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Mario Canò
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Mario Canò, Un'amicizia probabile - Un amore impossibile
 

Collana I salici (narrativa) 15x21 - pp. 176 - L. 26.000 - Euro 13,43 ISBN 88-8356-189-9

Prefazione
Capitolo I

Prefazione
Un uomo normale, uno psicologo coscienzioso che divide la sua vita tra lo studio con i pazienti, qualche visita agli amici e ogni tanto si concede un week-end nel suo cottage, conosce improvvisamente Clara ad un corso di storia dell'arte. Clara è una donna come tante altre e senza esitazione inizia a frequentarla sempre più assiduamente fino ad arrivare ad innamorarsi di lei. Solo qualche tempo dopo, ormai troppo tardi, scoprirà che questa donna è molto più scaltra di quello che credeva, quasi una fredda calcolatrice che non conosce assolutamente il significato della parola amore e come una mantide religiosa usa gli uomini, li fa impazzire d'amore e poi li getta via come fossero oggetti ormai consunti e non più meritevoli di attenzione né utilizzabili per ulteriori scopi.
La storia d'amore negato di questo romanzo di Mariano Canò si dipana con ulteriori vicende di vita quotidiana, dialoghi tra gli amanti impossibili ed estenuanti tentativi di relazionarsi in modo sincero. Tutto ciò non è sufficiente e Patrizio che è uno psicologo non si dà pace e cerca di capire, di entrare nella personalità e nel cuore di Clara per disvelare il mistero che sembra avvolgerla, per abbattere il muro di indifferenza che lo separa da questa donna che sembra giocare con lui come il gatto con il topo.
La figura di Clara è delineata con toni soffusi, quasi evanescenti e ciò la rende ancora più enigmatica ed ambigua. Si palesa come la più forte, si impadronisce dei pensieri dell'uomo che la desidera, esercita un influsso nocivo sulla vita, interrompe le occupazioni più importanti, mette perfino in imbarazzo, sa introdursi nella sua vita, spezza i vincoli appena si creano, fa sacrificare la salute o la vita, riduce senza coscienza chi era onesto: appare insomma come un demonio che si è impegnato ad abbattere, distruggere, rovesciare tutto.
In questo romanzo Mariano Canò offre una rappresentazione di un rapporto difficile tra un uomo ed una donna e con innegabile volontà cerca di fare chiarezza e mettere a fuoco i conflitti relazionali derivanti dalla incomunicabilità, le insondabili conseguenze negative di un amore alimentato e non corrisposto, frustrante ed abbandonato dopo aver dato seguito a speranze ed illusioni mal riposte.
L'inquietudine sfocerà in un desiderio di annullamento e distruzione per l'incapacità o l'impossibilità di conquistare un amore che invece sfugge sempre più dalle mani. Un senso di delusione e di amarezza pervaderà la vicenda umana e la agognata storia d'amore non regalerà mai la gioia e la felicità ad un uomo che si troverà solo più che mai davanti al baratro della vita.
Questa sottile e perfida illusione d'amore servirà a questa donna disinteressata, disincantata ed indifferente solo per non sacrificare niente di sé, non offrire mai una sincera apertura al suo cuore: l'amore allora rimarrà una semplice chimera che rapidamente sparirà.
L'amara conclusione è che non ci troviamo di fronte ad una storia d'amore ma ad un demoniaco divoramento che caratterizza gli amori oscuri e morbosi, tormentati e mai consumati, dispersi in torbidi pensieri distruttivi. Un amore platonico che si perde in una mistica corsa verso l'altro divenendo impalpabile: una sorta di vagheggiamento perpetuo.
L'Autore traccia questa visione tra le righe e la segue costantemente con una scrittura semplice, libera da orpelli e ricerche stilistiche, alimentandola con un minimalismo narrativo negli accadimenti quasi fosse un diario un po' troppo intimo e personale, de-strutturato dal contesto esistenziale molto più complesso. La realtà dei protagonisti è piena di insicurezze ed aspettative dove si può trovare tutto e niente e dove basta poco per perdersi nel labirinto della vita nel tentativo di cercare risposte: una scommessa che deve necessariamente essere azzardata.
 
Massimo Barile
Capitolo 1
 
L'uomo chiuse la porta dietro di sé e si recò versa la cristalliera. La aprì, estrasse una bottiglia di whiskey e la appoggiò sul tavolo, poi si recò in cucina, prese un bicchiere, aprì il frigo e prese dal congelatore il contenitore con i cubetti di ghiaccio. Ne prese due e li versò nel bicchiere, quindi rimise a posto il contenitore con i cubi di ghiaccio nel congelatore e richiuse il frigo. Fatto questo, si diresse di nuovo verso il tavolo dove aveva appoggiato la bottiglia, la prese e si recò nello studio. Lì spense la luce dietro di sé e, rimanendo nella penombra, si accasciò sulla sedia dietro alla sua scrivania. Prese la bottiglia di whiskey, l'aprì e versò il contenuto nel bicchiere. Sorseggiandolo, alzò la testa al soffitto come se guardasse nel vuoto. Si sentiva molto depresso, con un gesto meccanico aprì il suo computer portatile, lo accese, e quando apparirono le funzioni, si diresse tramite il mouse sulle Windows. Quando le aprì, si recò sul word processing. Si guardò intorno come se ci fosse qualcuno a spiarlo e incominciò a scrivere Resumé, dei dodici mesi passati. Lì, ebbe una pausa di riflessione quasi a riordinare le idee e ricominciando a battere sulla tastiera digitò: Si può morire d'amore? Certamente, sebbene è una morte lenta che non lascia il corpo inerte, dato che si continua a vivere ma solo con il corpo perché la mente è totalmente assente, tutta rivolta al pensiero di colei che ne ha distrutto le più belle sensazioni quali sono l'amore, l'affetto e tutte quelle emozioni che fanno sentire vivo un essere umano.
Fece una pausa, per vedere se si sentivano rumori al di fuori della porta quindi tirando un sospiro continuò a scrivere.
Chi sono io? Mi voglio presentare, sono un uomo di mezza età, con una buona posizione nella società. Sono uno psicologo, con il mio studio e un bell'appartamento nella zona residenziale. Una bella macchina e anche un cottage in montagna dove passo la maggior parte dei fine settimana. L'unica cosa che mi è sempre mancata, è stata una persona che mi abbia dato dell'affetto, per vari motivi sia familiari che caratteriali, e le poche persone che ho incontrato erano più interessate alla mia posizione e a quello che ho, piuttosto che alla persona che sono. Quindi, posso dire che l'unica che mi è stata sempre vicina è la solitudine che è, a mio dire, una donna taciturna che ti segue ovunque, che non chiede niente ma che ti opprime, che ti fa sentir male e a volte è impossibile farne a meno. E devo dire che questo invisibile connubio dura da un bel po'.
Ma proprio dodici mesi fa, mi feci coraggio e decisi che era venuto il momento di tentare di separarmi da questa signorina invisibile, così m'iscrissi a un corso di critico d'arte. Uno di quei corsi serali dove t'insegnano a comprendere le opere d'arte, corso che intrapresi con molto entusiasmo dato che le opere d'arte sono sempre state il mio pallino e interpretarle significa anche apprezzarle. Il corso era di quattro ore a settimana, suddivise in due ore al giorno, quindi non interferiva con il mio lavoro. Al mio primo giorno di lezione c'erano non più di venti persone tra i venticinque e i trentacinque anni. Mi sentivo a mio agio vedendo che c'erano persone che si avvicinavano molto alla mia età. Il professore, quella sera, parlò della differenza tra il "Rucellai Madonna di Duccio e quello pitturato da Giotto" che trovai molto interessante. Dava spiegazioni sulle tecniche di pittura che i due artisti avevano usato e questo mandò in estasi la classe, infatti non si sentiva un solo rumore. Quando la lezione finì, tutti noi facemmo un applauso al professore che aveva condotto la lezione in maniera superba. Prima di lasciarci, il professore ci consegnò dei questionari da riempire sui pittori del Medioevo. Mentre uscivamo, ognuno diceva all'altro come il professore era stato bravo a mantenere alta la nostra attenzione. Mi stavo allontanando dal gruppo quando fui avvicinato da una ragazza di quasi trent'anni dai capelli bruni, dagli occhi celesti e alta su per giù un metro e ottanta. Devo confessare che era molto bella. "Allora ti è piaciuta la lezione?" mi domandò.
"Certamente", le risposi.
E lei, continuando: "Questi questionari li trovo un po' difficili da comprendere e tu?".
"Mah, che ti devo dire, io non li trovo affatto difficili. Anzi, sembrano molto facili da comprendere".
Lei annuì. Eravamo arrivati davanti alla mia macchina quando, giusto per cortesia, le chiesi se voleva un passaggio. Lei acconsentì senza nemmeno pensarci un attimo. Domandai a me stesso perché le avevo chiesto se voleva un passaggio anche perché si era fatto tardi e il mattino seguente dovevo ricevere in studio molti pazienti. Non potevo improvvisare qualche bugia per farle avere un ripensamento perché ero io che le avevo chiesto se volesse un passaggio. La feci salire e le chiesi "Allora, qual è la direzione che devo prendere?".
Lei disse, alzando la mano destra "Avanti sulla destra, giri a sinistra e prosegua diritto quindi di nuovo a sinistra, e le dirò poi".
Le chiesi per scherzo, se vivesse sulla luna al che lei mi guardò: "Forse, sta pensando che vivo molto lontano". "No", le dissi, ben sapendo di mentire a me stesso.
"Se vuole, può lasciarmi alla prima fermata dell'autobus e ritornarsene a casa".
"No, non c'è problema, e comunque si è fatto molto tardi. È meglio che la porti a casa, a quest'ora le strade non sono poi così sicure".
Lei mi guardò e sorridendo mi chiese: "Perché, con lei sono totalmente al sicuro?".
Le sorrisi scuotendo la testa "Sono uno psicologo, ed è da supporre che non sono un maniaco dato che tento di curarli".
Lei mi sorrise di nuovo: "Sarà, ma io penso che il mostro è in tutti noi. C'è chi lo sa ingabbiare per bene in se stesso e chi no".
"Questo è vero ma le garantisco che sono una persona normale". Ci fu una pausa tra di noi "Però, lei non mi ha ancora detto il suo nome".
"Che sbadata che sono, comunque il mio nome è Clara e il suo?".
"Patrizio", risposi.
Lei scherzando "Romano?".
Trovai la battuta quasi deficiente. Feci un sorrisino tanto per gradire e risposi "No, perché la mia famiglia viene dal nord".
Lei scosse la testa e poi puntando il dito "Ecco, sono arrivata se vuole può salire che le offro un caffè!".
La ringraziai, ma le dissi che non potevo poiché la mattina seguente avrei dovuto lavorare molto. Aprì la portiera, mi ringraziò del passaggio e avvicinandosi dalla parte della macchina dove c'era la guida mi disse: "Va be' allora, ci vediamo alla prossima lezione".
La salutai e ripartii verso la mia abitazione. Arrivato a casa, pensavo a quello che lei mi aveva detto circa i questionari e conclusi che, tutto sommato, lei non doveva essere molto intelligente. Anzi, mi domandavo come e perché si fosse iscritta a questo corso. "Bah", pensai, "in fin dei conti non sono affari miei". Spensi la luce del soggiorno, entrai in camera da letto e mi coricai prendendo subito sonno. La mattina dopo, come al solito, feci una rapida colazione e aprii lo studio verso le nove. La mia assistente infermiera, arrivò cinque minuti più tardi e, come ogni giorno, mi diede la lista dei pazienti che dovevano essere ricevuti. Il mio primo paziente era un direttore di informatica che aveva visioni durante la notte. Egli diceva che vedeva caratteri alfa numerici. Era evidente che il suo lavoro gli aveva preso la mano, lo aveva stressato. Terapia consigliata: un periodo lontano dai computer. La seconda paziente era affetta da epilessia e quindi l'unica cosa che le potevo consigliare era di prendere dei farmaci per calmarle gli attacchi e di consultare un medico specializzato per farsi operare anche se lei aveva paura. La mattinata finì, e con essa anche le visite, così potei pranzare. Generalmente mi recavo al solito ristorante che era situato di fronte al palazzo del mio studio. La cameriera si chiamava Emma e mi faceva sempre sedere a un tavolo vicino alla finestra, perché mi piaceva guardare la gente muoversi, lavorare, in poche parole, mi piaceva vedere come scorreva la vita quotidiana. Ordinai il pranzo che comprendeva un'insalata con mozzarella, fettuccine al pomodoro e uno zabaione come dessert. La cameriera si presentò con quanto ordinato e come al solito sorridendo mi disse: "Allora, quanti matti da legare abbiamo curato stamattina?".
Mi faceva sorridere il modo in cui lo diceva, sembrava aspettasse che le rispondessi che il mondo da oggi poteva essere migliore dato che li avevo curati tutti ma, mi limitavo a dire che benché ne avessi curati alcuni, ce n'erano sempre di più in giro. Forse tra di loro, c'ero pure io, sofferente com'ero di solitudine, una malattia per la quale non serve prendere alcuna medicina eccetto il trovare una persona che ti dia un po' di affetto sincero. Erano pensieri, che con l'andar del tempo erano diventati sempre più di second'ordine, perché ormai pensavo tra me e me che comunque tutto è predestinato. Come se tutto quello che ci accade è già scritto in un libro che poi è il libro della nostra vita. Finii di consumare il mio pranzo e ritornai in studio. Lì dovevo sistemare alcune cose e aggiornare le diagnosi di alcuni pazienti sul mio computer. Quando ebbi finito si erano già fatte le nove di sera. Chiusi lo studio e passai nella camera da pranzo dato che vivevo dove avevo lo studio.
Andai in cucina e, dopo una giornata così faticosa, ero molto stanco, aprii un contenitore di mozzarelle, presi una bottiglia di vino, mi recai in salotto e accesi la televisione. La guardavo distrattamente e come in un flash back mi rivenne in mente quello che mi aveva detto Clara riguardo al mostro che è in tutti noi. E pensavo che, tutto sommato, aveva ragione, anche se, sembrava un po' drastica nelle sue conclusioni. In ogni modo, non conoscendola, era inutile trarre delle conclusioni circa il suo carattere, anche se, osservando i suoi occhi sembrava che fosse arrabbiata con qualcuno. Ritornai a concentrarmi sulla televisione, avevo bevuto di buon gusto il vino che, sommato alla stanchezza, mi fece addormentare immediatamente. La mattina dopo iniziava un'altra giornata allo studio con altri pazienti affetti psicologicamente. Ero già al terzo paziente quando venni raggiunto da una telefonata. Dissi alla mia assistente infermiera di prendere la telefonata. Ma, dopo due minuti, lei entrò dicendo che era molto importante perché sembrava che la persona al telefono fosse sull'orlo di un collasso nervoso. Invitai l'infermiera a far aspettare il paziente successivo perché dovevo cercare di far ragionare questa paziente telefonicamente. Mi rispose affermativamente e io risposi al telefono.
"Allora signora, che c'è che non va ?"
Dall'altra parte, una voce che suonava familiare urlò: "Aiuto, dottore sono sulla soglia di una nevrosi".
"Si calmi signora, mi dica che cosa è che le porta questa nevrosi".
"Be' vede, non vorrei dirlo!".
"Mi dica, sono qui per aiutarla. Se non mi dice che cosa c'è, non le posso dire cosa potrebbe fare per alleviarla".
"Vede dottore, è che ho dei problemi con i test dei pittori!".
Mi portai le mani al viso: "Ah, capisco, le devo dire che è una buona ragione per telefonare a uno psicologo. Vediamo, forse potrei dire che la conosco".
Dall'altra parte del telefono: "Ciaooo, sono Clara, scusa se ti ho creato tutto questo trambusto, ma sono veramente disperata per i test".
"Clara, ma ti sembra il modo di farti ricevere? Ora sono occupato, poi vedremo". Risposi seccato.
Lei però mi interruppe dicendo: "Scusa davvero, pensavo di farti un piacere. Va be', ci vediamo".
Ci fu una pausa, forse aspettava che mi scusassi e constatando che non rispondevo lei continuò: "Guarda che attacco, però se mi vuoi aiutare, io ci metto una bottiglia di vino buono che produce mio nonno".
Mi calmai, e sorridendo risposi: "Ok, puoi venire a casa mia ma se non ti presenti col vino sono dolori. Tu, l'indirizzo ce l'hai, quindi mi puoi raggiungere verso le cinque di questo pomeriggio ma non prima, perché devo finire di ricevere i miei pazienti".
"Va bene, adesso è meglio che chiuda, ti ho già creato un mare di problemi e mi raccomando, non diventare pazzo anche tu, se no stiamo freschi".
"No, non ti preoccupare, ciao, ci vediamo dopo" le risposi e riattaccai. Finite le visite, mandai a casa la mia assistente, aggiornai lo schedario dei miei pazienti e finalmente mi recai nella sala da pranzo dove sprofondai sulla poltrona rilassandomi. Pensavo in quel momento che se lei non si fosse presentata, sarebbe stata una cosa buona perché mi sentivo abbastanza stanco e non avevo nessuna voglia di vedere gente. Tantomeno una persona che non conoscevo abbastanza. Mi ero concesso un pisolino, erano quasi le cinque quando il suono del citofono mi fece svegliare di soprassalto. Ancora mezzo intontito andai al citofono per sapere chi fosse.
La voce era quella di Clara che mi disse: "Ti sei già dimenticato di me?".
"No", risposi e riattaccai. Dopo alcuni secondi, ricevetti un altro squillo al citofono. Era ancora lei "Se non ti sei dimenticato, potresti cortesemente aprire il portone, perché forse non lo sai, ma io non so volare".
Mi scappò una risata quindi pressai con più forza il pulsante del portone e la feci entrare. Quando raggiunse la porta la aprii e lei irrompendo dentro: "Guarda che se ti disturbo posso anche andare via".
Pensai di ribattere con un "magari" ma poi risposi: "No, non ti preoccupare che non disturbi affatto. È che ero un tantino stanco e quando sei arrivata ero un po' intontito".
La feci accomodare in salotto. Lei si guardò intorno: "Bell'appartamento, un tantino arredato male ma carino". Penavo tra me e me pensando: "Ma perché non t'impicci degli affari tuoi?". Al che lei mi guardò e disse: "Lo so, non sono affari miei".
La guardai un po' sorpreso poi ribattei: "Cosa? No, stavo pensando a cose mie personali". Nel mentre per rompere il ghiaccio: "Allora, dov'è questa famosa bottiglia di vino che fa resuscitare i morti?".
Lei aprì un borsone e tirò fuori una bottiglia di vino rosso e un contenitore dove c'era del cibo cotto.
"Questa, l'ha fatta mia nonna stamattina per me. Se vuoi assaggiarla, spero tu non abbia ancora mangiato".
Le feci un cenno di diniego con la testa, allora lei con fare da ragazzina esclamò: "Be', allora cosa aspetti, prendi due piatti che ce la mangiamo. Sai, tutti dicono che mia nonna fa una lasagna incantevole".
La guardai un po' scettico, andai nella cucina, presi due piatti, due bicchieri e due forchette, l'apribottiglie e portai il tutto in salotto. Clara si sedette di fronte a me, io aprii la bottiglia di vino e lei divise la lasagna. Le feci notare che io ne avevo avuta di più ma lei mi disse che non mangiava molto di pomeriggio. Ci sedemmo, poi cominciammo a mangiare e a bere. Fui io che ruppi il silenzio "Devo dire che la tua lasagna è grandiosa".
Clara mi sorrise: "Lo vedi che a volte non sono così indesiderata come credi?".
"Perché credi di essere indesiderata?" Clara si zittì di colpo.
"Scusa è una deformazione professionale quella di psicanalizzare tutti".
Clara fece un sorriso di circostanza poi disse "E il vino?".
"Buonissimo, anzi se i tuoi parenti lo vendono potrei comprare qualche bottiglia?".
"No, non lo vendono".
Scrollai le spalle: "Allora, cominciamo con questi test?".
"Va bene!" disse Clara.
"Primo test" dissi "Perché a Venezia, i quadri erano dipinti su tela?".
Clara mi guardò poi sentenziò: "Boh!".
La guardai, poi scherzando le sbattei il foglio sulla testa: "Perché Venezia era molto umida, di conseguenza se i quadri fossero stati fatti su muro, sarebbero scomparsi o sbiaditi per colpa dell'umidità. Secondo test: Quale stile venne dopo quello Bizantino?".
Clara continuò a fare scena muta ed io le ridiedi un colpetto con il foglio sulla testa dicendole: "Gotico testona". Continuai ridendo "Ma come ti è venuto in mente di iscriverti a questo corso?".
Clara abbassò la testa "Sai, mi sentivo sola e non volevo più passare le serate a guardare la televisione".
La scrutai come se mi sentissi in colpa per quello che le avevo appena detto: "Comunque non ti volevo offendere, stavo solo scherzando". Clara mi guardò e abbassando gli occhi fece"Non ti preoccupare, lo so che ho dei limiti, però cerco di interessarmi a qualcosa".
Le misi una mano sulla testa come si fa a una bambina "Andiamo, finiamo questo test che bisogna andare a scuola. Abbiamo la seconda lezione".
Finimmo i test. Lei rimise a posto nella borsa il contenitore del cibo che aveva portato, mentre io mettevo a posto il tavolo dove avevamo mangiato.
"Sei pronta?" Clara si guardò intorno per vedere se per caso avesse dimenticato qualcosa e annuì. Presi le chiavi di casa e uscimmo. La feci aspettare fuori dal portone mentre prendevo la macchina. Lei salì e partii in direzione della scuola. Mentre guidavo, pensavo che tutto sommato il nostro mondo oggigiorno era popolato da essere umani che prima venivano considerati animali sociali e che ora erano diventati asociali perché tutti, chi più chi meno, si sentivano soli. La mia teoria sul perché oggi tutti siamo antisociali dipende dal fatto che non abbiamo del tempo libero a nostra disposizione, che facciamo tutto in fretta e oltretutto siamo diventati diffidenti nei riguardi di chi ci è intorno. Mentre ero assorto in queste cose, lei mi interruppe dicendo: "Tu pensi troppo, dovresti prendere la vita con più semplicità". Le risposi che, al giorno d'oggi, è difficile per chiunque perché noi stessi abbiamo complicato la nostra vita. Clara fece spallucce e aggiunse "Io cerco di pensare quanto meno è possibile, così non avrò mai mal di testa".
La guardai con l'aria di chi è un po' sorpreso da quello che sentiva dire e liquidai la faccenda dicendo: "Mah, se sei contenta tu della tua vita allora va bene. Ma penso che non è così semplice come dici perché, se pensi il meno possibile, c'è anche il rischio che progredisci il meno possibile. Questo lo dico come concetto personale, certamente potrei sbagliarmi" e un pensiero cattivo mi sovvenne "Questa qua ogni mattina fa a pugni con l'intelligenza".
Nel frattempo eravamo arrivati alla scuola. La feci scendere e poi parcheggiai l'auto. Entrammo in classe e con mia soddisfazione vidi che anche alla seconda lezione c'erano molte persone. Il professore parlava e vedevo che Clara mimava il cappio al collo per suicidarsi. La guardavo ridendo e nello stesso tempo mi passavo le mani in faccia come a dire: "Cose da non credere!". Finita la lezione lei mi si accostò e disse "Un po' pallosa non trovi?".
"No", risposi seccamente "anzi, l'ho trovata molto interessante ma da quel che ho visto non ti è andata a genio la lezione".
"Ma sai, qualche volta queste lezioni rompono".
"Beh, se proprio ti annoi, perché non cambi corso magari ne trovi uno che ti piace, uno che riesca a farti mantenere l'attenzione fino alla fine".
Clara fece una faccia di sufficienza "Perché non cambiamo discorso?".
Acconsentii. Eravamo già arrivati fuori dalla scuola "Vai di fretta?".
"No", risposi. La serata era abbastanza serena e come due scolari ci sedemmo sui gradini che portano all'entrata della scuola. Iniziai a farle delle domande circa la sua vita privata cercando di iniziare a conoscerla al di fuori dell'ambito intellettuale che fino a quel momento mi sembrava assai mediocre. Cominciai a farle domande sul tipo: "Quanti siete in famiglia?" e lei mi rispose che era l'unica. Poi d'un tratto mi disse: "Sai, per un certo periodo della mia vita ho pensato di fare la missionaria da qualche parte nel mondo".
La guardai ridendo ma lei si fece seria "Sto dicendo per davvero. Ma non provi nulla a vedere tutta quella gente che soffre nei paesi del Terzo mondo?".
Le dissi che provavo qualcosa ma anche che provavo disgusto per tutti quei governanti che prendono soldi dalla Banca Mondiale e li trasferiscono in Svizzera per poi andare a vivere da nababbi una volta che, per una ragione o per un'altra, il governo di questo paese cade.
Lei abbassò la testa "Ma io penso che potrei rendermi utile, che potrei far sentire il mio amore a quella gente che soffre. In questo modo possono vedere che non pensiamo solo a noi stessi".
Le risposi che lei non mi convinceva. Passò una buona mezzora fino a che io le dissi "Sta cominciando a fare freddo perché non andiamo a mangiarci una pizza?".
Clara ci pensò un po' e muovendo la testa rispose "Perché no!". Andammo alla macchina, la feci entrare e partimmo. Arrivati davanti a una pizzeria, parcheggiai l'automobile ed entrammo. La cameriera ci chiese se eravamo fumatori o no. Le dissi che era meglio se ci faceva sedere nello spazio riservato ai non fumatori. Prendemmo posto mentre la cameriera ci porgeva i menù. Mentre guardavamo il menù la cameriera ci domandò se volevamo qualcosa da bere. Io ordinai una birra mentre lei preferì una coca cola.
Clara domandò "Che pizza preferisci?".
"Prendo la solita, una mozzarella e funghi e tu?".
"No, per me una ai frutti di mare!".
"Raffinata".
Clara mi fece l'occhiolino poi esclamò: "No, è che sono stata sempre abituata a mangiare i frutti di mare. Sai, mio padre ne va matto". La cameriera ritornò con le bibite: "Avete scelto?".
"Sì", risposi e feci l'ordinazione sia per me che per Clara. Ritornammo ai soliti discorsi: "Allora che ti aspetti dalla vita?" mi disse.
"Mah, tutto sommato, fino adesso sono riuscito a fare tutto quello che volevo. Forse mi è mancato un po' di affetto ma penso che tutti, chi più chi meno, ne soffrano. È la nostra vita di oggi che manca di affetto, di amore".
Lei mi guardò e fece una smorfia "Sembri un po' pessimista, però ti devo dare ragione, quando dici che tutti soffriamo di solitudine. Io penso che sia tutta opera del destino cioè che la nostra vita è tutta scritta come in un libro".
Feci una faccia con un'aria di sufficienza come a dire "Lo penso anch'io, ma è dura da credere". Finalmente le pizze erano arrivate e così cominciammo a mangiare.
"Ottima questa pizza, non credi?".
"Sì, devo dire che è cotta a dovere".
"Ancora non mi hai detto se hai un ragazzo o no".
Lei scrollò la testa e poi ridendo rispose"Ho troppe cose da fare per averne uno".
"Ah, ma allora ne hai più d' uno!".
Lei rispose muovendo la forchetta come un pendolo "No, no, no, io di ragazzi non ne ho proprio".
"Beh, se ti va di stare così, contenta tu...".
"Ma sai, è che io non ci penso proprio".
Guardandola negli occhi "Però dai tuoi occhi traspare una certa tristezza, come se ti fosse successo qualcosa".
Lei si incupì e con un piccolo scatto di nervi mi disse: "Voi psicologi, pensate che analizzando la gente troviate tutti i mali che affliggono la nostra mente ma non è così. Perché quello che abbiamo sofferto, voi potete descriverlo ma non provarlo".
Spalancai gli occhi dalla meraviglia "Non sapevo che tutto ciò ti avrebbe scosso il sistema nervoso". Clara si calmò, si guardò intorno e si ricompose "Scusa, non ce l'ho con te!". Abbassò la testa e riprese a mangiare. Finimmo di mangiare in silenzio, anche perché si era instaurata una situazione di disagio tra noi. Finita la pizza, le chiesi gentilmente: "Vuoi il dolce?".
Lei scosse la testa come a dire no ed allora domandai il conto. La cameriera portò il conto, lei lo guardò e mentre si accingeva a prendere i soldi io la bloccai "Lascia stare, questa la offro io". Pagai e uscimmo. Rientrammo in macchina e partii in direzione di casa sua.
"Grazie della serata, e scusami per quel che ti ho detto".
"Non ci pensare più, tutto sommato, non sono affari che mi riguardano".
Arrivati davanti a casa sua, lei scese e stiracchiandosi mi salutò "Allora ci vediamo a scuola e ancora grazie per la pizza".
Non mi fece neppure rispondere che chiuse la portiera dietro di sé. Riaccesi il motore della mia macchina e ripartii per tornare a casa. Guidando, pensavo allo scatto che lei aveva avuto domandandomi se non avesse subito qualche violenza in gioventù, sapendo che uno shock subito durante l'infanzia crea una ferita che può rimanere aperta per tutta la vita. Ma non avevo comunque capito che cosa era e probabilmente non lo avrei mai saputo. Arrivato a casa, parcheggiai la macchina, salii in camera e accesi un po' la televisione mentre sfogliavo velocemente una rivista. Dopo un po', spensi la televisione e la luce della sala da pranzo, andai nella camera da letto e mi cambiai per coricarmi. Mi sdraiai e presi un libro, più per conciliare il sonno che per interesse. Avevo cominciato a leggere ma la mia mente era ritornata alla sfuriata di Clara contro gli psicologi e mi chiedevo se il nostro lavoro era realmente apprezzato dalla attuale società. Questi miei pensieri profondi si interruppero quando fui preso dal sonno, spensi la luce e mi addormentai. Il giorno dopo lo studio era chiuso e pensai di andare a fare spese. Mi recai al centro commerciale che distava circa otto chilometri da dove vivevo. Era venerdì e di solito c'era sempre traffico. Decisi di andarci in metropolitana. Stavo andando alla stazione per fare il biglietto quando incontrai Achille. Era un amico di lunga data che faceva l'architetto "Ehi, Patrizio, come va, è tanto tempo che non ci si vede, cosa stai facendo di bello? Hai poi trovato la tua anima gemella?".
Lo guardai un po' irritato perché ogni volta che mi vedeva faceva sempre la stessa domanda.
"Sai, sono ancora giovane per sposarmi e troppo vecchio per fidanzarmi".
Lui si fece una risata "Vedo che l'età avanzata ti ha portato il buonumore. Ne sono contento. Domenica ho organizzato un barbecue nella nostra nuova casa in campagna. È a trenta chilometri da qui, se vuoi sei invitato". "Mah, vedremo. Se sono libero perché no?".
E lui ridendo "A patto che vieni con una ragazza. Come ben sai, siamo tutti sposati e avere per casa uno scapolone come te, può farci ingelosire tutti e di conseguenza, rovinarci tutta la giornata".
"Farò quel che posso, consulterò la mia agenda".
Lui si rimise a ridere "Va bene, allora aspetto una telefonata per confermare la tua partecipazione. Ora ti saluto perché devo andare in studio, ho dei clienti stamattina".
Mi salutò e corse via. Mentre andavo a prendere la metropolitana pensavo che, prima o poi, Achille si sarebbe beccato un infarto per il suo andare sempre di fretta. Arrivato al centro commerciale, cominciai a girarlo tutto, in modo da vedere quanti più negozi possibile perché per natura non mi piace comprare nel primo negozio che vedo. Stavo girando quando vidi in un negozio Clara che sembrava stesse litigando con una commessa. Mi avvicinai quando la vidi buttare il capo di vestiario a terra. Tentennai, poi sospirando entrai. Clara, come mi vide, mi prese per il braccio e mi trascinò fino al bancone dove c'era la cassa e, mostrandomi la gonna, anzi mettendomela quasi in faccia mi disse: "Guarda qua, Patrizio, questa gonna ha una macchia e la signorina pensa che sia stata io a farla ma, come vedi, è una macchia dovuta a un errore di tintura della fabbrica".
La commessa si avvicinò a me e disse: "Lei è il marito?".
"No", risposi con un certo imbarazzo "sono un amico!". La commessa prese l'indumento e poi rivolgendosi a Clara rispose: "Guardi, per farle proprio un piacere, glielo cambio, ma a patto che sia sempre lo stesso tipo di capo, perché per me, questa non è una macchia di fabbrica".
Clara diventò sempre più nervosa "Mi sta dando della bugiarda davanti al mio amico?". Con il cenno della mano feci segno alla commessa di andare a cambiare l'indumento e prendendo Clara per un braccio la portai all'uscita.
"Ti vuoi calmare che stai facendo fare la folla, te lo sta cambiando".
Clara puntando il dito verso il bancone "È lei che ha cominciato, mi ha dato della bugiarda".
"Sì, ma adesso calmati che te lo cambia e poi, se vuoi il mio parere, cerca di rispettare le persone che lavorano perché non sono i tuoi schiavi".
Lei, vedendo che le parlavo con decisione si calmò di colpo. La commessa ritornò con un nuovo capo di vestiario. Clara lo guardò attentamente, poi esclamò "Questo va bene!".
Io e la commessa tirammo un sospiro di sollievo. Clara lo mise nella borsa e tutta soddisfatta mi prese sotto il braccio e mi portò fuori, neanche se fosse stata eletta miss di una qualsiasi competizione, quindi disse: "Hai visto che se tiri fuori le unghie ottieni quello che vuoi?".
La guardai con comprensione e pensai "Spero di non aver conosciuto una belva sotto forma di donna!".
Lei mi guardò con i suoi occhi piccoli e taglienti "No, forse non te ne sei accorto, ma io sono alquanto timida". Pensai "Una timida che porta queste minigonne".
Lei si voltò verso di me "Ma non ti ho ancora chiesto che cosa ci fai qua?".
"Sono venuto per fare spese e, più precisamente, per vedere se trovo una giacca che mi sta bene".
"Ah, capisco, se vuoi ti faccio compagnia anche perché oggi non lavoro".
Anche se mi aveva fatto fare una pessima figura non seppi dirle di no. Infatti anche a me non andava di stare da solo. L'unica cosa era che se trovavo qualcosa che mi piaceva, non volevo che fosse lei a consigliarmi.
In un tono scherzoso le dissi "A parte quello che ti ho detto a proposito dei miei gusti, non voglio che bisticci con chicchessia, perché mi dà molto fastidio vedere la persona che mi sta vicino urlare con altri per futili motivi".
Lei si mise la mano sulla bocca alzando la mano "Giuro che ogni volta che sarò con te, non farò più l'esagitata". Scrollai la testa "Tu sei pazza!".
Lei sorrise "No, è che con il tempo sono diventata una donna senza pazienza ma con te farò una eccezione". "Speriamo" esclamai. Il resto della giornata lo passammo guardando se potevamo trovare questa benedetta giacca. Verso le due finalmente la mia ricerca finì, quando in un negozio trovai quello che cercavo. La presi e pagai.
Tutto fiero mi rivolsi a Clara dicendo "Oh, anche questa è fatta!".
Lei mi guardò e supplicandomi disse "Perché non andiamo a mangiare qualcosa o a prendere un caffè? Sono distrutta dopo aver camminato tutto il giorno".
"Va bene", risposi. Ci fermammo a una tavola calda dove prendemmo posto a un tavolino. Io le chiesi cosa voleva mangiare e lei mi rispose: "Qualunque cosa che sia commestibile". Ridendo mi alzai e andai a fare la fila. Quando arrivai al bancone, presi un po' di tutto sul vassoio, pagai e ritornai al tavolino dove era seduta Clara che nel frattempo si era tolta le scarpe perché le facevano male i piedi. Poggiai il vassoio sul tavolo e lei esclamò "Mamma mia, quanta roba, ma sei sicuro che la mangeremo tutta?".
"Sì, che la mangeremo tutta, non mi dirai che hai già perso l'appetito?".
"No", mi rispose sorridendo e cominciammo a degustare le varie pietanze che avevo preso al bancone. Mentre mangiavamo si parlava del più e del meno.
"Non mi ricordo se mi hai detto che tipo di lavoro fai".
Lei fece un attimo di silenzio e guardandomi negli occhi "Lavoro in un bar, faccio la barista".
"Cioè?".
"Faccio cappuccini, caffè, cocktail".
"Però", risposi "mai sentito o visto una donna che sa fare la barman".
Lei fece spallucce e poi rispose "Mio padre mi ha insegnato questo lavoro. Era molto conosciuto nell'ambiente e mi ha insegnato tutti i trucchi del mestiere anche se penso che sia molto dura. Sai, un altro dei miei sogni è quello di lavorare come hostess in una compagnia aerea".
"Capisco, ma sai che devi fare dei corsi e devi conoscere anche delle lingue straniere?".
Mi fermai un attimo, lei mi guardò e disse "E in più?".
"In più, devi saper usare il paracadute se no, se cade l'aereo come fai?".
Lei mi guardò un po' stranita poi tirandomi un buffetto rispose "Scemo!".
Feci una bella risata poi ritornando serio dissi "Avrai un bel da fare per riuscirci".
Lei fece una smorfia con la bocca "Comunque io, almeno voglio provarci".
Finimmo di mangiare e la fila che si era fatta alla tavola calda, ci fece capire che era meglio lasciare il tavolo. Ripulimmo il tutto e uscimmo.
"Dove vai ora?".
"Ma, penso che andrò a casa a depositare il trofeo" le risposi mostrandole la borsa con la giacca e continuai: "Poi si vedrà, comunque dato che è venerdì sera, rimarrò a casa a guardare la televisione. Stasera c'è un bel film".
"Io lavoro sia stasera sia sabato quindi ho già il programma bello e fatto mentre domenica sono libera".
"Libera di andare con un ragazzo" dissi facendole l'occhiolino.
Clara si avvicinò e mi sussurrò nell'orecchio "Io non ho il ragazzo, caro il mio testone. Sto bene come sto, te l'ho detto nell'orecchio così non mi accusi di essere nervosa".
Scossi la testa "Ti andrebbe di venire a un barbecue domenica pomeriggio?".
Lei ci pensò su, poi disse "L'hai organizzato tu?".
"No, un mio amico di vecchia data mi ha invitato nella sua nuova casa in campagna e ci saranno anche sua moglie e altri amici sposati".
"E quindi ti serve una compagnia perché se no ti trovi a disagio stando da solo" disse con uno sguardo accattivante. Le dissi che si sbagliava ma era evidente che mentivo. Mi sarei veramente sentito a disagio non avendo alcuna persona vicino con cui parlare durante le fasi morte della giornata. Così, per salvare capra e cavoli le dissi che l'avevo invitata perché forse le sarebbe piaciuto andare a cavallo. Lei non se lo fece dire due volte e subito acconsentì. Prima di lasciarci mi chiese che cosa avrebbe dovuto indossare. Le risposi che il miglior indumento per la giornata sarebbe stato un paio jeans e degli stivaletti senza tacco dato che saremmo dovuti andare in aperta campagna e forse anche a cavallo. Quindi ci salutammo e ci demmo appuntamento per le undici di domenica mattina davanti al mio studio. Da lì con la mia macchina avremmo raggiunto la casa di Achille. Dopo che le ebbi impartito le istruzioni andò subito a prendere l'autobus perché doveva andare al lavoro. Passai il resto della giornata a leggere e a riassettare la casa.
 
 
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