LA PIÚ GRANDE
ANTOLOGIA VIRTUALE
DELLA POESIA ITALIANA

Poeti contemporanei affermati, emergenti ed esordienti

 

Francesco Alberto Giunta
Ritratto d'autore
Come Giovanni Pascoli aveva allestito nel suo studio di Barga tre tavoli (uno serviva alla poesia italiana, il secondo alla latina, il terzo agli studi danteschi), così Francesco Alberto Giunta sta lavorando su tre tastiere diverse e complementari. La prima è quella più impegnativa delle strutture romanzesche; la seconda è quella, rimodulata dopo anni di silenzio, della poesia; la terza è quella conversevole dei racconti, dei corsivi, delle interviste, dei ricordi. Sono tre diversi modi di esprimere che equivalgono a tre generi letterari di vario statuto (nell'ordine: epico, lirico, comico, satirico) e sono in realtà tre volti d'un medesimo personaggio. Non corrispondono in sequenza diacronica e tematica a tre stagioni della sua vita, ma s'intrecciano, si attraversano, convivono lungo un quarantennio di alterna operosità letteraria.
Come scriveva Svevo in un celebre passo della "Coscienza", nella vita di uno scrittore c'è posto per un romanzo solo, ch'egli scrive e riscrive lungo l'arco della sua parabola umana. La suggestiva ipotesi va naturalmente verificata per via empirica: ma se una prova può darsene attraverso gli autori del Novecento, quella di Giunta è tra le più trasparenti. Infatti nei romanzi del primo periodo "Viaggiando sulla strada" (1985) e "Notizie da via Daniele" (1988) il cosiddetto vissuto prevale, nella sua linea autobiografica. Ma il protagonista è lo stesso che, in una fase più matura, si oggettiva in "A Lipari un giorno. Avvenne" (1994) e, passando dal ruolo maschile al femminile, ne "Il posto delle pietre" (1996): ricerca simbolica di piena attuazione dell'io in rapporto ad un altro che sfugge, premuto da altri problemi psicologici, spirituali, religiosi...
L'inafferrabilità del reale è ribadita nell'ultimo romanzo "Karin è tra noi" che chiude la trilogia ultima che pur tende al punto fermo non già dal pensiero, ma della vita che deve consegnarsi ad un suggello trascendente. A tale riguardo Giuseppe Pontiggia ha scritto: "...romanzo d'idee, che nel testo sono forti e condivisibili perché stabiliscono un ponte tra estetica ed etica, tra amore e superamento del fanatismo e della intolleranza".
Quanto alla poesia, dopo numerose sillogi di notevole contenuto poetico, "Al vagar delle stelle" ha fatto passare Francesco Alberto Giunta dalla confessione privata alla maturità intertestuale: sempre infatti aveva avvertito l'influsso tematico, simbolico, musicale della "Rive gauche" da Baudelaire a Valéry, ma soltanto adesso, raggiunta la maturità tecnica e stilistica, ha espresso il proprio mondo avvicendando il francese e l'italiano, il simbolismo e il classicismo, le soste crepuscolari e le arditezze analogiche.
Resta qualcosa da dire sull'operosità "minore" della novellistica e del giornalismo letterario: lontano dagli impegni strutturali del romanzo, e quindi dall'epica che assomma il pensiero alla vita in prospettiva totale (quella che Franco Moretti chiama "opera-mondo") Giunta ha dato prova di bozzettista e di acquerellista acuto e perspicace, che proprio dall'allentarsi del processo psicologico - che è naturale nel rapido snodarsi dei "contesti" - attinge verità umana e immediatezza gestuale. Pirandello e Verga sono i suoi maestri, ma reimmessi l'uno in una scacchiera casuale che pur moltiplicando gli equivoci non chiude le porte alla comprensione ed alla "charitas", l'altro in una realtà da cui si può evadere cercando mondi diversi: più vari, più ricchi, più aperti all'imprevisto. Nella molteplicità delle situazioni e degli scioglimenti gioca il senso vivissimo degli spazi, dei viaggi, dei colloqui, dei profili umani sempre mutevoli ed interessanti. Insomma, è ancora una volta il passato di giornalista, di conversatore, di traduttore, di inviato speciale che vivacizza un paesaggio ed un volto. Ed è questa profusione di colori che orienta la sua pagina, vergata da mano sicura, verso baldanze di superstite giovinezza.
Franco Lanza
 
 
tratto da: "Le pagine della cultura"
Il mondo letterario e umano di Francesco Alberto Giunta
di Franco Lanza
 
La carriera letteraria di Francesco Alberto Giunta potrebbe definirsi, a giudicare dalle motivazioni esterne, quella di un attivo, disinvolto, cordiale "outsider" che, abituato agli incontri internazionali sul piano degli studi, dell'economia bancaria, delle cosiddette pubbliche relazioni, ha sempre privilegiato in queste l'elemento "cultura".
E si sa quanto serva, all'apparente estraneità degli apparati produttivi, un intelligente investimento in beni che riguardino le arti, la musica e le lettere. Ma guardando più addentro nella nascosta officina di questo straordinario scrittore, ci accorgiamo che il mondo dell'invenzione, dell'ascolto, dello sforzo espressivo gli preme assai più di tutto il resto, che pur gli è sempre servito per vivere. La scrittura per lui conta in proporzione inversa all'intrattenimento, allo svago, al viaggio che apparentemente gli hanno usurpato ogni spazio: ma dietro di essa c'è una non superficiale meditazione sui fini dell'esistenza, nonché uno studio, uno scavo, un affondo nel mistero della coscienza umana con tutto il suo carico d'ombra e di luce.
Questo duplice volto di uomo pubblico e di ricercatore solitario, di brillante intervistatore e di artefice silenzioso, ha trovato un punto di equilibrio dapprima nell'espressione lirica (con la pubblicazione delle seguenti sillogi: "Le parole sono cose", "Verso i Tatra", "Ballate e canzoni", "Al vagar di stelle" (in lingua italiana e lingua francese) nonché di una raccolta di poesie in lingua francese: "La foule d'un désargenté ou trente-trois chansons oubliées" poi, a mio avviso con maggiore forza di presa, nella costruzione narrativa. Qui la vocazione letteraria di Giunta sembra trattenersi nei percorsi descrittivi che gli sono indubbiamente congeniali: paesaggio, arte, storia della sua Sicilia; itinerari europei, orientali, africani, oceanici; incontri con uomini di cultura, di scienza, di filantropia, di teatro, di cinema; letterati a dovizia, ora engagés ora ribelli.
Uno spettacolo di ampia e sicura suggestione, che gli ha sempre dato il senso d'un osservatorio privilegiato, di un dialogo concesso a pochi, di un non facile confronto. Tracce di tale travaglio interiore le troviamo nel corposo journal di luoghi, persone, vagabondaggi letterari dal titolo emblematico Atupertu. Giunta ha dato alle stampe oltre a una raccolta di novelle immaginate: "Il respiro dell'uomo", un'altra raccolta di novelle ribelli: "Per non perdere il treno", nonché i seguenti romanzi d'idee: "Viaggiando sulla strada", "Notizie da Via Daniele", "A Lipari un giorno. Avvenne", "Il posto delle pietre" e il recentissimo "Karin è tra noi".
A ben vedere il suo romanzo "A Lipari un giorno. Avvenne" (1994) è per due terzi un inventario di cose squisite e di incontri aristocratici, una galleria di testimonianze, ma, procedendo dalla cornice al centro dell'arazzo sontuoso ed inquadrando l'esile nucleo narrativo, che vede l'idillio tra il giornalista Giorgio (ovvio ritratto dell'autore) ed una turista scandinava di forte presenza intellettuale e religiosa, Elisa, assistiamo ad una sorta di contrazione violenta della trama. La donna, che nutre in sé un ideale di conciliazione ecumenica tra le grandi fedi monoteiste, scompare improvvisamente e invano l'amante, che si propone per una koinè culturale universale, la ricerca per molti mesi. Saprà alla fine di un ignoto Mohammed che ella è stata vittima, nel deserto, di quell'integralismo che avrebbe voluto redimere.
Le domande si affollano alla mente del lettore: la storia ha un senso, una logica almeno parziale? Si può ancora parlare dell'uomo come imago Dei? Tutto ciò costituisce il controcanto drammatico, lo sfondo buio di un pannello luminoso. A riguardarlo, ora, nell'arcano laboratorio dello scrittore, non si può fare a meno di confrontarlo con il telaio del romanzo "Il posto delle pietre" (1996), elaborato a pochissima distanza dal precedente e strutturato in modo da porsi in contraddizione dialettica. A Lipari... era, a suo modo, una storia positiva: tragica nell'epilogo, conteneva tuttavia un messaggio ideale che innalzava la protagonista al ruolo sublime del martirio. Da Alfieri in poi, non importa più tanto che il pugnale risolutore si affondi nel petto del tiranno o in quello dell'eroe: nell'uno come nell'altro caso la distinzione tra il bene e il male è perentoria; l'importante è che la parola libertà risuoni alta ed eclatante nel consenso degli spiriti partecipanti. Ma la protagonista Chiara de "Il posto delle pietre" non è eroica, se non nell'accezione alquanto dimessa della moglie abbandonata che muove alla ricerca del marito scomparso. Lo scenario è quello stesso della tragica catarsi di Elisa: il Sahara, l'espansione tecnologica dell'Occidente, il conservatorismo islamico che un po' cede ai traffici ambigui e al fascino della ricchezza. È appunto questo ambiente in cui operava l'ingegnere consorte di Chiara, donna coraggiosa e perspicace che ha vagamente intuito in quella sparizione un movente più sentimentale che poliziesco. Non s'ingannava infatti; ma quando giunge sulle sue tracce, accettando i soccorsi di uomini per ragioni diverse interessati a lei (un avventuroso tassista di ruolo ambiguo, ma di sentimento sicuro; un uomo d'affari sofferente per infortuni familiari e imprenditoriali; un intellettuale ed esteta siciliano deluso dall'esperienza e desideroso di crescita spirituale), ecco la pista svanire nel nulla; ecco il mondo stesso slargarsi in un reticolo di miraggi che trascinano la donna lontano, fino in Giappone. Quando esce dal sortilegio e, accantonate, le evasive illusioni, riapproda alla famiglia, anche lui, il transfuga, esce finalmente dal mistero ed annuncia il suo arrivo. Ma il finale è a sorpresa: inquietudini e attese sono lì presenti.
Ben costruito, ma meno ricco di tensione ideale, "Il posto delle pietre" segna il momento della ricomposizione, ma anche - per inevitabile contraccolpo - della malinconia. L'autore lascia così intendere che il pendolo della vita chiuda un periodo e ne apra sempre un altro, senza che si sia chiarito il mistero del viaggio oracolare, dei percorsi simbolici, della felicità che si dissolve, come l'ombra di Euridice, prima ancora d'essere toccata.
In "Karin è tra noi" si discute sul fondamentalismo mussulmano; il libro appartiene già al filone della 'letteratura della profezia' in quanto il testo è stato pubblicato alcuni mesi prima dei tragici avvenimenti dell'11 settembre 2001.
Si potrebbe parlare a lungo su questo singolare scrittore scandagliando i siti più profondi della sua anima di viaggiatore e di 'voyant' ma terminiamo ricordando che già alla fine degli anni Quaranta scriveva della sua Sicilia sulla rivista dell'Università Cattolica del Lovanio, "L'Escholier de Louvain", un vero inno alla sua terrra con il lungo saggio 'En marge d'un mythe, la Sicile ancienne et nouvelle, vrae et fausse".
L'esercizio poetico di Francesco Alberto Giunta va apprezzato prima di tutto perché si pone quale esemplare valore pedagogico: è sostanzialmente un ascoltarsi, un acquietare nella scrittura il magma spesso bruciante del vivere, del sentire, del ricordare, del progettare. Sembra quasi che la vita errabonda di studente, di operatore economico, di reporter, di avventuriero senza ventura e, finalmente, di scrittore gli abbia sempre richiesto quella dicitura in verso che, per la sua stessa ragione composita ed indipendentemente dagli esiti testuali, comporta meditazione, scavo, scelta di parole. Probabilmente i critici diranno che la forma più adatta a raccogliere ed incanalare il suddetto magma è la prosa narrativa e credo anch'io che tale sia il suo sbocco, il suo merito precipuo, ma non bisogna dimenticare che, se ad un autore si chiede testimonianza di sé, del suo porsi a paragone del labile mondo fenomenico e delle tracce che la nostra presenza vi lascia in termini di passione e di dubbio, di tenerezza e di allusione, di amore e di rimpianto, il discorso "lirico" reclama sempre i suoi diritti vocativi, epigrafici e musicali.
L'area delle confessioni è segnata nelle antiche partizioni retoriche, dal cosiddetto grado alto a cui anche Giunta paga il proprio tributo d'esternazione ponendosi romanticamente al centro del mondo. Tutto comincia e tutto finisce nell'io legislatore e specchio, scaturigine prima di parole e di musica, fonte di impressioni esaltanti (colori, danze, vertigini di spazi, stordimenti di memorie) e di esistenziali tristezze.
In questa luce vanno letti anche i vagabondaggi mondani che occupano la maggior parte del volume: paesaggi esotici, resi con tratto impressionistico; itinerari europei compiuti con gli stimoli del turista colto ed insieme con quelli della curiosità umana, del contatto magari fulmineo con i protagonisti del tempo e della cronaca; nostalgie di Parigi e di Louvain a cui s'annoda la favola bella della giovinezza. Forse la cosa più riuscita in tali percorsi sono i rapidi schizzi d'un profilo, una veste, un interno: "Lo scialle a fiori grandi/ belli oltre il mito/ staglia la tua persona/ che siede da regina/ al concerto della sera": un pastello degno di Matisse.
Le stelle che l'inguaribile sognatore cerca nel firmamento si possono trovare, purché lo si voglia, anche nella cosiddetta valle di lacrime. Dovrei aggiungere a questo punto un codicillo sul Giunta francese, da cui traspare il singolare fenomeno linguistico d'un autore che, avendo pensato e formalizzato in ritmo, fraseggio, immagini, simboli, musiche un proprio modo di concepire l'esperienza del vivere e la profonda eticità che la pervade, ha avvertito il bisogno di ricantarle in una lingua diversa da quella materna. E tale bisogno non è (come parrebbe logico supporre) ascrivibile alla convenienza di farsi meglio intendere nel Paese con cui, fuori d'Italia, egli ha più assiduamente dialogato, e forse neppure ad una sfida testuale con se stesso, quasi una prova a due voci su strumenti diversi; a mio avviso, la si deve ricondurre proprio ad una motivazione culturale.
La moderna diversificazione francese a differenza di quella italiana (ancora fortemente ellittica e troppo condizionata dalla severità dei modelli ermetici) offre più larghi spazi agli incanti della memoria ed all'evasività melica ed onirica a cui egli è naturalmente portato con la sua vielle jeunesse maintenant passée. Potremmo certamente chiedergli di ritradurre in italiano qualche perla delle trenta che costituiscono "La foule d'un désargenté", ma non gli faremmo una proposta sensata, in quanto gli imporremmo una fatica forse non gradita e probabilmente non produttiva.
Lasciamo che Francesco resti François, e che le due voci risuonino separate. Saranno suggestivamente moltiplicate le possibilità d'ascolto.
 
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Agg. 11-12-2002