Cultura e Storia


Fiorenza Taricone
 
"DONNE NUOVE" TRA OTTOCENTO E NOVECENTO:
IL CASO DI ISABELLA GRASSI
 
 
Isabella Grassi nasce a Heidelberg nel Granducato di Baden il 24 aprile del 1886 da Giovanni Battista Grassi e Maria Koënen1. I due si erano sposati il 14 ottobre del 1884, e la ventisettenne Maria era già orfana del padre, Carl Koënen, commerciante2.
L'incontro era stato più che casuale. Nel 1884 G. B. Grassi, già titolare della cattedra di zoologia e anatomia comparata all'Università di Catania, si reca a Heidelberg per lavorare con il famoso anatomista Karl Gegenbauer. Con l'intento di perfezionare il suo tedesco, pubblica un annuncio sui giornali locali alla ricerca di un maestro di lingua: Maria Koënen risponde all'inserzione e la loro conoscenza si conclude appunto col matrimonio da cui nasce Isabella, subito inserita in un nucleo familiare bilingue e portatore di tradizioni religiose e culturali diverse.
Il Grassi infatti, nato a Rovellasca, in provincia di Como, nel 1854, allievo del collegio Ghislieri di Pavia, proveniva da famiglia borghese di stretta osservanza cattolica. La sorella del Grassi, Isabella, era legata al movimento femminile cattolico3.
Lo scienziato G. B. Grassi da parte sua non sembra essere stato un cattolico convinto, mentre Maria Koënen era di fede protestante e
di abitudini assai semplici, colta, capace di diventare degna consorte del futuro senatore del Regno e dello scienziato, le cui opere tradurrà in tedesco, la migliore presentazione per la Regina Margherita che la volle dama di corte (Clelia Bonati Pighetti: 1982, 27-35).
 
Comuni ai due genitori erano la severità di vita e l'avversione al superfluo, caratteristiche che Isabella ereditò. Nel 1895 la famiglia Grassi Koënen si trasferisce da Catania a Roma; nell'università della capitale G. B. Grassi va ad occupare la cattedra di anatomia comparata che ricopre fino alla morte, avvenuta nel maggio del 1925.
La sua fama era dovuta alla scoperta dell'anofele come veicolo di trasmissione malarica. Nel 1883 vince la cattedra di zoologia e anatomia comparata a soli ventinove anni ed ha ormai rinunciato all'esercizio della professione medica per dedicarsi alle ricerche scientifiche e all'insegnamento, che considera non scindibile dalla ricerca perché gli dà modo di scoprire ed educare giovani promettenti. Caratteristica sempre ricordata del Grassi fu infatti l'indiscusso amore per la didattica e per la ricerca che trasmetteva ai suoi allievi, come pure l'onestà scientifica che gli causò anche dei dispiaceri. Continuò a perseguire quei metodi di lavoro che avevano caratterizzato la sua opera fin dal soggiorno catanese: secondo tale metodo la scienza non era fatta di caselle isolate l'una dall'altra, ma invece richiedeva necessariamente la più stretta coordinazione tra le varie branche della biologia. Da tale principio derivarono quindi le sue indagini sistematiche di zoologia, morfologia, biologia ed embriologia.
Dopo aver svolto per lungo tempo ricerche sulla società delle termiti, il Grassi riprese a Roma, nel 1898, le ricerche sulla malaria4. Nell'agosto del 1898 scriveva alla figlia, allora dodicenne, che era alla ricerca di zanzare nella maremma toscana, e il 23 agosto ribadiva alla moglie Maria:
 
Sono partito domenica sera da Rovellasca, ho passato una giornata a Follonica nella maremma toscana e oggi sono di passaggio a Montecatini per visitare la palude di Focecchio. Se il cielo mi aiuta ho fatto una grande scoperta sulla malaria (Giulio Cotronei: 1961,23).
 
Il 29 settembre, in una nota ai Lincei, aveva già circoscritto a poche specie le probabili responsabili della trasmissione; la sperimentazione diede poi ragione alle ipotesi dello scienziato.
 
Rintracciai queste zanzare speciali e le sperimentammo, e così risultò che gli anofeli, solo gli anofeli, propagano la malaria. Così la chiave fu trovata, la porta si aperse e la luce venne dall'Italia. Questi risultati portarono in tutto il mondo il mio nome, facendomi nello stesso tempo assaggiare anche amarissime amarezze (Giulio Cotronei: 1961, 23).
 
Una di queste fu sicuramente il premio Nobel assegnato a Ross, che aveva peraltro condotto i suoi studi sulla malaria degli uccelli, perseguendone il germe infettivo già scoperto dal Grassi.
 
A far ottenere questa vittoria dello scienziato inglese s'era affannato (è doloroso ricordarlo) il grande Koch, scopritore del bacillo della tubercolosi il quale non perdonava al Grassi d'aver subito, proprio ad opera di lui e nel campo della malaria, l'unica sconfitta scientifica della sua vita (E. Cozzani: 1954, 5).
 
Le descrizioni di G. Battista Grassi presentano una persona il cui amore per la scienza segna un distacco dal mondo circostante, alle prese con una passione che escludeva tutto il resto, o quanto meno lo poneva in secondo piano.
Condusse le sue ricerche, specialmente quelle sulla malaria, in condizioni di autentica povertà. Talvolta accadeva che fosse portato a spalla dall'inserviente per traversare ruscelli e torrenti; spesso accettavano l'ospitalità dei contadini della campagna romana per rifocillarsi. Si legge di lui che era
 
piccolo, stento, con gli occhi fortemente miopi, e rovinati dall'abuso del microscopio, con una barbetta caprina sempre arruffata come i capelli; egli ha vissuto, combattuto, sofferto tutta la vita in una tale modestia e trascuratezza di ogni agio e d'ogni cura di sé stesso da diventare facile preda dei giornali umoristici e delle loro caricature (E. Cozzani: 1954, 5).
 
Il figlio agiato di proprietari terrieri si era quasi ridotto, a causa delle spese sostenute per le sue ricerche, alla condizione di un nullatenente. Per amore di tali ricerche compì anche gesti estremi: durante gli studi sulla parassitologia, arrivò a ingoiare i germi della tenia nana per comprovare le affermazioni contraddette da scienziati italiani e stranieri; analogamente ingoiò col cibo i germi del colera per documentare che le mosche erano il più efficace mezzo di trasmissione. Scoppiata la guerra, ritenne suo dovere collaborare ad alcune questioni di igiene sociale riguardanti la malaria; dal 1917 fino alla morte non abbandonò più questo tema.
Scarse sono le testimonianze sul Grassi "privato", sulla sua figura di uomo e padre. La storia tradizionalmente intesa, in auge fino a non molti anni fa anche nelle scuole, sempre legata ai grandi personaggi e agli avvenimenti politici nei loro risvolti bellici e dinastici e molto meno alla storia sociale, del quotidiano, della concretezza del privato ha fatto sì che il materiale documentario giunto fino a noi fosse filtrato in modo tale da privilegiare le qualità scientifiche dello scienziato e molto meno gli scambi affettivi nell'ambito familiare e amicale. Per reperire queste notizie che sfuggono alla memorialistica ufficiale si è ricorsi al modesto carteggio rimasto; nelle scarse lettere che vanno dalla fine dell'Ottocento al primo decennio del Novecento, scrivendo da ogni parte d'Italia, Grassi rimprovera moglie e figlia di trascurarlo affettivamente nei periodi in cui Isabella e la madre si trovano in vacanza a Heidelberg, mentre lui è costretto a lavorare ai suoi esperimenti sulla fillossera e sulla malaria.
Che il legame con la figlia sia stato molto forte risulta anche dai superstiti diari di Isabella che si riferiscono al 1920-21, quando essa, trentacinquenne, annota il dispiacere di non potere fare altro per il padre, afflitto da gravi disturbi alla vista, che scrivere le lezioni che le dettava, senza peraltro capirle fino in fondo perché priva di formazione scientifica. Il sentimento verso di lui viene quasi sempre espresso in termini di dovere, così come l'assistenza prestata è per Isabella un "dovere" massimo cui obbedire.
Poche ore prima di morire G. B. Grassi aveva finito di correggere le bozze di una comunicazione ai Lincei: quando arrivano, è Isabella che gli sorregge la mano affinché possa effettuare la sua ultima correzione.
Della madre e dei rapporti madre-figlia si sa molto poco. Quasi a nulla è approdato infatti il paziente lavoro per rintracciare le persone di famiglia; gli eredi e i conoscenti della famiglia Grassi che avrebbero potuto dire qualcosa di più risultano scomparsi, irreperibili o deceduti.
Nulla di più hanno potuto aggiungere le diaconesse della comunità evangelica di Roma, a cui Isabella, per devozione verso la madre, due giorni prima della morte, lasciava la sua casa con l'obbligo di occuparsi dell'assistenza a Maria Koënen con letture quotidiane e accompagnandola a passeggiare quando lo avesse desiderato.
A sua volta, Maria K., che sopravvisse otto anni alla figlia, lasciò per testamento alle suore diaconesse una rendita e parte del mobilio appartenuto a Isabella nella casa romana di via Adige. Negli archivi della comunità tedesca, la Koënen risulta semplicemente nell'elenco delle benefattrici e l'unico obbligo che veniva fatto alle diaconesse era quello di visitare annualmente la tomba della famiglia Grassi a Fiumicino per deporvi dei fiori.
Quello che si può desumere dell'attività di Maria Koënen lo si deve ricostruire dai documenti ufficiali, come giornali quotidiani e periodici, libri, e dagli archivi delle associazioni femminili, rari a trovarsi e reperibili solo per quelle associazioni femminili che hanno tentato di conservare memoria storica della loro esistenza. Se Isabella aveva ereditato dal padre la serietà e l'onestà nel lavoro intellettuale e la sobrietà di vita, dalla madre sicuramente ereditò lo spirito associazionistico e la consapevolezza che l'unione concreta di volontà femminili avrebbe potuto dare un indirizzo preciso alla questione femminile.
La concezione altissima della vita associata del resto sarà infatti basilare per Isabella anche nei suoi convincimenti etico-religiosi. Se farà parte della comunità, formatasi attorno al sacerdote modernista Buonaiuti dopo la prima guerra mondiale, non sarà certo solo per la apertura teologico religiosa, ma perché la koinonia - questo il nome che Buonaiuti diede al gruppo dei discepoli -personifica per Isabella il carattere sacrale della vita associata, in piena sintonia con il maestro.
Maria Koënen invece compare nel nucleo fondatore della associazione Per la donna, nata tra il '97 e il '98, il che indica che Maria K. si dedica alla causa femminile poco dopo essersi stabilita nella capitale, in concomitanza con l'inizio dell'insegnamento del marito nell'Università. L'Associazione costituisce infatti uno dei molti casi in cui non è stato finora possibile reperire un archivio, neppure frammentario; e nulla autorizza a pensare che si sia sentita l'esigenza di un archivio al punto di costituirne uno.
Una seconda ipotesi potrebbe ricollegarsi alla dispersione delle carte dopo lo scioglimento dell'Associazione ad opera del regime fascista nel 1925. Lo scioglimento avvalora, tra l'altro, la definizione della associazione Per la donna come una delle più battagliere per la difesa dei diritti delle donne. Così la ricorda Teresita Sandeski Scelba, che ricoprì svariate cariche per lunghi periodi all'interno del Consiglio Nazionale Donne Italiane (Cndi) ed anche nell'associazione Per la donna. Quest'ultima associazione aveva curato fin dai primi del Novecento l'organizzazione di scuole festive, dormitori per le lavoratrici minorenni, posti di assistenza per gli emigranti alle stazioni e ai posti d'imbarco, e soprattutto l'Opera Nazionale di Assistenza Materna, sorta nel 1918; fu affidata alle cure del pediatra Enrico Modigliani e della consorte Olga Modigliani Flascel, la cui sorella, Giulia Mendel Flascel, figurava nell'elenco delle socie della Federazione Italiana Laureate Diplomate Istituti Superiori (Fildis) del 1935, di cui Isabella fu presidente nazionale fino allo scioglimento. L'Opera intendeva colmare una lacuna nell'assistenza alle madri nubili, accogliendole qualche mese prima del parto e facilitando riconoscimento e matrimoni. Con la morte del prof. Modigliani e l'esilio di Olga durante il fascismo, l'Opera ebbe vita stentata per tutta la durata del regime5.
Maria Grassi Koënen era stata in particolare, nel 1904, l'ideatrice e la promotrice, per conto dell'associazione Per la donna, del dormitorio per le minorenni, ubicato in via Vicenza, a Roma, nei pressi della stazione. Lì, nel 1908, aveva accolto molte superstiti del terremoto e successivamente profughe di paesi invasi e minacciati durante la grande guerra. La figlia Isabella si era prodigata invece durante il conflitto come infermiera volontaria al fronte negli ospedali da campo di Terzo e Scodovacca.
Il Giornale d'Italia del 1911 nel presentare le relatrici del congresso femminista che si apriva a Castel Sant'Angelo, scrive che Maria Koënen si era dedicata da anni alle rivendicazioni femminili "lottando con ardore per sacrosante questioni dalle quali dipende l'elevamento della donna". Nel corso del congresso, inaugurato e presieduto dalla stessa Koënen, essa affermava che occorreva introdurre il divorzio nella legislazione italiana e lottare per la laicità della scuola perché femminismo e libero pensiero erano una rivolta dell'anima contro le antiche forme della morale religiosa (Nuova Antologia: 1911, 106).
Nel 1924 il dormitorio entrava a far parte dell'Assistenza Materna per madri legittime e illegittime, mentre la Koënen veniva nominata membro del consiglio direttivo dell'Assistenza Materna, carica che non è stato possibile sapere se espletò o meno6.
Maria Koënen aveva funzioni di cassiera all'interno del Cndi, anche perché l'associazione Per la donna, divenuta nel 1907, con l'apertura di altre sezioni, Associazione Nazionale, era federata al Consiglio stesso ed era anche la rappresentante dell'Italia all'Icw, International Council of Women, cui il Cndi si collegava internazionalmente7.
Negli anni Venti il Cndi, insieme alla Federazione Nazionale Madri e Donne di combattenti, alla Federazione Italiana fra le Laureate e Diplomate Istituti Superiori, all'Associazione Italiana Dottoresse in Medicina e Chirurgia, e all' Associazione Italiana delle Amiche delle giovanette, si accordavano sul memoriale presentato dall'associazione Per la donna in occasione del progetto di legge sul voto amministrativo alle donne. In esso si ipotizzava tra l'altro se non fosse il caso di comprendere fra le onoreficenze che consentivano il diritto di voto, anche quelle elargite per servizio prestato in occasione di calamità pubbliche; inoltre chiedevano che fosse inserita fra gli aventi diritto al voto chi avesse superato l'esame scolastico alla fine del terzo corso elementare, considerato che nell'attuale legislazione il proscioglimento dell'obbligo scolastico variava da comune e comune fra la 3, la 4 e la 6 classe. Si richiedeva infine che venissero comprese nel diritto di voto anche le donne che avessero avuto l'effettivo esercizio della patria potestà e della tutela e non ne fossero state rimosse per incapacità, e quelle donne che già usufruivano del diritto di voto in corpi arbitrali e amministrativi riconosciuti dallo stato e avevano coperto cariche direttive in enti o commissioni dipendenti dallo stato, dalle provincie e dai comuni8.
Tra le iniziative che Maria K. portò avanti in prima persona significativa è quella di un comitato per le vedove e gli orfani di impiegati privati che si trovavano in miseria perché non avevano diritto ad alcuna forma di pensione.
Viene da sé pensare che Isabella, accanto alla madre nelle sue attività associazionistiche, ne avesse assorbito progressivamente propositi e scelte. Molto probabilmente, fu in compagnia della madre che conobbe e si legò d'amicizia con Gabriella Spalletti Rasponi, presidente per anni del Cndi, e animatrice di uno dei più noti salotti romani.
L'amicizia decennale fra Isabella e la Spalletti si concretizzò sul piano lavorativo con la carica di segretaria del Consiglio Nazionale Donne Italiane che Isabella ebbe per vari anni; oltre a ciò, la Fildis fu dal suo nascere federata al Cndi, e Isabella esercitò quindi una doppia rappresentanza. Il rapporto s'interruppe solo con la morte della Spalletti Rasponi avvenuta nel 1931.
Infine, una personale iniziativa della Grassi Koënen fu la difesa assunta in nome delle ricevitrici del Lotto. Nell'assemblea generale del Cndi, tenuta a Roma nel gennaio del 1913, Maria K. parlando a nome del Comitato Nazionale delle vedove e orfani degli impiegati dello stato e per mandato delle ricevitrici del Lotto, si dichiarava contro l'approvazione della legge che prendeva il nome dal ministro L. Facta dove si stabiliva di allontanare le ricevitrici titolari se entro otto giorni non avessero assunto la gestione personale del banco. Poiché le ricevitrici erano quasi tutte in età troppo avanzata per poter provvedere diversamente alla propria sussistenza, la Grassi Koënen proponeva al Cndi di votare un ordine del giorno che tutelasse le circa 800 donne che sarebbero state ridotte in condizione precaria dalla legge del 4 maggio 1912; il progetto di legge avrebbe dovuto essere emendato in modo da concedere alle vedove e orfane degli impiegati dello stato, attualmente ricevitrici titolari, di conservare immutata la gestione del banco che era stata concessa prima del 1906, come ricompensa dei servizi prestati allo stato dai rispettivi padri e mariti (Attività Femminile Sociale: 1913, 23-4).
Isabella fece gli studi medi classici a Roma, al liceo "Pilo Albertelli", ex "Umberto I", dove si sa con certezza che dal 1903 al 1905 frequentò i primi due anni della scuola media superiore da ottima allieva con i voti del sette e dell'otto. Non si è trovata traccia invece dei registri relativi alla maturità classica, che sarebbero stati utili nel caso avessero tracciato un giudizio anche sul suo carattere. Unica spia delle sue letture e interessi culturali è quella parte della sua biblioteca che si trova alla Alessandrina di Roma, nota come Donazione Grassi, con tutta probabilità depositata dalla madre dopo la morte della figlia, unitamente al lascito di una borsa di studio in memoria di Isabella Grassi.
La biblioteca di Isabella riflette immediatamente i suoi gusti e la sua cultura bilingue: molte le opere di filosofia anche in tedesco, come Kant, Fichte, Feuerbach, e testi posteriori come Boutroux e Gentile. I libri strettamente politici non sono numerosi: vi si trova una raccolta di discorsi parlamentari dei deputati Bonghi, Bertani, Finocchiaro, Varisco e Formichini, ed un testo di Mussolini. C'è poi una nutrita schiera di autori del romanticismo italiano e straniero come Byron, Michelet, Maëterlink, Foscolo, Pindemonte, Mazzini, Guerrazzi. Il Novecento è scarsamente rappresentato, ma certo i libri di Fogazzaro non sorprendono nella biblioteca di Isabella, dati i legami teorici e pratici della Grassi col Buonaiuti e il ruolo avuto dal Fogazzaro nei fermenti modernistici dell'Italia del primo Novecento. Fra le donne, sono presenti, oltre a Jane Austen e alla pedagogista italiana Caterina Franceschi Ferrucci, due firme che rappresentano la conferma, del resto ampiamente documentata, degli interessi di Isabella non solo per la religione, ma per tutto ciò che concerneva l'occulto, l'irrazionale, il teosofico: la prima è quella di Eva De Vincentiis, socia dell'associazione Per la donna, presente con un saggio intitolato Una parola d'oltre tomba sulla educazione della gioventù, pagine dettate da una individualità disincarnata con prefazione del medium (1921). Il medium è la stessa De Vincentiis, che a un certo punto della sua vita si sente scelta e guidata da uno spirito che le detta il contenuto del libro. Una delle tesi fondamentali del libro è che l'avvicendarsi delle generazioni deve segnare una ascesi progressiva, seguendo una sorta di reincarnazione qualitativa e obbedendo a criteri precisi sia nella educazione degli spiriti, sia nella procreazione; il concepimento è visto in modo del tutto distaccato dal piacere, e indirizzato solo a migliorare la qualità dei viventi. L'altra presenza è quella della teosofa e conferenziera Annie Besant, che si impegnò in Inghilterra nella propaganda neo-malthusiana per il controllo delle nascite, in nome degli stessi principi della De Vincentiis9. Nell'elaborazione di una diversa e più moderna sessualità che non voleva affatto sconfinare nell'immoralità, ma anzi mirava ad una fortificazione della moralità umana, si può rintracciare anche uno dei motivi dello scambio culturale fra Isabella Grassi e lo scomunicato Buonaiuti, avversario della politica demografica del regime fascista e autore di un libro (certamente singolare per un sacerdote) I rapporti sessuali nell'esperienza religiosa primitiva.
Sulla scia dell'impegno materno, Isabella non era assente da nessuna manifestazione femminile di impegno sociale, ma l'istituzione a cui dedicò più tempo, energie e risorse economiche fu la Fildis. Fin dal 1915 fu anche consigliere della Sezione Italiana del Comitato Internazionale Femminile Pro Pace e Libertà, fondato a Roma nel 1915. Chi l'ha conosciuta ricorda una donna la cui mente spaziava dalla più vasta problematica teorica e organizzativa fino ai più piccoli dettagli della vita quotidiana.
Tra le sue iniziative più sconosciute c'era per esempio l'istituzione e il finanziamento di una cassa per i piccoli prestiti non eretta in ente morale e nota solo a poche socie e benefattrici. L'istituzione quasi familiare aveva lo scopo di aiutare dignitosamente persone oneste e serie del ceto operaio o piccolo borghese che si trovavano temporaneamente in difficoltà. Le piccole somme venivano messe a disposizione sotto forma di prestito senza interessi e a tempo illimitato.
La donna che operava nelle associazioni rimaneva però per lei la vera chiave di volta del cambiamento sociale ed anche della crescita interiore.
In lei, l'attivismo personale - che era anche una risposta esterna ai dubbi esistenziali - si coniugava perfettamente con l'idea che Isabella si faceva della donna nella società futura: elevata culturalmente, socialmente e spiritualmente. La spinta all'elevazione in qualunque modo intesa non riguardava solo la condizione femminile, né poteva dirsi nata nel Novecento. Si collegava piuttosto ai cambiamenti sociali, economici e politici inaugurati dall'unità d'Italia, accompagnati da un notevole mutamento di mentalità. L'opera di alfabetizzazione inaugurata dallo stato unitario negli anni '60 era stata decisiva nel mutare gli orizzonti mentali e professionali, mentre il radicamento della cultura laico-socialista, con il prospettare una vita terrena (anziché ultraterrena) qualitativamente migliore, ebbe anch'essa un ruolo significativo. Il valore attribuito dalla cultura socialista al lavoro come strumento di indipendenza economica e contributo alla ricchezza della nazione, si combinò per molte donne con il tramonto definitivo dell'economia dotale. Non era più solo il matrimonio l'unica collocazione possibile. In molte famiglie, ormai impossibilitate ad assicurare alle figlie un'educazione borghese, fondata sulle arts d'agréments, in vista di una buona collocazione matrimoniale si diffondeva invece la convinzione che era meglio dotare le figlie di un diploma e di un lavoro onesto e decoroso. Non era un caso che gran parte delle maestre di fine secolo provenissero in buon numero da famiglie della piccola borghesia. In questo percorso di continua elevazione, culturale e materiale, che andava di pari passo con lo sviluppo della società moderna, anche Isabella proiettava se stessa. Fu questa convinzione che la motivò ad accettare la presidenza della sezione educazione del Lyceum Romano dal 1932 al 1935, attività, questa, che è stato impossibile analizzare in dettaglio per la irreperibilità dei documenti relativi al Lyceum. Poiché però esso, come istituzione, si proponeva di elevare e aggiornare il pubblico femminile con cicli di conferenze, non è difficile intuire come Isabella lo vedesse come un ulteriore strumento per elevare la cultura femminile.
Sempre su questa linea, Isabella aveva cercato di essere presente ai congressi triennali tenuti all'estero dalle universitarie di tutto il mondo, per testimoniare lo sforzo culturale della donna italiana. Questi viaggi erano peraltro resi ancora più necessari dalla riduzione di autonomia subita dalla Fildis ad opera del regime fascista dopo gli anni trenta; i contatti internazionali permettevano una comunicazione ed uno scambio altrimenti impossibili.
L'impostazione data da Isabella alla rivendicazione dei diritti era quella di una parità culturale raggiunta con la rettitudine morale e soprattutto con lo studio.
 
La donna impiegata, la donna professionista di tutti i rami dello scibile era da lei concepita non come stupida antitesi alla donna madre, ma come un integramento reso necessario dal cammino ascensionale della civiltà moderna, dal mutato fattore economico ed anche specialmente dall'accresciuto livello culturale di tutta la nazione, dal diffondersi delle arti liberali e degli studi ai quali la donna si abbevera come l'uomo non solo per rispondere alle necessità della vita materiale, ma per saziare quella sete del sapere che è insita nell'essere umano intelligente, a prescindere dal sesso. Così Isabella intendeva la nostra missione e raccomandava di estollerci più che fosse possibile dalla questione di voto isolata e fine a se stessa10.
 
Per questo raccoglieva, sforzando la vista indebolita da una miopia progressiva, tutte le notizie relative a concorsi universitari, a premi letterari e scientifici conquistati da donne italiane in pubblici concorsi.
Da questi pur brevi cenni risulta chiaro che Isabella Grassi condivide il progetto comune a tutte le emancipazioniste che tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si battono in prima persona per una "donna nuova". A coronamento delle lotte per l'affrancamento dal ruolo tradizionale e l'acquisizione di altri inconsueti e innovativi, per molte emancipazioniste deve emergere una donna liberata, di cui il nuovo secolo sembra comunque portatore sull'onda del progresso sociale ed economico. "Nuova" e "futuribile" la donna moderna lo era indiscutibilmente sotto molti aspetti: aperta a nuove professioni, in lotta per i diritti civili e politici - primo fra tutti quello di voto - in contrasto con un ruolo falsamente naturale ed esclusivo che la voleva dedita comunque, volente o nolente, alla maternità; critica nei confronti dei ruoli sessuali tradizionali e dell'ideologia oppressiva celata sotto i legami affettivi tradizionali. Benché il termine "donna nuova" circoli con relativa frequenza in diverse sponde culturali e ideologiche, le donne del movimento femminil-femminista non si soffermano spesso sulla teorizzazione di esso.
La delineazione di una nuova tipologia di donna italiana viene invece portata avanti anche dall'uomo che attraverso una serie di passaggi culturali comincia a produrre teorie, idee e dati per dare forma all'altra metà del carattere nazionale: l'italiana. La costruzione di una tipologia femminile ha inizio negli ultimi dieci anni dell'Ottocento e continua fino alla grande guerra, nel dopoguerra e nel ventennio fascista. L'elaborazione di una tipologia femminile si configura quindi come operazione esclusivamente politica attraverso cui intellettuali d'ambo i sessi tentarono di far leva sull'immaginario collettivo femminile per arrestare o accelerare l'immagine che le donne avevano l'una dell'altra e della possibilità di cambiamento legata all'immagine.
Tra i contributi femminili italiani all'individuazione di una probabile tipologia femminile passata e presente si può annoverare quell'Esposizione Beatrice tenuta a Firenze nel 1890, nata da un'idea di Felicita Pozzoli e Bice Ferrari per festeggiare Beatrice collocandone il busto nella casa di Dante. Il progetto iniziale fu ampliato da Angelo De Gubernatis che propose una pubblica esposizione di lavori femminili "d'ingegno e di mano" provenienti da tutta le province italiane e una serie di conferenze che offrissero un'immagine della donna italiana nella storia e nell'arte dal Trecento all'età moderna e contemporanea. Ne fu tratto un volume, La donna italiana descritta da scrittrici italiane (1890), frutto di una selezione fra i trenta lavori inviati (F. Taricone- Beatrice Pisa: 1985, 71-83).
Teresa De Gubernatis, (F. Taricone: Dizionario Biografico degli italiani, 1996) sorella di Angelo11, aveva disegnato per l'occasione una rassegna tipologica della donna dei diversi ceti sociali, dalle aristocratiche alto e medio borghesi, alle massaie, alla "bisnonna rediviva" come lei stessa definisce le conservatrici, "alla donna del popolo", tracciando in breve una piccola sistemazione concettuale, secondo classi sociali, della donna italiana.
Dora Melegari, italo-svizzera, molto attiva nel Cndi e negli organismi pacifisti, scrive nel 1902 che mentre per gli stranieri la donna italiana era ancora "la femmina assoluta", essa nella realtà era una donna provinciale che si muoveva poco e produceva più memoria passatista che immagini contemporanee di sé (Michela De Giorgio: 1987, 215).
Del resto, a mutare l'immagine fisica, contribuisce ormai anche la pubblicità sui benefici dell'esercizio fisico femminile che a lungo andare produrrà nell'immaginario cambiamenti dei canoni della bellezza femminile legata non più solo alla corpulenza, alla mollezza, alla sedentarietà, e non più vista in contrasto con la forza, la muscolatura, l'agilità, la snellezza.
La stessa propaganda sull'igiene, serratissima a fine secolo e nel primo Novecento, contribuisce a disegnare, interpretare, raffigurare il corpo femminile; e se è vero che tutte le descrizioni sono di parte maschile, alla donna si poneva comunque l'intimo interrogativo se quella descrizione le corrispondesse, se in esse vi si ritrovasse con la sua fisicità.
La donna nuova, anche fisicamente, non faceva altro in definitiva che accentuare la crisi della femminilità tradizionale, con tutto il corredo di gesti, comportamenti, abitudini, affettività ad essa legati. La donna nuova si colora di mascolinizzazione non solo per la meta che si propone - occupazioni di spazi maschili, uguali opportunità e privilegi - ma anche per il codice fisico-comportamentale. La donna nuova che si tenta di individuare e di circoscrivere era spesso anche oggetto di compassione perché si riteneva che si fosse dedicata a una vita inadatta alla donna in quanto frustrata nel desiderio di farsi una famiglia, oppure perché priva di attrattive fisiche che la rendessero sessualmente aderente al gusto maschile. Ricompare puntuale il fantasma della virilizzazione sotto forma di commento sull'aspetto fisico delle emancipazioniste, un classico per i detrattori delle qualità femminili, già dal Sei-Settecento, accompagnato dalla constatazione della bellezza che era in grado, quando esisteva, di fare da contraltare all'azzardo del ruolo contro natura della femme savante (Ginevra Conti Odorisio: 1979). Le erudite oltre i limiti del proprio sesso avevano un precedente glorioso, ma ridicolizzato da Molière, le preziose che avevano rifiutato il matrimonio; ma l'intero Settecento e Ottocento era popolato da donne che spesso preferivano una vita vedovile autonoma ricca d'interessi, piuttosto che una seconda unione. Negli anni in cui si afferma l'emancipazionismo e quindi un diverso modello femminile, una persistente immagine viriloide fa elaborare ipotesi pessimistiche su una donna che spinge la sua libertà fino alla non accettazione della famiglia, dei figli e della stessa femminilità così come era intesa fino allora e nasce non casualmente alla fine del secolo il termine "terzo sesso". Ma né la cultura cattolica, che ai primi del Novecento condanna il femminismo democratico-cristiano troppo progressista, né la cultura positivista dominante alla fine dell'Ottocento, dimostrano di approfondire particolarmente le scelte femminili. Il positivista Giuseppe Sergi, ad esempio,
 
si pone il problema di come le nubili emancipate libere e indipendenti dall'uomo possano vivere senza quell'elemento essenziale alla vita al quale gli uomini scapoli provvedono senza pericoli e senza vergogna, l'amore" (M. De Giorgio: ibidem, 239).
 
È evidente che per la mentalità del tempo, che coniugava inscindibilmente amore e matrimonio, sesso e riproduzione, tenendone fuori il piacere, non fosse neanche ipotizzabile come un rapporto idealmente intenso fra donne potesse compensare un rapporto erotico con l'altro sesso.
Sull'altra sponda dell'Atlantico e in Inghilterra il femminismo celibatario americano e anglosassone era ben più teorizzato che in Italia. Christabel Pankhurst, ad esempio, una delle prime e più attive agitatrici della lotta per il suffragio in Inghilterra assieme alla madre e alla sorella, affermava categoricamente che "spinsterhood was a political decision, a deliberate choice made in response to the conditions of sex-slavery". (Sheila Jeffreys:1985, 89) Lucy Re-Bartlett in Sex and Sanctity, dopo aver parlato degli orrori della tratta delle bianche - cioè della prostituzione femminile anche minorile e della rovina morale dei figli - descrive la emergente coscienza delle militanti inglesi e in genere di tutta una nuova coscienza femminile anche nelle donne non militanti nei movimenti di liberazione:
 
These women feel linked by their womanhood to every suffering woman and every injuried child and as they look around upon the great mass of men who seem to them indifferent, there is growing up in the hearts of some of these women a great sense of distance...In the hearts of many women today is rising a cry somewhat like this... I will know no man and bear no child until this apathy is broken through these wrongs be righted...(S. Jeffreys: 1985, 89).
 
Anche gli studi contemporanei sull'argomento si sono sviluppati in territorio anglo americano piuttosto che italiano. Nel 1985 veniva pubblicato in traduzione un articolo di Esther Newton e Carroll Smith Rosenberg su Il mito della lesbica e la "donna nuova": potere, sessualità e legittimità, 1870- 1930.
Secondo queste autrici, la "donna nuova" nubile, colta, ben definita politicamente e professionalmente, si sarebbe imposta tra il 1879 e il 1930. Nel tentativo di far coincidere la legittimità sociale con il rifiuto della famiglia e l'esercizio attivo di una professione, l'immagine della donna autonoma e quella della donna dotata di sessualità si fusero gradatamente per dare vita al mito della donna sessualmente autonoma che recava in sé una forza esplosiva. Nel corso degli ultimi due decenni dell'Ottocento e dei primi anni del Novecento i sessuologi, gli educatori e i sociologi fecero della donna nuova una lesbica imitatrice degli uomini, fabbricando un ruolo femminile intermedio e pericoloso. Infatti, una donna che rivendicava fuori della struttura familiare i suoi diritti all'autonomia sessuale, politica ed economica, non simbolizzava più solo la trasformazione della famiglia, ma quella della società.
Le due autrici considerano la donna nuova come il prodotto di un'interazione tra forze macro-economiche e istituzionali da un lato, e l'evoluzione sociale dall'altro: le figlie della classe media si sposavano più tardi o affatto, mentre si faceva sentire la diversificazione legata alla crescita industriale e urbana, insieme all'importanza degli studi superiori in un mondo che esigeva la specializzazione. La generazione delle donne nuove intrecciò così tre discorsi distinti: il diritto di ognuno a realizzarsi, una visione romantica della morale superiore delle donne, un nuovo approccio scientifico non determinista. Gli interventi dei medici nella questione ebbero un peso rilevante. Alla fine dell'Ottocento, Richard Krafft-Ebing divise le lesbiche in quattro categorie: quelle che non tradiscono l'anomalia attraverso l'aspetto esteriore; le "virago" che avevano una marcata preferenza per i vestiti da uomo; la terza categoria, in cui rientravano le inversioni pienamente dichiarate e, in ultimo grado, la "ginandria" che rappresentava lo stadio estremo di mascolinizzazione. Havelock Ellis, rifiutando sia le tesi di Krafft-Ebing, sia le tesi dei medici americani secondo cui il lesbismo era un fenomeno tipico della classi inferiori, affermò che le lesbiche erano spesso donne brillanti, colte e seducenti. Sosteneva anche che l'omosessualità era due volte più frequente fra le donne che fra gli uomini e risultava diffusa fra le studentesse e le donne attive nei movimenti politici riformisti.
Lentamente, la donna nuova, nata in America e in Inghilterra, con il suo carico di ambiguità comportamentali e a cui si guardava spesso in Europa come a un'icona di simbologia emancipatrice, si affacciò discretamente anche sulla scena italiana, collegandosi al problema della nubilità, considerata talvolta una traduzione in termini pratici della contestazione ideale della società maschile. Isabella stessa, oltre a conoscere le potenzialità e le caratteristiche della "donna nuova" poteva essere definita lei stessa in modo tale? Aveva anche lei accoppiato alla riflessione sui diritti esterni, civili e politici, la pratica dei diritti per così dire "interni" e inerenti alla sessualità autonoma, alla riproduzione e al matrimonio, alla prole come si diceva allora concepita come libera scelta, a una concezione dell'individualità femminile scissa dai ruoli di moglie e madre?
Non si può dare una risposta esauriente a questi interrogativi anche perché il problema della "donna nuova" nel suo complesso in Italia non si sviluppa in un dibattito ampio come all'estero; ma si possono avanzare delle ipotesi e osservazioni che non paiono azzardate. Il tema non era certo sconosciuto a Isabella dal momento che come rappresentante dell'Italia ai congressi triennali dell'International Federation of University Women aveva la possibilità di girare il mondo molto più della maggioranza delle donne italiane della sua epoca. Per quanto non abbia lasciato scritti precisi sull'argomento, non solo era perfettamente addentro al movimento emancipazionista e femminil-femminista italiano e alle tematiche che l'attraversavano, ma poteva essere considerata lei stessa un'esponente del cosiddetto femminismo celibatario. Nella prima pagina dei due diari superstiti da me pubblicati si trova una affermazione significativa:
 
Per il matrimonio non ho alcun trasporto: prova ne sia che non mi sono mai sposata finora e quel che è più sintomatico non mi sono neppure innamorata: quindi non può essere il matrimonio il mio destino" (F. Taricone: 2000, 109).
 
Non si rifugiò quindi dietro a nessuna giustificazione di copertura, per una scelta fatta in un periodo in cui la figura della zitella era socialmente screditante. La polemica sul celibato femminile portava con sé anche risvolti eugenetici e igienici. Si sosteneva che per le donne il celibato fosse dannoso alla salute mentre le femministe unmarried sostenevano il contrario e cioè che erano il matrimonio come contratto, le vessazioni della vita familiare, le continue gravidanze che uccidevano il benessere fisico delle donne.
Ne è un esempio il volume proveniente dalla biblioteca della Grassi, a firma di Edward Carpenter,12 L'amore diventa maggiorenne, che ebbe varie edizioni, in cui interi capitoli sono dedicati al "terzo sesso". L'autore sintetizza quello che era un fenomeno di attualità e di costume, ma anche un nodo psicologico, antropologico e sessista tipico del tempo. Lo scrittore ritiene che nell'uomo le passioni e i poteri intellettivi, affettivi ed emotivi siano più vasti e profondi che nella donna, ma quest'ultima ha un grande vantaggio: i suoi poteri sono più coordinati e più armonizzati fra loro, mentre quelli dell'uomo sono separati e in perenne conflitto: "La maggiorennità dell'amore che armonizza tutte le facoltà della natura umana ha luogo più presto nella donna mentre nell'uomo si protrae a lungo e talvolta non si effettua mai completamente" (E. Carpenter: 1946, 23). La società si è quindi venuta formando sul modello maschile: progredita intellettualmente e nelle invenzioni meccaniche, animata da passioni smisurate, ma piena di confusione e di lotta. Una società, afferma lo scrittore, che dal lato materiale potrà anche sembrare un successo, ma dal lato affettivo dà a volte l'idea di un completo fallimento. Gli uomini non sono mai diventati maggiorenni, osserva Carpenter; e afferma crudamente:
 
A volte è irritante il pensiero che i destini del mondo, l'organizzazione della società, le meravigliose possibilità della politica, gli immensi portati dell'industria e del commercio, l'amore della donna, le vite dei criminali, la sorte delle nazioni barbare, tutto sia nella mani di una tale genia di idioti (E. Carpenter: 1946, 25).
 
La donna nuova e l'operaio, invece, si assomigliano sotto vari aspetti: ambedue erano stati oppressi a lungo e ora cominciavano a ribellarsi, più forti sotto l'aspetto emotivo che non intellettivo, convinti dell'ideale di un avvenire migliore che ancora non sanno come attuare. Per uscire da una condizione degradante, compresa quella di moglie intesa come proprietà maschile, la donna ha bisogno di disporre di se stessa con la massima libertà e quindi di essere indipendente. Anche il sesso, di conseguenza, che nell'uomo è passione disordinata e impeto individuale, mentre nella donna è un "istinto costruttivo", cambierebbe. Alla donna nuova è affidato questo compito innovativo, alla
 
donna moderna, con i suoi clubs, le sue discussioni, la sua politica, la sua libertà di azione, e di costume... le donne moderniste appartengono in gran parte o alla classe di quelle in cui l'istinto materno è poco forte o alla classe di quelle in cui l'istinto sessuale non è preponderante. Esse dunque non rappresentano completamente il loro sesso. Alcune hanno un temperamento piuttosto maschile, altre sono omogeniche, cioè propense ad affezionarsi al loro sesso e non al sesso opposto; altre sono ultrarazionaliste e pure intellettualiste; per molte i figli sono più o meno una noia; per altre infine, la passione sessuale dell'uomo costituisce una semplice impertinenza che non comprendono affatto e di cui non possono quindi determinare la funzione e l'importanza. Forse l'accusa più grave che si possa muovere loro è questa della deficienza dell'istinto materno; ma poi, dopo tutto, cosa sappiamo noi di quello che l'evoluzione sta preparando? (E. Carpenter: 1946, 55).

Infine, nel capitolo intitolato Il sesso intermedio Carpenter traccia un quadro dei mutamenti dei rapporti reciproci fra uomo e donna, sottolineando che il cambiamento si era verificato in seguito all'apparire della "donna nuova". L'uguaglianza aveva in un certo senso mascolinizzato la donna e inversamente reso più sensibile l'uomo. Le donne nel matrimonio cominciavano a pretendere che esso fosse anche amicizia e non solo passione. Carpenter cita lo scrittore austriaco K. H. Ulrichs che aveva dimostrato come vi fossero degli esseri i quali pur appartenendo a un sesso fisicamente, facevano parte in realtà del sesso opposto mentalmente ed emotivamente, o donne cui si adattava la definizione inversa; l'individuo maschile quindi, invece di unirsi per amore con una femmina tendeva a contrarre una amicizia romantica con una persona del suo stesso sesso, mentre l'individuo apparentemente femminile, invece di maritarsi more solito, dedicava la sua vita all'amore di un'altra donna. Ulrichs definì queste creature "urningi" o "uranii" e Carpenter le considerava il primo tentativo dei tempi moderni di stabilire l'esistenza di quello che potrebbe chiamarsi "il sesso intermedio", dandone una spiegazione. Tali esseri, la cui esistenza non era mai riconosciuta, ricorrevano nella società in numero tutt'altro che esiguo, perché se si aggiungevano coloro che oltre agli affetti consueti sperimentavano "tendenze omogeniche" diventavano una legione; erano però difficili da scoprire perché sentendosi incompresi tendevano a nascondere i loro veri sentimenti e anzi agivano deliberatamente in modo da ingannare "il mondo". Per Carpenter era evidente comunque come uomini e donne non fossero affatto degenerati e per giunta non fosse obbligatorio il tratto distintivo dell'effeminatezza negli uomini e, nelle donne, quello di abitudini maschili marcate13.
La guerra, con la sua inevitabile carica palingenetica e le grandi trasformazioni sociali ed economiche sanzionerà in modo irreversibile il consolidamento di quella "donna nuova" che neanche il conservatorismo fascista riuscì a modificare. Negli anni trenta, la rivista Progresso Religioso, alla quale collaborava Isabella, promuove una inchiesta fra i giovani, utile per capire i mutamenti avvenuti nelle nuove generazioni rispetto ai primi del Novecento. Può darsi che Isabella avesse ispirato dall'interno della rivista la novità di un'inchiesta per approfondire i cambiamenti nei ruoli sessuali e sociali fra quei giovani che rappresentavano la seconda e anche la terza generazione rispetto alle emancipazioniste di fine Ottocento. L'iniziativa nasceva dalla considerazione che si era nel mezzo di una crisi di gravi proporzioni, che si rifletteva in tutte le attività umane. I giovani, rispondendo nell'inchiesta in base a ciò che sentivano più che a quello che pensavano, potevano suggerire a chi vagliava le risposte su quali principi etici (così si esprimevano gli ideatori) si sarebbe secondo loro fondata la società futura. In questa prospettiva di lavoro il dottor Assaggioli iniziò alla sede del Liceum la stesura di un ricco formulario. Mario Puglisi, fondatore della rivista14, convocò nel suo studio a varie riprese giovani d'ambo i sessi dai 18 ai 21 anni, quasi tutti studenti e appartenenti alla media borghesia. Le risposte al questionario rappresentavano, secondo gli intervistatori, un discreto indice dello stato di coscienza della condizione giovanile. Le domande salienti erano:
I Avete scelto un indirizzo nella vita e quale?
II Siete mossi da esigenze religiose e morali o puramente pratiche?
Le risposte femminili sono in effetti molto indicative in riferimento proprio alla "donna nuova", tanto più considerando l'epoca in cui era stata condotta l'inchiesta, quando il consenso al regime sembrava fenomeno di massa, anche se si deve tenere conto che l'ambiente che si raccoglieva attorno alla rivista era eterodosso rispetto al clima politico e agli indirizzi governativi.
Alcune affermano di seguire nella vita le consuetudini, ma eliminando tutto quanto ritengono solo "convenzionale"; nelle letture preferite includono il trasgressivo Pitigrilli e in genere non rifiutano nessun libro perché vogliono conoscere bene la vita per affrontarla e anche per reazione "alla letteratura scioccamente sentimentale dei padri".
La donna andava messa in condizione di vivere da sé‚ in modo autonomo, senza dover dipendere dagli uomini: quindi la sua educazione doveva essere tesa a darle tutti i mezzi per partecipare assieme agli uomini alla vita sociale, ivi compresa la gestione degli affari pubblici. Del resto - si aggiunge significativamente - la funzione educativa della madre viene ogni giorno più limitata perché ad allevare i figli ci pensa lo stato.
Quest'ultima era sembrata una risposta particolarmente significativa non tanto per il riferimento alla ben nota opera di tutela della maternità e della razza perseguita dal fascismo, ma perché svela un aspetto dell'immaginario femminile riguardo a questo tema. Sicuramente ciò non era nelle intenzioni del regime, ma il carico previdenziale e statale di una politica della maternità può aver avuto effetti liberatori nella mentalità di molte donne della piccola e media borghesia, le quali cominciano a pensarsi potenzialmente in grado di fare anche qualcos'altro, oltre ad espletare i puri e semplici compiti riproduttivi.
Infatti una intervistata afferma che negli anni trenta la donna si trovava sospesa tra l'educazione del passato, inadeguata ai tempi, e quella moderna che non appagava, anzi faceva nascere inquietudini e malcontento. L'intervento della donna nella politica era visto da molti come positivo, appunto perché aveva a disposizione delle qualità peculiari diverse da quelle degli uomini e che si potevano mettere a frutto, come la praticità, l'ordine, l'avvedutezza. Altrettanto significativamente era una non studentessa a ribadire che l'unico ideale della donna restava la famiglia, a meno che essa non avesse delle spiccate facoltà mascoline, per ingegno e temperamento.
Per altre, una cultura della donna giova certamente anche alla casa, ma deve essere rivolta solo all'educazione dei figli. Le risposte maschili oscillano tra il misticismo di chi rifiuta la famiglia perché è Dio che riempie tutta la vita e il mito del superuomo che aspira a dominare le sue forze istintive, ma soprattutto gli altri.
Il commento finale all'inchiesta rileva in effetti quanto spirito di combattività sociale si fosse sviluppato nella donna, rifiutando la missione casalinga a cui la si voleva destinata in eterno. E costituisce anche una conferma del lungo cammino percorso da più generazioni di donne "nuove", cui fa da contrappunto un certo immobilismo maschile. Gli uomini sembrano aver accettato ormai la modernità della condizione femminile, percepita peraltro in un'epoca che certo non ha brillato nell'aprire spazi inconsueti alle donne, quale quella fascista. La polemica non è quindi rivolta alle anomalie di quelle donne troppo virili che lavorano o studiano. Ma conservano egualmente un tono passatista nel rivendicare antichi privilegi:
 
Di fronte al suo assalto, i giovani in genere si ritirano sulle posizioni antiche poiché per difendere i privilegi sfoderano quei medesimi argomenti di cui si valevano i loro avi. Ma la donna d'oggi che va all'università e sta prendendo un posto negli uffici è insofferente di indugi e divieti e tiene a dimostrare che ha consapevolezza dei problemi della vita associata e virtù atte ad affrontarli, il che potrà dispiacere al futuro marito e ad averne uno non sembra che le giovani d'oggi tengano molto, ma non pare ormai sia un destino facilmente evitabile (Progresso Religioso: 1932, 160-5).
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