
-
- L'occasione
-
- I
-
-
- Cosa potevo fare? Ero veramente disperato,
l'indomani mattina m'avrebbero sfrattato senza
tanti complimenti, buttato fuori a calci, se
necessario, il Direttore me l'aveva detto: "Pepe,
lei ha ormai pagato il suo debito alla
società, e oggi è un uomo nuovo,
è venuto il momento di dimostrare a tutti,
là fuori, chi è veramente".
- Avevo provato a protestare: "Nuovo a
sessant'anni? Ma cosa vuole che dimostri alla mia
età e nelle mie condizioni? Se non mi
sbronzo ogni sera non sono più io, fuori non
ho né amici né parenti, la mia
famiglia l'ho già sterminata vent'anni fa e
nessuno mi farà lavorare: cosa vado a fare
là fuori? La mia famiglia è qui, non
potete abbandonarmi anche voi".
- Parole inutili, non rimaneva che godermi
l'ultima sbronza in santa pace e l'ultima notte "in
famiglia"!
- La mattina dopo, come al solito, la prima
immagine aprendo gli occhi - dopo una notte di
sonno agitato nel mio caro lettino sgangherato che
dovevo lasciare, fedele compagno di mille incubi -
fu il poster della ragazza nuda che avevo incollato
al soffitto, per assicurarmi sempre un dolce
risveglio! Del resto, la mia condizione di detenuto
di lungo corso non mi permetteva una vita sessuale
normale, fatta di carne ed ossa, e allora dovevo
per forza darmi al sesso di carta,
"all'iconografia", come dice Pasquale, il secondino
che mi passa sottobanco le riviste pornografiche.
Ne possiedo una vasta raccolta che custodisco in
una grossa scatola di cartone dentro l'armadietto.
Sono le mie uniche letture, i miei soli momenti
d'impegno "culturale", per il resto la mia giornata
è fatta di ozio e piccole risse fra
detenuti, in attesa della prossima ora d'aria e di
"socializzazione" che trascorro con i miei
colleghi, tutta gente "scelta", scelta dalla vita a
soffrire l'inferno da viva! Nelle celle vicine alla
mia ci sono gli amici più cari: c'è
Vladimir, giovanissimo albanese calvo, esperto in
rapine ai furgoni portavalori con l'aggravante di
aver sparato e ucciso una guardia; c'è Salvo
"King", pescatore cinquantenne e stupratore
incallito, a suo dire "incompreso divulgatore
d'amore!"; c'è anche Romuletto, un amico
d'infanzia che ho ritrovato qui dopo trent'anni e
che non vedevo da quando frequentavamo insieme le
"Crispi", le Scuole Medie del paesino di Cava
Marina, sulla costa marchigiana, nostra terra
d'origine. Io sono nato dalla povera mamma Ninetta
e da padre "occasionale", e cresciuto con una
vecchia zia isterica, senza affetto e senza una
lira. Una vita difficile, molto simile a quella di
Romuletto, senza un padre e con la madre che si
guadagnava da vivere nel modo più antico,
"accudito" anche lui da altri, dalla nonna
semiparalitica, e presto costretto a darsi da fare
con piccoli furti ancor prima d'aver terminato la
scuola dell'obbligo: è sempre in carcere, la
galera è la sua vita e il suo mestiere,
ormai fa la spola fra la cella e la sua residenza
"civile", una baracca in legno col tetto di latta
lungo il Tevere. E c'è soprattutto
Sasà, nella cella di fronte alla mia,
l'unico vero amico, quello con cui trascorro
più tempo, che ho conosciuto qui e con cui
ho legato subito per "affinità elettive",
dato che, come me, è un appassionato
consumatore di alcool in quantità
industriale, prodotto gentilmente fornitoci da suo
cognato Gigi tramite il prezzolato Felice, il
secondino più corruttibile, grande
estimatore del vitigno; ma Sasà è un
buono, purtroppo non rimarrebbe qui a lungo, ha
solo gravemente storpiato un maestro elementare che
aveva osato dare uno schiaffone a Valentino, ultimo
dei suoi nove figlioletti. E infine, proprio
all'alba del mio ultimo giorno da carcerato,
è arrivato, ospite del nostro premiato
"ricovero per dannati", un ex barbone che
ultimamente aveva fatto il salto di qualità,
collezionando organi genitali femminili in giro per
i parchi della regione: sarebbe certamente stato
interessante parlare con lui!
- Dopo aver affidato le mie preziose riviste a
Vladimir, che non avrebbero "dimesso" tanto presto,
alle sette della sera ero già fuori, al
colmo della nostalgia per gli amici appena
salutati. Era una stupida serata d'inverno, gelida,
buia e ventosa, e cominciava a cadere una
pioggerellina lieve e fitta fitta che
m'incupì ancor più. Naturalmente, non
venne nessuno a prendermi all'uscita dal carcere,
del resto non avevo nessuno! Il mio unico parente
di sangue è lo zio Lele, se ancora è
in vita, fratello minore di mio padre e omosessuale
travestito che vidi per l'ultima volta poco prima
che entrassi in carcere, cioè di far fuori
mia moglie e i miei suoceri nel sonno: anche se
oggi lo zio Lele si fosse presentato, non l'avrei
riconosciuto per vari motivi!
- M'incamminai col mio fagotto di stracci
lungo il viale che dal carcere porta in
città, non sapendo esattamente dove andare.
Di tanto in tanto mi voltavo indietro a guardare le
finestrelle del penitenziario, tutte accese. Pareva
che mi salutassero, in segno di addio ad un figlio
ormai perduto. Per fortuna, all'uscita, il vecchio
Sasà m'aveva dato un po' dei suoi soldi per
affrontare i primi tempi, i più difficili, e
così decisi di non soffrire subito e di
recarmi alla prima osteria per una memorabile
sbornia, proprio per attutire lo choc da
cambiamento. Durante il tragitto incontrai una
buona rappresentanza della locale vita notturna:
prostitute, protettori, clienti e barboni, tutti
lì, in periferia, emarginati e già
condannati.
- Vagando a zonzo per una città che non
riconoscevo più, m'intrufolai in una delle
stradine buie del porto, dove avevo notato una
piccola insegna luminosa. Una volta tanto ero stato
fortunato, un cartello appeso alla porta recitava
"Osteria da Pippo - aperto". Entrai senza bussare,
c'erano poche persone ai tavoli ma nessuno mi
notò. Sedetti in uno libero e ordinai subito
un bicchiere pieno di rosso all'oste corpulento,
probabilmente il "Pippo" del cartello. Questi mi
chiese "quale rosso" ma io risposi alzando le
spalle e scuotendo la testa, come per dire che non
intendevo fare lo schizzinoso e che avevo
intenzione di "valutare" tutto il campionario della
Casa! Dopo un paio d'ore di tali valutazioni,
cominciarono i brindisi solitari alla mia nuova
vita, augurandomi "ad maiora" a voce sempre
più alta e cantilenante. Dopo un po',
dall'ultimo tavolino in fondo al locale sentii
urlare:
- "Ehilà, amico, io sono Gino, e vorrei
tanto essere contento come te. Che diavolo
festeggi? La Prima Comunione o lo sbarco degli
Alleati? Senti, vengo lì, così
parliamo meglio" disse la voce, forte e
strascicata.
- Gino s'avvicinò al mio tavolo
barcollando e lasciandosi poi cadere sulla sedia a
peso morto. Ricordo la sua giovane età, non
più di trentacinque anni, due lenti spesse
che però non nascondevano gli occhi lucidi,
ed un linguaggio ricco ed articolato, inusuale in
un disperato mendicante, per di più
sbronzo.
- In due o tre bevute d'affiatamento eravamo
già amici, ma senza scambiare alcuna parola
tranne "prosit!" o "alla nostra!", e fu un'amicizia
che durò solo poche ore d'una notte, in una
lucidità gravemente compromessa dall'alcool.
La pioggia batteva ormai forte sull'unica
finestrella chiusa del locale, i tavolini erano
umidi e rossastri, e l'aria era quasi palpabile in
una rivoltante mistura di fiati, olio fritto e fumo
stagnante.
-
-
-
-
-
-
- II
-
-
- Il mio nuovo amico non era un
professionista, reggeva poco l'alcool. Infatti,
dopo appena mezz'ora dal nostro incontro, capii che
era arrivato al "capolinea":
- "Signor lei, - cominciò
all'improvviso, tralasciando la parte finale di
ogni parola e dondolando la testa a destra e
sinistra su cui erano appiccicati dei capelli che,
un tempo, dovevano essere stati rossi - io non so
come lei si chiami di nome ma a me mi chiamano "il
Pazzo", chissà per quale motivo,
bòh!, però lei mi sembra saggio e io
la chiamerò "il Saggio"" e tracannò
in un sol attimo mezzo bicchierone di Chianti. Poi
continuò:
- "E allora, signor Saggio, mi dica, come ci
si sente ad esser saggi, a sapere sempre tutto, ad
essere salutati e riveriti dagli altri, ad essere
in grado di prevedere gli effetti di un'azione e
soprattutto a saper controllare le proprie in ogni
circostanza?".
- "Beh, signore, io non..." cercai di
replicare dopo qualche secondo, stordito dalla
stranezza di quella domanda e dallo sforzo di
concentrazione cui ero stato sottoposto senza
preavviso.
- "Signor Pazzo, mi chiami signor Pazzo, e io
signor Saggio, così..." mi interruppe,
facendomi perdere la sudata concentrazione, che
riacquistai bevendoci sopra.
- Ripresi lento: "Sì, signor Pazzo,
dicevo che non lo so, ma forse sono saggio
perché do una parola di conforto a tutti,
cioè a tutti quelli che ne hanno bisogno. E
ci si sente meglio" - dissi improvvisando, provando
disperatamente a calarmi nella parte impostami,
visto che non avevo la forza di reagire per
chiedere spiegazioni.
- "E come fa, signor Saggio, a capire quando
costoro ne hanno realmente bisogno?" incalzò
il matto, ubriaco all'inverosimile.
- "Signor Pazzo, probabilmente in quanto sono
veramente saggio. Lei non può capire gli
altri perché ella è certamente pazzo,
questo sarà stato accertato dai dottori, che
hanno studiato e dunque sono normali" dissi dopo un
minuto e tre bicchieri, ormai intontito e quasi
convinto d'esser saggio sul serio.
- "Certo che lei è proprio saggio,
signor Saggio - m'adulò il pazzo - io
infatti, che sono un vero pazzo, non riesco mai a
capire gli altri. Per me gli altri sono quasi tutti
matti, cioè dei falsi pazzi!"
proseguì, lui sì profondamente
convinto della propria pazzia.
- "Quasi tutti, signor Pazzo?" chiesi, col
mento sul tavolino.
- "Quasi tutti meno due, signor Saggio"
rispose il collega ad occhi chiusi.
- Poi, aprendone uno, continuò:
"Proprio così, signor Saggio, meno due: uno
sono ovviamente io, e l'altro è la mia pazza
immagine allo specchio".
- Il discorso cominciava a farsi pesante,
bisognava assolutamente berci sopra.
- "Pazza immagine allo specchio?" ripetei
stralunato, tanto per fargli credere che lo
seguivo.
- "Sissignore, pazza immagine allo specchio"
riconfermò il Pazzo, sbarrando gli occhi
come un pazzo.
- E infervorandosi, forse per svegliarmi da un
torpore ormai evidente anche ad un pazzo: "Lei
però mi sorprende, signor Saggio: che saggio
è se non capisce che, essendo io pazzo,
è ovviamente pazza anche la mia immagine
allo specchio? Non mi faccia fare sciocchi
ragionamenti da saggio, signor Saggio, e non faccia
lei il pazzo. Non sarebbe un vero pazzo!".
- Mi ridestai in parte, aprii gli occhi,
rialzai la testa e per questo brindammo. Notando
infine che il mio torpore stava passando a lui,
ricambiai il favore d'avermi svegliato impegnandolo
con una considerazione che lo riguardava e che
forse lo avrebbe stimolato:
- "Allora, stia bene a sentire, signor Pazzo.
Lei ha ragione, è pazzo, ma purtroppo non
completamente. Vede, non vorrei contraddirla, ma
io, che forse sono saggio, ho capito che la sua
immagine allo specchio sono io: la sua pazzia,
apparente nella realtà, in verità
riflette la sua reale saggezza. Quella saggezza che
poi lei vede in me, ma che è la
sua".
- Ottenni lo scopo prefissatomi e la sua
attenzione, ma persi l'amico. Infatti, serio in
volto, ribatté con mia grande
sorpresa:
- "Signor Saggio, io sono per tutti "il
Pazzo", non sarà certo lei a dirmi chi sono,
tantomeno che non sono pazzo. Se non lo fossi,
dovrei continuare a fare i miei esperimenti di
Fisica e non potrei più cercare Teresa, che
se n'è andata tre anni fa... ora, scusi
tanto, non posso correre questo rischio, la mia
Teresa forse è in pericolo, ha bisogno di
me, che io la cerchi..." e tirò fuori,
lentamente, da uno sacchetti di plastica che aveva
con sé, un grosso coltello a serramanico che
fece scattare sotto il tavolino.
- Intuii la mia grande occasione, sferrai un
calcio alla mano che teneva il coltello, mi
impossessai della grossa arma e gliela piantai al
cuore, passandolo da parte a parte.
- Si tornava a casa.
-
|