Blade Runner), e The Simulacra (I simulacri): il dramma esistenziale dei personaggi di queste opere è figlio del caos universale, del sempiterno farsi e disgregarsi delle cose, delle tensioni inconsce che prendono il sopravvento sulla razionalità, dei conflitti interiori che obliterano qualsiasi certezza ontologica, dell'alienazione sociale e individuale che trasforma la vita in una faticosa e, spesso, vana ricerca del proprio Io, dell'angoscia per la piccolezza e l'estrema caducità della condizione umana, della ricerca disperata di un dio che, se esiste, non risponde più al richiamo dell'individuo, anche se poi comprendiamo che siamo noi ad esserci chiusi come ricci di fronte al fascino del trascendente. Nelle opere di Dick il senso di disorientamento è assoluto: la presenza di moltissimi personaggi è una costante dei suoi romanzi, e serve ad attestare non solo la coralità della vita, che, spesso, si compie pienamente tra le persone semplici, ma anche la moltitudine di piani in cui la nostra esistenza è calata; le trame aggrovigliate, al limite della comprensione, i dialoghi a volte farneticanti, i grandi temi dell'umanità - fede, politica, etica, ... - mescolati ad esperienze banali e prive di significato, amplificano, invece che diminuire, il significato della vita, mentre la presenza degli androidi - con il loro forte simbolismo di vacuità - è un serio ammonimento nei confronti di tutti quegli individui che rinunciano alla propria personalità, alla propria libertà e ai propri diritti.
Esiste un'ultima figura, nella letteratura di fantascienza, che pone il problema dell'essenza umana e di ciò che la costituisce: quella dei mutanti. Essi rappresentano un'evoluzione - naturale o indotta - della specie, che può essere progressiva (creando, quindi, il superuomo) o regressiva (che genera il mutante mostruoso). Comunque sia, il mutante rappresenta un'ipotetica variante della "normalità", e può anche essere percepito come una minaccia al genere umano: tuttavia, la sua funzione all'interno dei romanzi e dei racconti è quasi sempre positiva, o "propositiva", e tende a evidenziare tutte le differenze esistenti tra gli individui, ma anche e soprattutto la comunanza di valori e l'appartenenza - al di là della semplice e superficiale apparenza - allo stesso genere.
La sofferenza, il senso di abbandono, la ricerca di un significato della propria vita, il bisogno d'amore, sono temi che ricongiungono questo gruppo all'archetipo di riferimento, la creatura di Frankenstein. Due racconti meritano di essere ricordati per la straordinaria sensibilità con cui viene affrontato il tema della diversità, ma soprattutto perché sono accomunati dal fatto di essere narrati direttamente dai mutanti stessi.
Il primo racconto è Born of Man and Woman (Nato d'uomo e di donna)11, di Richard Matheson, lo struggente diario di un bambino - una specie di mostro - che vive rinchiuso in cantina, spesso incatenato al letto. L'artificio letterario adottato da Matheson è estremamente efficace, in quanto la narrazione sgrammaticata del piccolo protagonista spinge il lettore ad affrontare la terribile realtà con gli occhi del diverso. La famiglia di questa povera creatura - che non ha nemmeno un nome, dato che la madre, dopo la nascita, l'ha definita "un obbrobrio" - vive una vita apparentemente normale, tenendo lontano il bambino dalla vista della gente. Il piccolo, tuttavia, sente le risate dei genitori e della sorella, e a volte striscia faticosamente sulle scale ed entra nella casa, provocando rabbia e orrore tra i genitori. Questi lo incatenano al letto, picchiandolo affinché impari la dura lezione che lui non fa parte della famiglia, ma può al massimo considerarsi una sorta di animale domestico. Nondimeno, la creatura avverte lo stesso bisogno d'amore - e, forse, di più - degli altri esseri umani e, alla fine, stanco di questi indicibili soprusi, medita - proprio come il mostro di Frankenstein - una terribile vendetta nei confronti di chi lo rifiuta e non vuole amarlo.
Il secondo racconto è Flowers for Algernon (Fiori per Algernon12), di Daniel Keyes, che, sotto alcuni aspetti, rimanda alla vicenda precedente. Anche qui, infatti, ci si trova di fronte a un diario scritto da un ritardato mentale - Charlie Gordon - il quale viene sottoposto a una serie di esperimenti - precedentemente eseguiti su un topo, Algernon, appunto - che dovrebbero migliorare le sue potenzialità intellettive. Le frasi sono slegate, scorrette, quasi incomprensibili, ma dopo l'operazione alla testa si assiste a un progressivo miglioramento nel linguaggio e nella grammatica, segnale che, in Charlie, sta improvvisamente aumentando l'intelligenza. Ma il suo mondo cambia. Le persone che prima lo schernivano perché stupido, ignorante e indifeso, ora lo temono e lo evitano perché hanno paura di ciò che è diventato. Charlie desidera soltanto essere una persona normale, come tutti gli altri: infatti si innamora della dottoressa che lo ha in cura. Ma le sue considerazioni sul mondo che lo circonda sono piene di amarezza e desolazione.
 
Strano che delle persone civili e sensibili, le quali non si sognerebbero di approfittare di un uomo nato senza le braccia o le gambe o gli occhi - queste stesse persone non esitino poi a offendere un uomo nato povero d'intelligenza. (...)
Solo poco tempo fa ho scoperto che la gente rideva di me. Ora capisco che, senza saperlo, mi univo a loro per ridere di me stesso. Questo soprattutto mi fa male.
(...) Anche un deficiente sente il bisogno di essere come gli altri.
Un bambino può non sapere come nutrirsi o di che cibo, e tuttavia sa che cos'è la fame (Keyes: 1959, 505-506).
 
Theodore Sturgeon ha fatto della difesa di ogni diversità il punto di forza della propria carriera letteraria. Attraverso una serie di romanzi - almeno tre - e racconti, Sturgeon ha affrontato tutti i temi possibili, persino quelli più scomodi come l'omosessualità - Venus Plus X - e l'incesto - Se tutti gli uomini fossero fratelli, lasceresti che tua sorella ne sposasse uno? - senza mai scadere nella banalità e, soprattutto, mantenendo un livello letterario difficilmente eguagliabile persino tra gli autori più acclamati della corrente principale.
Anche se ciò potrà sembrare strano riferito a un autore di science fiction, la caratteristica più evidente di tutte le opere di Sturgeon è il tema dell'amore, in ogni sua possibile manifestazione. Per Sturgeon la libertà degli esseri umani passa attraverso questo sentimento, che è in grado di elevare gli individui a uno stato di assoluta perfezione.
Sotto questo punto di vista, ci sono due romanzi che meritano di essere menzionati per la loro rara e struggente bellezza: Cristalli sognanti e Nascita del Superuomo.
The Dreaming Jewels (Cristalli sognanti) è la storia meravigliosa di un bambino, Horty, un mutante con una grave carenza di acido formico che lo costringe a mangiare le formiche. Scoperto, viene duramente castigato dal patrigno, uno spietato avvocato in carriera. Così Horty fugge di casa e si unisce ai membri di un circo: qui la sua diversità si confonde con quella dei geek - gli uomini che mangiano ogni genere di cose disgustose - dei freak - gli esseri deformi - e di Zena, una nana che lo accoglie subito con grande affetto. L'espediente fantascientifico è fornito dai "cristalli sognanti", una sorta di razza aliena che proietta i propri sogni nel mondo. Nondimeno, la funzione dei cristalli è anche metaforica e testimonia l'incanto della vita, il dovere da parte degli individui di dare il giusto valore alle cose, di saper apprezzare anche la più infima manifestazione della natura, perché, spesso, la bellezza più autentica riposa nelle cose meno nobili. Traslata sul piano umano, questa considerazione si sposta ovviamente sui personaggi del circo, rifiutati dal mondo dei "normali" - che, salvo poche eccezioni, è dipinto impietosamente - e costretti a vivere in una specie di ghetto, ma dotati di qualità umane tanto straordinarie che eccedono rispetto alle limitazioni fisiche. Ed è proprio qui che risiede la capacità più grande di Sturgeon: quella di saper ridare la giusta dignità agli oppressi, ai deboli, a quanti vivono una vita ai margini e, d'altro canto, quella di stroncare gli opportunisti, i meschini, gli egoisti che si nutrono del dolore del prossimo e giocano coi destini delle persone più sensibili. Il circo è il luogo in cui vivono tutti quei sentimenti che il normale consorzio umano talvolta dimostra di aver dimenticato: è una dura lotta tra l'amore e la rispettabilità, la posizione sociale, il calcolo, la superficialità, la grettezza e l'avidità. Secondo Sturgeon, la vera libertà si afferma e si consacra nel concetto di umanità, e si compie nel rispetto di tutti, specialmente di quanti vivono nell'invisibilità.
 
L'umanità è un concetto vicino, incredibilmente vicino agli esseri anormali, che anelano a confondersi con gli altri, che anelano ad essere come gli altri, che con i loro corpi deformi chiedono disperatamente il diritto di cittadinanza tra gli altri esseri umani, che tendono le braccia avidamente verso quell'idea di uguaglianza, di partecipazione al tutto, con la stessa intensità dell'assetato che tende le braccia verso l'oasi nel deserto (Sturgeon: 1950, 161).
 
L'altro romanzo - strettamente collegato, sul piano ideale, con quello precedente - è More Than Human (Nascita del Superuomo), in cui lo spunto originario per lo sviluppo della vicenda è fornito da un'affermazione della psicologia della Gestalt (o psicologia della forma): il tutto è maggiore della somma delle sue parti. Questa nuova teoria della totalità è fautrice, quindi, di una diversa concezione dell'essere umano, quasi come se l'homo gestalt costituisse il passaggio successivo dell'evoluzione umana. Ma il cammino non sarà breve: il "superuomo"13, prima di acquisire un'identità completa, dovrà compiere un lungo percorso evolutivo, sia sotto il profilo fisico, sia sotto quello etico. Sebbene sia piuttosto evidente l'ideologia sentimentale della solidarietà (Giovannoli: 1991, 117) che permea l'intera vicenda, è tuttavia doveroso ricordare l'intento principale di Sturgeon, che è quello di dimostrare che la teoria gestaltista - o olista, o sistemica - stabilisce che la forma complessiva (la Gestalt, appunto) sia qualcosa in più della somma delle parti che la compongono, e che questo "qualcosa in più" sia, in definitiva, la moralità. Per Sturgeon il nuovo balzo dell'evoluzione umana non sarà fisico, bensì psichico ed etico.
Con questo romanzo, e con Cristalli sognanti, Sturgeon ha offerto una metafora della solidarietà umana, chiudendo idealmente quel cerchio cominciato da una critica nei confronti di qualsiasi forma di manipolazione contro cui gli esseri umani sono costantemente chiamati a lottare per rivendicare la propria libertà e il proprio diritto di essere unici.
 
Se uno nega qualsiasi affinità con un'altra persona o genere di persona, se afferma che è completamente diversa da se stesso, come gli uomini hanno fatto con le donne, e le classi hanno fatto con le classi, e le nazioni hanno fatto con le nazioni, può odiare l'altra persona o deificarla; ma in ogni caso ha negato la sua eguaglianza spirituale, e la sua realtà umana. L'ha trasformata in un oggetto, con il quale un solo rapporto è possibile, un rapporto di potere. E così ha fatalmente impoverito la sua stessa realtà. Ha, in effetti, alienato se stesso (Le Guin: 1986, 89).
 
Gli esseri umani possiedono un dono unico: quello di poter correggere i propri errori - sia sotto il profilo intellettuale, sia sotto quello morale - rimediando con il dialogo, la comprensione, la conoscenza e l'esperienza; questa qualità si realizza compiutamente nella libertà di ognuno. Sebbene le forze avverse alla libertà siano sempre in agguato, essa rimane un valore supremo da difendere, poiché senza libertà gli esseri umani non sarebbero pienamente umani. Pertanto, il diritto di essere unici e liberi passa anche attraverso il riconoscimento dell'identità e della libertà altrui, lungo quella strada della comprensione reciproca tanto difficile da percorrere perché lastricata dalla diffidenza tra le persone, tra i popoli, tra le nazioni.
 
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