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                   Truman
                  Capote è uno scrittore che non è mai
                  entrato nella mia personale biblioteca, mi
                  riferisco a quella limitata serie di scaffali dove
                  sono riposti i libri che tengo sempre a portata di
                  mano: sono i libri degli scrittori che mi hanno
                  affascinato, che hanno suscitato l'anima, che hanno
                  aperto le porte a nuove prospettive. Truman Capote
                  non è uno di questi scrittori.Ho
                  letto da tempo il famoso A sangue freddo, poi
                  Colazione da Tiffany e, infine, l'ultimo Preghiere
                  esaudite: se devo essere onesto, ciò che
                  reputo più importante abbia mai scritto
                  Truman Capote è l'intervista-saggio a Marlon
                  Brando dal titolo Il Duca nel suo dominio. Una
                  meravigliosa intervista che, tra le sue mani,
                  diventa una sorta di breve racconto, a volte quasi
                  autobiografico, che rende omaggio a Marlon Brando e
                  a Truman Capote. Pare incredibile ma è
                  vero.Ciò
                  che leggerete, in queste mie considerazioni e
                  riflessioni, è esclusivamente ciò che
                  ho avuto modo di capire mentre leggevo e rileggevo
                  alcuni scritti di Truman Capote. Tutto ciò
                  che scriverò vi sembrerà ammantato da
                  una mia personalissima visione della sua figura e
                  dalla scarsa, direi quasi inesistente,
                  compatibilità tra me e Truman Capote. Solo
                  seguendo questa direzione o linea di condotta, sono
                  riuscito a scrivere alcune pagine che, comunque,
                  vivisezionano e rendono al meglio la sua
                  personalità e la sua esperienza
                  letteraria.Tutto
                  ciò che leggerete è necessariamente
                  crudo, spietato, cinico. Come Truman
                  Capote.I
                  lettori più attenti avranno già
                  capito cosa intendo dire. Buona lettura e mi
                  raccomando... calma e cold blood. Di
                  sicuro A sangue freddo fu una nonfiction novel che
                  dimostrò come Truman Capote sapeva
                  affrontare le situazioni complicate, anche le
                  più disperate e strazianti, sanguinose e
                  devastanti. Quell'impresa, certamente difficile da
                  portare a termine, lui era riuscito a svolgerla nel
                  migliore dei modi, come un abilissimo chirurgo. Non
                  era stato facile. L'assassinio della famiglia
                  Clutter, un reale fatto di cronaca, accaduto a
                  Holcomb, nel Kansas, nella notte del 15 novembre
                  1959, doveva essere riversato nel romanzo in modo
                  "immacolatamente vero", con neutralità. Dopo
                  aver letto sul giornale che un agricoltore di nome
                  Herbert Clutter, la moglie Bonnie e due dei loro
                  quattro figli, sono stati uccisi dopo essere stati
                  legati e imbavagliati nella notte, Capote si sente
                  come attratto da questo sanguinoso fatto di
                  cronaca. Poi, quando i due assassini Dick e Perry,
                  vengono arrestati a Las Vegas e confessano di avere
                  ucciso i quattro componenti della famiglia Clutter,
                  Truman Capote si rende conto che sono proprio i due
                  assassini che rendono la tragedia ancora "pulsante"
                  e inizia a organizzare numerosi incontri con loro.
                  Ecco allora che la costruzione del romanzo diventa
                  molto più complessa, deve tenere conto di
                  numerose testimonianze, di ricostruzioni delle
                  scene del delitto, di rivelazioni più o meno
                  veritiere, ed il tutto deve essere presentato in
                  modo omogeneo e credibile più del vero. I
                  due esecutori della strage, Dick e Perry, saranno
                  processati, riconosciuti colpevoli di assassinio e
                  condannati all'impiccagione.Truman
                  aveva speso sei anni della sua vita in quel
                  maledetto posto nel Kansas. Fino all'esecuzione dei
                  colpevoli. Truman Capote assisterà
                  all'esecuzione su espresso volere dei due
                  condannati. Questa vicenda avrà una forte e
                  pesante influenza sul futuro dello scrittore. Gli
                  effetti si vedranno qualche anno dopo, come un
                  lento virus che si insinua subdolamente nel corpo
                  e, solo dopo anni, esplode con tutta la sua
                  virulenza.Sei
                  anni. Sei anni immerso completamente in una
                  situazione mentale così stressante, in un
                  lento recupero d'ogni notizia utile, in una
                  costante scarnificazione della storia dalle
                  considerazioni superflue, sempre intento a
                  ricercare ogni minima traccia, come un segugio
                  sempre a fiutare le prede: certamente non era stata
                  impresa facile o raccomandabile.Non
                  a caso, il cinico Truman, dopo quell'esperienza
                  così faticosa eppure vantaggiosa per le sue
                  tasche, aveva voglia di godersela: a bordo dello
                  yacht del vip di turno, sbevazzando ogni cosa e
                  facendo incetta di snacks. Era giusto ed umanamente
                  comprensibile.Nel
                  gennaio del 1966 era uscito A sangue freddo, enorme
                  successo, un best seller che per trentasette
                  settimane rimase nella classifica del New York
                  Times. Un anno dopo il film con la regia di Richard
                  Brooks, con Truman che non accettava le scelte del
                  regista, l'innesto d'un nuovo personaggio nella
                  trama, le varie modifiche, fino al punto di
                  diventare rabbioso.Eppure,
                  apparentemente, tutto andava a gonfie vele. Truman
                  Capote era onnipresente, pareva avere il dono
                  dell'ubiquità: pubblicava Un ricordo di
                  Natale, scritto dieci anni prima; poi aveva
                  iniziato un nuovo racconto, Il Giorno del
                  Ringraziamento, che sarà pubblicato nel
                  1968; partecipava a incontri e dibattiti
                  televisivi, rilasciava interviste come fossero long
                  drinks, si trastullava durante vacanze in lussuose
                  ville, dava ricevimenti e si godeva il
                  successo. «È
                  come entrare in cucina e trovare rifiuti
                  sparpagliati ovunque» così s'era
                  espresso quando gli era stata richiesta una
                  riduzione cinematografica del romanzo di Francis
                  Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby, che pure
                  apprezzava. Nel 1972, per la rete televisiva ABC,
                  aveva realizzato un documentario dal titolo Truman
                  Capote dietro le sbarre con lo scrittore che
                  intervistava alcuni detenuti nella prigione di San
                  Quentin e poi, perfino un programma nel quale
                  intervistava famosi penalisti sul crimine in
                  America. Insomma un filone d'oro da sfruttare nel
                  miglior modo possibile.Pochi
                  anni dopo, a causa dell'alcol, durante le
                  partecipazioni a trasmissioni televisive,
                  interviste, o eventi pubblici, la sua condizione
                  mentale sarà penosa: dal ridicolo si
                  passerà al dramma.Nel
                  1979 finalmente sembra risorgere, facendo appello a
                  tutta la sua volontà: cerca di risollevare
                  il suo stato di salute, si cura con attenzione, fa
                  una dieta, un trapianto di capelli, un lifting.
                  Cerca anche, disperatamente, di riprendersi a
                  livello mentale e affitta un piccolo studio che
                  dovrebbe essere il suo rifugio sicuro dove scrivere
                  con la massima concentrazione. I racconti che
                  scriverà in questo periodo daranno vita a
                  Musica per camaleonti e Truman, con grande enfasi,
                  affermerà: «Vi è in esso tutto
                  ciò che io so a proposito dello scrivere.
                  È quanto di meglio io possa produrre, e
                  voglio che tutti vedano che è il lavoro di
                  un grande scrittore. Quando verrà fuori,
                  l'anno prossimo, i miei amici ne saranno molto
                  orgogliosi».Non
                  passerà un solo anno che, dopo aver
                  freneticamente viaggiato tra America ed Europa,
                  quasi a dimostrare a se stesso che era tornato ad
                  essere il grande Capote, "The Genius", dovrà
                  affrontare l'ennesimo crollo fisico: le
                  frequentazioni rischiose, gli anni d'uso e abuso di
                  alcol, cocaina e sostanze d'ogni genere producevano
                  i loro nefasti effetti. Senza scampo.E
                  quando, a chi lo conosceva anche solo di vista,
                  capitava di vederlo in qualche posto, la
                  considerazione ricorrente era: «Non mi sembra
                  Truman, ma è Truman». È proprio
                  lui.Durante
                  la supervisione della riduzione cinematografica di
                  Bare intagliate a mano, a Los Angeles, si trova in
                  uno stato così pietoso che lo riportano a
                  New York e poi in ospedale.Nell'estate
                  dell'anno seguente vi saranno frequenti ricoveri
                  per crisi dovute ad abuso di alcol e varie droghe.
                  Iniziano le allucinazioni e... lasciarlo solo
                  diventa pericolosissimo. Ormai non lavora
                  più, non scrive più, le Preghiere
                  esaudite diventano un incubo e non riuscirà
                  più a creare una sola pagina di quel libro
                  «così bello così ben costruito
                  così unico» fino a farneticare
                  «nessuno può scrivere così
                  bene». Verso la fine del mese di agosto
                  è ospitato da Joanne Carson, a Los Angeles.
                  Alla mattina, al suo risveglio, dice a Joanne:
                  «Non sto affatto bene... ma presto
                  starò meglio». Le impedisce di chiamare
                  un medico e continua a parlare con lei, per ore,
                  fino al momento in cui si ferma.Tutto
                  si ferma.Truman
                  inizia il nuovo cammino con la sua anima, non
                  rimane che la sua opera, la scrittura nata da un
                  personaggio veramente singolare. E «raggiunse
                  la zona alberata, proseguì all'ombra,
                  lasciandosi alle spalle il cielo sconfinato e la
                  voce del vento che passava, sussurrando, in mezzo
                  al grano». Come nelle ultime parole del suo
                  famoso A sangue freddo. «Sono
                  come uno squalo: l'unico animale che non dorme mai;
                  che muove la coda nell'acqua senza mai
                  fermarsi».Come
                  un moderno dracula, affonda gli incisivi nelle
                  prede, negli agnelli sacrificali che hanno creduto
                  nella sua amicizia, nella sua innocuità:
                  credevano fosse uno di loro, ma non era
                  così.La
                  sua esperienza umana e la sua opera letteraria
                  erano state una scrittura e riscrittura di
                  "margine", un incessante equilibrio tra morte e
                  vita, un barcamenarsi sulla linea di confine, tra
                  realtà e "lucida follia". Si era mosso con
                  abilità nei meandri sconosciuti, aveva dato
                  fondo a tutta la sua astuzia per emergere e lo
                  aveva fatto fin dall'inizio: fin da quando era
                  entrato nella redazione al The New Yorker come
                  umile copyboy, con il compito di tenere in ordine
                  gli uffici e raccogliere i disegni da pubblicare.
                  Era una mansione da svolgere in silenzio ma Truman
                  si comporta da insolente, crea scompiglio, non si
                  lascia soffocare e non si sente l'ultimo anello
                  della catena, vagabonda per tutti gli uffici, su e
                  giù per i piani, con quella sua voce
                  stridula che si sente da lontano, con quel suo modo
                  di vestire con pantaloni larghi e comode scarpe da
                  ginnastica... Poi comincia a frequentare le
                  redazioni di Harper's Bazaar, il primo contratto
                  con la Random House per Altre voci altre stanze...
                  e poi la scalata.Una
                  vita vissuta a sangue freddo, quasi immedesimandosi
                  con gli esecutori della famosa strage dei Clutter,
                  quei due giovani assassini che aveva conosciuto a
                  fondo, che aveva intervistato, che aveva studiato,
                  analizzato fin nei minimi particolari.E
                  infine, nell'ultimo capitolo della sua vita, le
                  Answered Prayers.Preghiere
                  esaudite sarà un reportage al vetriolo, tra
                  gossip e maldicenze allo stato puro, e Truman
                  Capote, dopo aver annotato vizi e meschinità
                  per quindici anni, quasi come un guastatore in
                  avanscoperta tra le linee del nemico,
                  metterà nero su bianco, una sorta di
                  vivisezione dei personaggi "incontrati", una
                  spietata esecuzione a freddo, una devastante e
                  lunga elencazione delle zone più oscure
                  dell'uomo, delle loro tragedie, del loro misero
                  quotidiano, e, in alcuni casi, della loro schifosa
                  e merdosa fine. E meno male che ne porterà a
                  termine solo tre capitoli.Lo
                  strumento usato sarà il bisturi e non certo
                  il fioretto: tagli netti, sanguinanti, ferocia allo
                  stato primitivo, cinica osservazione per decretare
                  la nullità d'una persona.In
                  alcune pagine, vien voglia di chiudere il libro:
                  pare di entrare nelle intenzioni di Capote e
                  fissarne la frattura tra ciò che sicuramente
                  nasceva dal suo stato alterato dovuto all'alcool e
                  alle droghe e ciò che invece, forse solo
                  minimamente, riusciva ancora ad uscire dalla mente
                  lucida dello scrittore. Una frattura insanabile fra
                  se stesso e il mondo circostante. Un essere umano
                  costretto all'angolo, una volta brillante e
                  strafottente, ridotto ad una increspatura di se
                  stesso; uno scrittore, una volta capace di
                  scrivere, sulla propria pelle, A sangue freddo, ed
                  ora, ridotto a cianciare di gossip come un
                  redattore di settimanale che vive del pettegolezzo
                  o dei fatti degli altri. I residui d'un essere
                  umano che si aggrappa alle stronzate che facevano
                  personaggi famosi del suo tempo e con i quali, fino
                  a poco tempo prima, aveva bevuto cocktails e fatto
                  battute banali. Prima sguazzando tra di loro, nelle
                  piscine, nelle ville, nei loro yachts, nelle loro
                  lussuose dimore, insieme a loro in vacanza nei
                  luoghi più famosi, ed ora disperso in una
                  galleria senza uscita. Il buio assoluto dopo le
                  scintille della vita.Le
                  domande che nascono spontanee su questa condizione
                  umana, sono fin troppo scontate. Forse è
                  meglio tralasciare e far calare il pietoso
                  velo.Una
                  sottile luce illuminava ancora il suo volto, la sua
                  "piccola lanterna" per muoversi tra le strade,
                  l'ultima ombra da accarezzare come fosse una sua
                  proiezione, senza età e senza
                  risposte.In
                  verità, quei tre capitoli delle Preghiere
                  esaudite non erano altro che il prolungamento
                  dell'agonia di Trummy.Il
                  grande Capote che un tempo sgattaiolava sotto le
                  luci della ribalta e ora pareva un volto in
                  penombra, una maschera surreale, due mani che non
                  plasmavano più niente: riportavano
                  pettegolezzi da portinaia.La
                  sua mente tendeva ad inglobare la nocività
                  della vita, le tossine dell'esistenza e delle
                  esperienze, arrivava a lambire i limiti della
                  dissolvenza umana, un inarrestabile decadimento
                  fisico, un crollo mentale fino
                  all'abisso.Truman
                  Capote pagherà il suo tributo alla vita...
                  perchè la vita, come tutti sappiamo,
                  presenta sempre il conto.Alla
                  fine. A sangue freddo.  Massimo
                  Barile
                  
                  
 
TRUMAN
                  CAPOTE - ROMANZI E
                  RACCONTI   A
                  SANGUE FREDDO Traduzione
                  di Maria Paola
                  Dèttore 2
                  1 2 A
                  Jack Dumphy e Harper Leecon
                  affetto e gratitudine Tutto
                  il materiale di questo libro non derivato da mia
                  osservazione diretta o proviene da registrazioni
                  ufficiali o è il risultato di colloqui con
                  le persone direttamente interessate, colloqui che
                  molto spesso si sono protratti per un tempo
                  considerevole. Poiché questi
                  «collaboratori» sono già nominati
                  nel testo sarebbe prolisso elencarli qui, tuttavia
                  desidero esprimere la mia gratitudine perché
                  senza la loro paziente collaborazione il mio
                  compito sarebbe stato impossibile. Inoltre non
                  intendo fare una lista di tutti quei cittadini
                  della contea Finney non menzionati in queste
                  pagine, che hanno offerto all'autore
                  un'ospitalità e un'amicizia che egli
                  può solo ricambiare ma mai ripagare.
                  Comunque desidero ringraziare alcune persone il cui
                  contributo alla mia opera è stato specifico:
                  il dottor James McCain, presidente
                  dell'Università di Stato del Kansas; il
                  signor Logan Sanford e il personale dell'Ufficio
                  investigativo del Kansas, il signor Charles McAtee,
                  direttore degli Istituti di pena dello Stato del
                  Kansas; il signor Clifford R. Hope Jr., la cui
                  assistenza nelle questioni legali è stata
                  inestimabile; e infine, ma soprattutto, il signor
                  William Shawn del «New Yorker», che mi ha
                  incoraggiato a intraprendere questo progetto e la
                  cui capacità di giudizio mi è stata
                  di grande aiuto dal principio alla
                  fine.T.C.
                  
                  
 GLI
                  ULTIMI A VEDERLI VIVI Il
                  villaggio di Holcomb si trova sugli altipiani
                  graniferi del Kansas occidentale, una zona
                  scarsamente popolata, alla quale nel resto dello
                  Stato si allude dicendo: «laggiù».
                  Un centinaio di chilometri a est del confine con il
                  Colorado, il paesaggio, con i suoi duri cieli
                  azzurri e l'aria limpida e secca, ha un'atmosfera
                  più da Far West che da Middle West.
                  L'accento locale ha la cadenza aspra di quello
                  delle grandi praterie, una nasalità da
                  bovari, e molti uomini portano stretti pantaloni da
                  cow-boy, cappello a larghe tese e stivali con
                  tacchi alti e punte aguzze. Il terreno è
                  piatto e gli orizzonti tremendamente estesi;
                  cavalli, mandrie di bestiame, bianchi silos che si
                  elevano aggraziati come templi greci sono visibili
                  molto prima che il viaggiatore li
                  raggiunga.Anche
                  Holcomb può essere scorto da grande
                  distanza. Non che ci sia molto da vedere: solo un
                  confuso agglomerato di edifici diviso al centro dai
                  binari della Ferrovia per Santa Fé, un borgo
                  nato a casaccio e delimitato a sud da un tratto del
                  fiume Arkansas (pronunciato
                  «Ar-kan-sas»), a nord da un'autostrada,
                  la Statale 50, a est e a ovest da praterie e campi
                  di grano. Dopo una pioggia, o quando le nevi si
                  sciolgono, le strade prive di nome, di ombra, di
                  selciato, passano dal polverone al fango. A un capo
                  della cittadina sorge un vecchio casone dai muri a
                  intonaco, spoglio, il cui tetto sorregge un'insegna
                  elettrica - DANCE - ma le danze sono cessate da
                  tempo e l'insegna è spenta da parecchi anni.
                  Lì accanto c'è un altro edificio,
                  dall'insegna, pure non pertinente, in oro scrostato
                  su una vetrina sporca: HOLCOMB BANK. Ma la banca
                  è fallita nel 1933 e gli uffici sono stati
                  trasformati in appartamenti. È uno degli
                  unici due «condomini» della cittadina; il
                  secondo è un cadente palazzotto noto come il
                  Professoraio poiché vi abita buona parte del
                  corpo insegnante della scuola locale. Ma per la
                  maggior parte le case di Holcomb sono a un solo
                  piano, con una veranda sul davanti.Vicino
                  alla stazione c'è uno sgangherato ufficio
                  postale, diretto da una donna dall'aria sparuta che
                  indossa giubbotto di pelle, calzoni di tela e
                  stivali da cow-boy. La stazione stessa, con la sua
                  vernice color zolfo che si scrosta, è
                  altrettanto malinconica. Ogni giorno vi transitano
                  i celebri rapidi dai nomi altisonanti - The Chief,
                  The Superchief El Capitan - ma non vi si fermano
                  mai. Nessun treno passeggeri si ferma; solo, ogni
                  tanto, un merci. Sull'autostrada ci sono due
                  stazioni di servizio, su a nord, di cui una funge
                  anche da emporio, scarsamente fornito, mentre
                  l'altra svolge un'attività supplementare
                  come caffè, il Caffè Hartman, dove la
                  signora Hartman, proprietaria, dispensa panini,
                  caffè, bibite e birra a bassa gradazione. (A
                  Holcomb, come in tutto il Kansas, è proibita
                  la vendita di alcolici nei locali
                  pubblici.)E
                  questo è tutto. A meno che non si includa,
                  come doveroso, la scuola di Holcomb, un
                  bell'edificio che rivela un dato di fatto che non
                  traspare invece dal resto dell'abitato: e
                  cioè che i genitori i cui figli frequentano
                  questa moderna scuola «parificata»,
                  dotata di ottimi insegnanti - le classi vanno
                  dall'asilo al liceo e una serie di pullman
                  trasporta gli studenti, il cui numero si aggira sui
                  trecentosessanta, perfino da un centinaio di
                  chilometri di distanza - sono, in genere, persone
                  benestanti. Proprietari di grandi fattorie per lo
                  più, gente che vive all'aria aperta e che
                  discende da svariate stirpi: tedeschi, irlandesi,
                  norvegesi, messicani, giapponesi. Allevano bovini e
                  pecore, coltivano grano, saggina, foraggi e
                  barbabietole da zucchero. L'agricoltura è
                  sempre un'impresa incerta, ma nel Kansas
                  occidentale chi la pratica si considera un
                  «giocatore d'azzardo» poiché deve
                  combattere con l'estrema scarsità delle
                  precipitazioni (la media annua è di
                  quarantacinque centimetri) e con angosciosi
                  problemi d'irrigazione. Comunque gli ultimi sette
                  anni sono stati generosi e non si è avuta
                  siccità. Gli agricoltori della contea
                  Finney, di cui Holcomb fa parte, se la sono cavata
                  bene; hanno fatto quattrini non solo col lavoro dei
                  campi ma anche «con lo sfruttamento di
                  abbondanti risorse di metano, e tali profitti si
                  riflettono nella nuova scuola, nei comodi interni
                  delle case coloniche, nei silos alti e ben
                  pieni.Fino
                  a una certa mattina di metà novembre 1959,
                  pochi americani, anzi, persino pochi kansasiani
                  avevano sentito parlare di Holcomb. Come le acque
                  del fiume, come gli automobilisti sull'autostrada e
                  come i treni gialli che sfrecciano sulle rotaie
                  della Santa Fé, neanche il dramma, sotto
                  forma di avvenimento eccezionale, si era mai
                  fermato qui. Gli abitanti del paese, che ne conta
                  duecentosettanta, erano soddisfatti che le cose
                  stessero così e contenti di condurre
                  un'esistenza del tutto ordinaria: lavorare, andare
                  a caccia, guardare la televisione, partecipare alle
                  feste della scuola, alle prove del coro, ai raduni
                  dei Club 4-H. Ma poi, alle prime ore di quella
                  domenica di novembre, certi rumori insoliti si
                  intromisero fra i normali suoni notturni di
                  Holcomb: il lugubre isterismo dei coyote, il
                  fruscio secco dell'erba cascarla trascinata dal
                  vento, il fischio delle locomotive che si
                  allontanano veloci. Sul momento non un'anima di
                  Holcomb, immersa nel sonno, li udì: quattro
                  colpi di fucile che, a conti fatti, posero fine a
                  sei vite umane. Ma in seguito gli abitanti della
                  cittadina, fino a quel momento tanto fiduciosi da
                  prendersi raramente la briga di chiudere a chiave
                  la porta di casa, ebbero a ricrearli mentalmente
                  più e più volte: cupe detonazioni che
                  facevano deflagrare incendi di sfiducia al cui
                  riverbero molti buoni vicini di un tempo si
                  guardavano adesso in modo strano, come
                  estranei.Il
                  padrone della fattoria River Valley, Herbert
                  William Clutter, aveva quarantotto anni e, come
                  risultava da un recente controllo medico per una
                  polizza assicurativa, sapeva di essere in perfette
                  condizioni fisiche. Nonostante portasse occhiali da
                  miope e fosse di media statura, poco sotto il metro
                  e settantacinque, aveva una gagliarda figura
                  virile. Spalle ampie, capelli ancora folti e bruni,
                  un viso dalla mascella forte e volitiva, giovanile,
                  di colorito sano, denti bianchissimi e tanto
                  robusti da schiacciare noci, ancora intatti. Pesava
                  settantacinque chili, come il giorno in cui si era
                  diplomato all'Università di Stato del Kansas
                  come perito agrario. Non era ricco quanto il
                  più facoltoso cittadino di Holcomb, il
                  signor Taylor Jones, proprietario di una fattoria
                  confinante. Era tuttavia la persona più
                  ragguardevole della comunità, eminente sia a
                  Holcomb sia a Garden City, il vicino capoluogo di
                  contea dove aveva presieduto il comitato promotore
                  della Prima Chiesa Metodista, di recente
                  costruzione, costata ottocentomila dollari.
                  Attualmente era presidente dell'Associazione
                  coltivatori diretti del Kansas, e il suo nome
                  godeva di grande rispetto tra gli agricoltori di
                  tutto il Middle West, come pure in certi ambienti
                  di Washington, dove aveva fatto parte della
                  Commissione federale per il credito agricolo
                  durante l'amministrazione Eisenhower.Sempre
                  sicuro di sé e di quanto voleva dal mondo,
                  Herbert Clutter l'aveva in larga misura ottenuto.
                  Alla mano sinistra, su quel che gli restava
                  dell'anulare maciullato da una trinciaforaggi,
                  portava una fede d'oro, simbolo, vecchio di un
                  quarto di secolo, del suo matrimonio con la donna
                  che aveva scelto di sposare: la sorella di un
                  compagno d'università, una ragazza timida,
                  pia, delicata, di nome Bonnie Fox, di tre anni
                  più giovane di lui. Bonnie gli aveva dato
                  quattro figli: tre femmine e per ultimo un maschio.
                  La figlia maggiore, Eveanna, sposata e madre di un
                  bimbo di dieci mesi, abitava nell'Illinois ma
                  veniva spesso a Holcomb. Infatti, lei e la sua
                  famiglia erano attesi entro i prossimi quindici
                  giorni poiché era in programma, per il
                  Giorno del Ringraziamento, una riunione plenaria
                  del clan dei Clutter (oriundo della Germania: il
                  primo Clutter - o Klotter, come era scritto allora
                  il nome - era immigrato in America nel 1880). Erano
                  stati invitati una cinquantina di parenti, parecchi
                  dei quali sarebbero giunti da località
                  lontane come Palatka, in Florida. E neppure
                  Beverly, la secondogenita, abitava più nella
                  fattoria River Valley, bensì a Kansas City,
                  dove seguiva un corso da infermiera. Beverly era
                  fidanzata con un giovane studente di biologia che
                  suo padre vedeva molto di buon occhio: gli inviti
                  alla festa di nozze, fissata per la settimana di
                  Natale, erano già stati stampati. Quindi
                  restavano ancora in casa il ragazzo, Kenyon, che a
                  quindici anni era più alto del padre, e una
                  sorella di sedici anni, la beniamina del villaggio,
                  Nancy.Nei
                  confronti della famiglia, Clutter aveva un solo
                  serio motivo di preoccupazione: la salute di sua
                  moglie. Era «nervosa», soffriva di
                  «piccoli attacchi»; tali erano le
                  eufemistiche espressioni usate da coloro che le
                  stavano vicino. Non che la verità circa i
                  «malanni della povera Bonnie» fosse un
                  segreto; tutti sapevano che da circa sei anni
                  andava saltuariamente da uno psichiatra. Eppure,
                  anche su questa zona d'ombra recentemente aveva
                  brillato il sole. Il mercoledì precedente,
                  di ritorno da due settimane di cure presso il
                  centro medico Wesley di Wichita., suo abituale
                  luogo di ritiro, la signora Clutter aveva portato
                  notizie quasi incredibili a suo marito; con gioia
                  lo aveva informato che la fonte dei suoi mali,
                  così avevano infine decretato i medici, non
                  era nella testa bensì nella spina dorsale:
                  era una causa fisica, una questione di vertebre
                  spostate. Naturalmente avrebbe dovuto sottoporsi a
                  un'operazione e poi, be', sarebbe tornata quella di
                  un tempo. Era forse possibile che la tensione
                  nervosa, quel suo chiudersi in se stessa, quei
                  singhiozzi soffocati sul cuscino, pa orte chiuse...
                  tutto ciò fosse dovuto a una spina dorsale
                  deviata? Se così era, Herbert Clutter, nel
                  discorso che avrebbe tenuto a tavola il Giorno del
                  Ringraziamento, avrebbe ben potuto recitare una
                  preghiera colma di gratitudine.Di
                  solito la giornata di Herbert Clutter cominciava
                  alle sei e mezzo; a svegliarlo erano il clangore
                  dei secchi del latte e le chiacchiere sommesse dei
                  due ragazzi che li portavano, figli di un
                  bracciante a nome Vic Irsik. Ma quel sabato egli
                  indugiò a letto, lasciando che i figli di
                  Vic Irsik se ne andassero com'erano venuti: la
                  serata precedente, un venerdì 13, era stata
                  per lui faticosa anche se piacevole. Bonnie era
                  apparsa «quella di un tempo»: quasi a
                  offrire un'anteprima della normalità, del
                  vigore che presto avrebbe ritrovato, si era messa
                  il rossetto, si era pettinata con cura e, indossato
                  un abito nuovo, si era recata con lui alla scuola
                  di Holcomb, dove avevano applaudito una recita
                  studentesca di Tom Sawyer in cui Nancy sosteneva la
                  parte di Becky That-cher. Era stata una gioia per
                  lui rivedere Bonnie tra la gente, nervosa ma
                  sorridente, e udirla chiacchierare con gli amici; e
                  poi tutti e due si erano sentiti orgogliosi di
                  Nancy, che aveva recitato a meraviglia, senza mai
                  impaperarsi. Al termine dello spettacolo il padre
                  si era congratulato con lei e le aveva detto:
                  «Sei bellissima, tesoro: una vera bellezza del
                  Sud». Al che Nancy si era atteggiata a tale,
                  facendo un inchino in costume di scena, con gonna e
                  crinolina; quindi aveva domandato il permesso di
                  recarsi a Garden City. Allo State Theatre davano
                  uno speciale, alle undici e mezzo di quel
                  venerdì 13, un film dell'orrore, e tutti i
                  suoi amici ci andavano. In altre circostanze
                  Clutter avrebbe rifiutato. Le sue leggi erano leggi
                  e una di queste era: Nancy, e anche Kenyon,
                  dovevano rientrare per le dieci di sera nei giorni
                  feriali, ed entro la mezzanotte il sabato. Ma, reso
                  più indulgente dai piacevoli avvenimenti
                  della serata, aveva invece acconsentito. E Nancy
                  era tornata a casa solo verso le due. L'aveva
                  sentita entrare e l'aveva redarguita; non era sua
                  abitudine alzare sul serio la voce, ma aveva alcune
                  cose molto semplici da dirle, non tanto riguardo
                  all'ora tarda quanto al ragazzo che l'aveva
                  riaccompagnata in auto: un asso della squadra di
                  pallacanestro della scuola, Bobby Rupp.Il
                  signor Clutter aveva simpatia per Bobby e lo
                  considerava, per un ragazzo della sua età,
                  diciassette anni, assolutamente fidato e perbene;
                  tuttavia in quegli ultimi tre anni - da quando
                  cioè le era stato concesso di avere dei
                  filarini - Nancy, graziosa e ammirata com'era, non
                  era mai uscita con altri, e Clutter, pur rendendosi
                  conto che era attualmente costume degli adolescenti
                  fare coppia fissa e scambiarsi anelli di
                  fidanzamento, non gradiva la cosa, specie da
                  quando, poco tempo addietro, aveva sorpreso per
                  caso la figlia e il giovane Rupp a baciarsi. Allora
                  aveva consigliato a Nancy di smettere di
                  «vedere così spesso Bobby»,
                  spiegandole che un graduale distacco ora sarebbe
                  stato meno doloroso di una brusca rottura in
                  seguito poiché, le rammentò, una
                  separazione era inevitabile. La famiglia Rupp era
                  cattolica, i Clutter invece metodisti, e questo
                  bastava a porre fine a qualsiasi illusione, che lei
                  e il ragazzo potessero nutrire, di sposarsi un
                  giorno. Nancy si era mostrata ragionevole, o
                  perlomeno non aveva puntato i piedi, così,
                  prima di augurarle la buonanotte, Clutter le aveva
                  fatto promettere di cominciare a mollare
                  gradualmente Bobby.L'episodio,
                  comunque, gli aveva purtroppo ritardato l'ora di
                  coricarsi, di solito le undici. Di conseguenza
                  erano le sette passate quando si risvegliò
                  quel sabato, 14 novembre 1959. Sua moglie si
                  svegliava sempre il più tardi possibile.
                  Tuttavia, mentre si radeva, faceva la doccia e si
                  vestiva (indossando pantaloni a coste, giacca di
                  cuoio e morbidi stivali da cavallo), Clutter non
                  aveva timore di disturbarla: non condividevano
                  infatti la camera da letto. Da diversi anni lui
                  dormiva da solo nella stanza matrimoniale, a
                  pianterreno. La casa, in legno e mattoni, a due
                  piani, aveva quattordici stanze. Nonostante
                  riponesse gli abiti negli armadi di quella camera e
                  tenesse i suoi pochi cosmetici e la miriade di
                  medicine nell'attigua stanza da bagno, in
                  piastrelle azzurre e mattonelle di vetro, la
                  signora Clutter occupava stabilmente la stanza che
                  era stata di Eveanna e che, come quelle di Nancy e
                  di Kenyon, si trovava al piano
                  superiore.La
                  casa, per la maggior parte progettata dal signor
                  Clutter, che si era così dimostrato
                  architetto razionale e giudizioso, anche se non
                  particolarmente estroso, era stata costruita nel
                  1948, con una spesa di quarantamila dollari.
                  (Attuale valore: sessantamila dollari.) Situata in
                  fondo a un lungo viale ombreggiato da due filari di
                  olmi cinesi, quella bella casa bianca, circondata
                  da un ampio prato ben curato di erba Bermuda, era
                  molto ammirata a Holcomb: una casa che la gente
                  additava a esempio. Quanto all'interno, c'erano
                  molti tappeti morbidi color sangue di bue che
                  rompevano a tratti il lucido dei risonanti
                  pavimenti verniciati; c'era, in soggiorno, un
                  immenso divano moderno, ricoperto di una stoffa
                  granulosa intessuta di luccicanti fili di metallo
                  argenteo; c'era un angolo per la prima colazione,
                  con un tavolo ricoperto di plastica bianca e blu.
                  Insomma, era il tipo di arredamento che piaceva ai
                  coniugi Clutter come alla maggior parte dei loro
                  conoscenti, le cui abitazioni, in linea di massima,
                  erano arredate in modo analogo.A
                  parte una donna tuttofare che veniva nei giorni
                  feriali, i Clutter non avevano domestici. Quindi,
                  in seguito alla malattia della moglie e alla
                  partenza delle due figlie maggiori, il signor
                  Clutter aveva per forza di cose imparato a
                  cucinare; lui o Nancy, ma più spesso Nancy,
                  preparavano i pasti. A Clutter piaceva quella
                  mansione ed era un ottimo cuoco; in tutto il Kansas
                  nessuna massaia sapeva preparare un pane casareccio
                  migliore, e i suoi famosi biscotti al cocco erano i
                  primi a esaurirsi alle vendite di dolci per
                  beneficenza. Non era però un gran
                  mangiatore; a differenza degli altri proprietari di
                  fattorie, preferiva colazioni spartane. Quella
                  mattina gli bastarono una mela e un bicchiere di
                  latte; non prendeva mai tè né
                  caffè ed era abituato a iniziare la giornata
                  senza niente di caldo nello stomaco. Fatto sta che
                  era contrario a qualsiasi stimolante, per quanto
                  blando. Non fumava e naturalmente non beveva; non
                  aveva mai toccato alcolici e preferiva evitare le
                  persone che ne facevano uso. Ciò non
                  restringeva tanto la sua cerchia sociale quanto si
                  potrebbe pensare, poiché il nucleo di quella
                  cerchia era costituito da membri della Prima Chiesa
                  Metodista di Garden City, congregazione di
                  millesettecento fedeli, la maggior parte dei quali
                  astemi quanto poteva desiderare il signor Clutter.
                  E se questi evitava con cura di rendersi noioso
                  ostentando le sue norme e anzi si sforzava di
                  adottare, fuori dal suo reame, un atteggiamento
                  tutt'altro che censorio, le faceva bensì
                  rispettare rigorosamente all'interno della propria
                  famiglia e dai dipendenti della fattoria River
                  Valley. «Lei beve?» era la prima domanda
                  che rivolgeva a chi si presentava per essere
                  assunto; e anche se costui dava una risposta
                  negativa, doveva ugualmente firmare un contratto di
                  lavoro contenente una clausola per cui l'impegno
                  risultava automaticamente scisso qualora il
                  dipendente fosse stato scoperto «in possesso
                  di alcolici». Un amico, agricoltore di antica
                  data, Lynn Russell, gli aveva detto una volta:
                  «Tu non hai misericordia. Sono sicuro, Herb,
                  che se beccassi un dipendente a bere, lo
                  sbatteresti fuori. E non te ne importerebbe nulla
                  anche se la sua famiglia morisse di fame».
                  Quella era forse l'unica critica che mai fosse
                  stata mossa a Herbert Clutter come datore di
                  lavoro. Per il resto erano noti la sua
                  equanimità, il suo animo caritatevole e il
                  fatto che pagava buoni salari e distribuiva
                  frequenti gratifiche; gli uomini che lavoravano per
                  lui - il cui numero a volte arrivava a diciotto -
                  avevano scarsi motivi di lamentele. Dopo
                  aver bevuto il bicchiere di latte ed essersi messo
                  in capo un berretto foderato di pelo, Clutter
                  addentò una mela e uscì all'aperto, a
                  godersi la mattinata. Era il tempo ideale per
                  mangiare mele; da un cielo purissimo scendeva la
                  più fulgida luce solare, e un vento di
                  levante faceva stormire, senza staccarle, le ultime
                  foglie degli olmi cinesi. L'autunno ripaga il
                  Kansas occidentale di tutti i mali inflitti dalle
                  altre stagioni: i rabbiosi venti invernali del
                  Colorado e le nevi alte fino ai fianchi,
                  sterminatrici di pecore; il fango e le strane brume
                  che la terra esala a primavera; e poi la calura
                  dell'estate, quando persino i corvi cercano un po'
                  d'ombra e le fulve distese di spighe, irte,
                  avvampano. Infine, dopo settembre, il clima si fa
                  clemente e arriva l'estate di san Martino che a
                  volte si protrae fino a Natale. Mentre contemplava
                  quel superbo paesaggio autunnale, Clutter fu
                  raggiunto da un cane bastardo, per metà
                  collie, e insieme si diressero al recinto del
                  bestiame, adiacente a uno dei tre granai della
                  tenuta. Uno
                  di questi granai era un enorme capannone
                  prefabbricato, traboccante di sorgo Westland, e un
                  altro conteneva una scura montagna di saggina
                  dall'odore pungente e di valore considerevole:
                  centomila dollari. Tale somma, da sola,
                  rappresentava un incremento del quattromila per
                  cento rispetto al reddito complessivo del giovane
                  Clutter nel 1934, l'anno in cui aveva sposato
                  Bonnie Fox e si era trasferito con lei dalla loro
                  città natale, Rozel (Kansas), a Garden City,
                  dove aveva trovato lavoro come assistente
                  dell'assessore all'agricoltura della contea Finney.
                  Come c'era da aspettarsi da lui, gli occorsero solo
                  sette mesi per essere promosso, vale a dire per
                  assumere la carica del suo superiore. Gli anni nei
                  quali tenne quel posto, dal 1935 al 1939, furono i
                  più aridi, i più disastrosi che
                  quella regione avesse conosciuto da quando vi si
                  erano stabiliti i bianchi, e Herbert Clutter,
                  dotato com'era di una mente capace di tener dietro
                  ai più moderni ed efficienti sistemi
                  agricoli, possedeva tutte le qualità
                  necessarie per fungere da intermediario tra il
                  governo e gli scoraggiati agricoltori questi
                  avevano molto bisogno dell'ottimismo e
                  dell'aggiornata istruzione di un simpatico
                  giovanotto sicuro, a quanto pareva, del fatto suo.
                  Tuttavia non era quello il compito che lui
                  desiderava svolgere; figlio di contadini fin
                  dall'inizio aveva mirato a mandar avanti una
                  proprietà sua. Prefiggendosi questo, dopo
                  quattro anni diede le dimissioni dall'Assessorato
                  all'agricoltura e, sul terreno preso in affitto con
                  denaro ottenuto in prestito creò, in
                  embrione, la fattoria River Valley (nome
                  giustificato dalla presenza serpeggiante del fiume
                  Arkansas ma non certo dalla conformazione del
                  terreno). Un'impresa che parecchi conservatori
                  della contea Finney considerarono con divertita
                  incredulità: gente dalle idee antiquate, si
                  era divertita a punzecchiare il giovane assessore a
                  proposito delle sue nozioni universitarie:
                  «Naturale Herb. Tu sai sempre qual è la
                  cosa migliore da fare sul terreno altrui. Pianta
                  questo. Disponi quest'altro a terrazza. Ma forse
                  parleresti diversamente se il podere fosse
                  tuo». Si sbagliavano: gli esperimenti del
                  nuovo venuto ebbero successo, anche perché,
                  nei primi anni, lavorava diciotto ore al giorno. Ci
                  furono alcuni rovesci: due volte il raccolto di
                  grano andò in malora, e un inverno diverse
                  centinaia di pecore morirono in una bufera di neve;
                  ma in capo a dieci anni il dominio di Clutter
                  estendeva su ottocento acri di sua proprietà
                  e altri tremila coltivati da fittavolo: ed era,
                  come ammettevano i suoi colleghi, «una bella
                  distesa». Frumento, sorgo, mais, foraggi:
                  questi erano i prodotti dai quali dipendeva la
                  prosperità della fattoria. Anche gli animali
                  erano importanti: pecore e soprattutto bovini. Una
                  mandria di parecchie centinaia di Hereford portava
                  il marchio di Clutter. Non lo si sarebbe
                  però sospettato, a giudicare dai pochi capi
                  di bestiame rinchiusi in quel recinto, che era
                  riservato ai manzi malati, a qualche mucca da
                  latte, ai gatti di Nancy e a Babe, la beniamina
                  della famiglia, una vecchia cavalla da tiro,
                  grassa, che non si rifiutava mai di trotterellare
                  pesantemente con tre o quattro bambini a cavalcioni
                  della larga groppa.Ora,
                  Clutter offrì a Babe il torsolo della mela,
                  e augurò il buongiorno a un uomo che
                  rastrellava lo strame all'interno del recinto,
                  Alfred Stoecklein, l'unico salariato residente alla
                  fattoria. Con la moglie e tre figli abitava in una
                  casetta a meno di duecento metri dalla casa
                  principale; a parte loro, i Clutter non avevano
                  vicini nel raggio di mezzo miglio. Stoecklein, un
                  uomo dalla faccia lunga, con lunghi denti scuri,
                  domandò: «C'è qualche lavoro
                  urgente da fare oggi? Abbiamo una figlia malata. La
                  piccola. Mia moglie e io siamo stati in piedi quasi
                  tutta la notte. Bisognerà portarla dal
                  dottore». E Clutter, esprimendo la sua
                  comprensione, gli rispose di prendersi senz'altro
                  la mattinata libera; e se c'era qualcosa -
                  soggiunse - in cui lui o sua moglie potevano essere
                  d'aiuto, glielo facessero sapere. Poi, preceduto
                  dal cane che correva, si diresse a sud verso i
                  campi, fulvi di stoppie e rilucenti al sole dopo la
                  mietitura.In
                  quella direzione c'era il fiume e vicino all'argine
                  sorgeva un boschetto di alberi da frutta: peschi,
                  peri, ciliegi e meli. Cinquantanni fa, a quel che
                  ricordavano i vecchi, un boscaiolo avrebbe
                  impiegato dieci minuti ad abbattere tutti gli
                  alberi del Kansas occidentale. Anche oggi qui si
                  piantano comunemente solo pioppi neri e olmi
                  cinesi, piante perenni e indifferenti alla sete
                  come i cactus. Tuttavia, come spesso osservava
                  Clutter, «basterebbero due centimetri di
                  pioggia in più e questa regione sarebbe un
                  paradiso terrestre». Quel piccolo frutteto in
                  riva al fiume rappresentava il suo tentativo di
                  dare vita, pioggia o no, a un pezzetto di quel
                  verde Eden profumato dai meli, che lui sognava. Sua
                  moglie aveva detto una volta: «Mio marito
                  tiene più a quegli alberi che ai suoi
                  figli», e a Holcomb tutti ricordavano il
                  giorno in cui un piccolo aereo in avaria si era
                  abbattuto sui peschi. «Herb era fuori di
                  sé! Accidenti, l'elica non aveva ancora
                  smesso di girare e lui aveva già citato per
                  danni il pilota.»Attraversato
                  il frutteto, Clutter proseguì lungo il
                  fiume, ora in fase di magra e punteggiato di
                  isolette, piccole spiagge di soffice sabbia in
                  mezzo alla corrente, dove - nelle calde giornate
                  festive di un tempo ormai lontano, quando ancora
                  Bonnie «se la sentiva» - si portavano i
                  cestini da picnic e si trascorrevano tranquilli,
                  familiari pomeriggi in attesa di uno strappo
                  all'estremità della lenza. Raramente Clutter
                  incontrava degli estranei nella sua tenuta: a due
                  chilometri dall'autostrada, raggiungibile solo per
                  stradine secondarie, non era un luogo dove si
                  potesse capitare per caso. Ora, improvvisamente,
                  apparve un folto gruppo di persone e Teddy, il
                  cane, subito si slanciò, abbaiando
                  minaccioso. Ma Teddy era una strana bestia. Per
                  quanto facesse buona guardia, sempre vigile, sempre
                  pronto a far baccano, il suo coraggio aveva una
                  pecca: bastava che vedesse un fucile, come ora -
                  dato che gli intrusi erano armati - e abbassava la
                  testa, la coda tra le gambe. Nessuno capiva
                  perché, visto che nessuno conosceva il suo
                  passato, tranne che era un randagio che Kenyon
                  aveva adottato anni fa. I forestieri risultarono
                  essere cacciatori di fagiani venuti dall'Oklahoma.
                  Nel Kansas la stagione dei fagiani, celebre
                  ricorrenza di novembre, richiama orde di sportivi
                  dagli stati vicini, e dalla settimana precedente
                  interi reggimenti in berretto scozzese
                  scorrazzavano per i campi autunnali, facendo alzare
                  e abbattendo con scariche di pallini grandi stormi
                  color rame di quegli uccelli ingrassati dalle
                  granaglie. È usanza che i relatori, qualora
                  non siano stati invitati, paghino un tanto al
                  proprietario per poter inseguire la selvaggina sul
                  suo terreno; ma quando quei cacciatori
                  dell'Oklahoma gli offrirono un tributo, il signor
                  Clutter sorrise. «Non sono povero come sembro.
                  Andate pure, prendete tutta la selvaggina che
                  volete» disse. Poi, portata una mano alla
                  visiera del berretto, tornò verso casa,
                  tornò alla sua giornata di lavoro, senza
                  sapere che sarebbe stata l'ultima.   
                  
                  
DA
                  RITRATTI E APPUNTI DI
                  VIAGGIO Traduzione
                  di Pier Francesco Paolini   
                  
                  
IL
                  DUCA NEL SUO DOMINIO Le
                  ragazze giapponesi sono, perlopiù,
                  ridarelle. La camerierina al quarto piano
                  dell'albergo Miyako a Kyoto non faceva eccezione.
                  L'ilarità, insieme con i tentativi di
                  reprimerla, le arrossava le guance (a differenza
                  della cinese, la carnagione giapponese è
                  spesso colorita) e scuoteva la sua figura
                  grassottella, in kimono a peonie e pansé.
                  Non v'era alcun motivo particolare per tanta
                  allegria: la ridarella giapponese nasce senza
                  motivi apparenti. Le avevo semplicemente chiesto di
                  indicarmi una certa stanza. «Siete venuto
                  vedere Marron?» chiese quella, mostrando - al
                  pari di tanti suoi compatrioti - una chiostra di
                  denti d'oro. Poi, a passettini schettinanti -
                  quello zampettio cui è costretto chi indossa
                  un kimono - mi fece strada per un dedalo di
                  corridoi, promettendo: «Busso io [per]
                  voi Marron». I giapponesi non hanno la
                  «l» e, per Marron, lei intendeva Marlon:
                  Marlon Brando, l'attore americano che si trovava a
                  Kyoto in quel periodo per gli esterni del film
                  Sayonara, una coproduzione Warner Brothers-William
                  Goetz tratta dal romanzo di James
                  Michener.La
                  mia guida bussò alla porta di Brando e
                  gridò: «Marron!», poi
                  scappò via - e le maniche del suo kimono
                  sbattevano come le ali di un parrocchetto. Ad
                  aprire la porta venne un'altra cameriera del
                  Miyako, delicata come una bambola, la quale a sua
                  volta fu presa da un accesso di isterica euforia.
                  Da una stanza interna, Brando gridò:
                  «Che c'è, tesoro?». Ma la ragazza
                  - con gli occhi strizzati dall'allegria e le manine
                  paffute incastrate tra i denti, come quelle di una
                  bimba che strilla - non fu in grado di rispondere.
                  «Ehi, tesoro, ma che c'è?»
                  tornò a chiedere Brando, e comparve sulla
                  soglia. «Oh, salve» disse appena mi vide.
                  «Sono le sette, eh?» Avevamo appuntamento
                  per cenare insieme alle sette e io ero in ritardo
                  di quasi venti minuti. «Bene, togliti le
                  scarpe ed entra, accomodati. Ho quasi finito. E,
                  senti, tesoro» disse alla cameriera,
                  «portaci del ghiaccio.» Poi, guardando la
                  ragazza che partiva di volata, portò le mani
                  ai fianchi e dichiarò sorridendo: «Mi
                  fanno morire. Davvero, mi fanno morire. I
                  ragazzini, anche. Non li trovi magnifici... non li
                  ami anche tu... i ragazzini
                  giapponesi?».Il
                  Miyako, dove alloggiava circa la metà della
                  troupe, è il più prestigioso fra gli
                  alberghi in stile cosiddetto occidentale di Kyoto:
                  le sue stanze sono perlopiù arredate con
                  robusti, ancorché ordinari e ingombranti,
                  mobili europei: letti, tavoli, sedie, divani. Ma,
                  per uso dei clienti giapponesi che preferiscono il
                  loro décor pur ambendo al prestigio di
                  alloggiare al Miyako, nonché di quei
                  forestieri che pretendono un'atmosfera locale
                  autentica ma non sono inclini a sopportare i rigori
                  di una fredda, reale locanda nipponica, al Miyako
                  trovi anche appartamenti arredati alla maniera
                  tradizionale: era in una di codeste suite che
                  Marlon aveva scelto di installarsi. Disponeva di
                  due stanze, un bagno e un terrazzino a vetrata.
                  Senza l'ingombro delle masserizie personali di
                  Brando, le stanze sarebbero state illustrazioni da
                  manuale della propensione giapponese per
                  l'ostentata nudità degli ambienti. Il
                  pavimento era ricoperto da tatami, stuoie di colore
                  fulvo, e cosparso qua e là di cuscini di
                  seta grezza; una pergamena raffigurante pesci rossi
                  in una vasca pendeva in una nicchia, nella quale si
                  trovava un vaso pieno di alti gigli e foglie rosse,
                  sistemati alla meglio. La più grande delle
                  due stanze - quella interna - che l'ospite usava a
                  mo' di ufficio e dove, anche, mangiava e dormiva,
                  conteneva un lungo e basso tavolino laccato e un
                  giaciglio. In quelle stanze, i divergenti concetti
                  che dell'arredamento hanno giapponesi e occidentali
                  (gli uni miranti a stupire con la rigorosa mancanza
                  di ogni ostentazione, gli altri intenti all'esatto
                  opposto) potevano entrambi osservarsi, tanto
                  più che Brando non sembrava propenso a
                  servirsi degli sgabuzzini situati al riparo di
                  porte di carta scorrevoli. Tutto ciò che
                  possedeva, avresti detto, era allo scoperto.
                  Camicie da inviare in lavanderia; calzini anche;
                  scarpe e maglioni e giacche e cappelli e berretti e
                  cravatte... sparpagliati qua e là, come il
                  costume di uno spaventapasseri smantellato. E poi
                  macchine fotografiche, una macchina per scrivere,
                  un registratore, una stufetta elettrica che
                  funzionava con soffocante competenza. Da ogni
                  parte, frutti morsicati per metà; una
                  scatola di fragole, le famose fragole giapponesi,
                  grosse come uova di gallina. E poi libri, una
                  caterva di libri, non di amena lettura
                  perlopiù, fra cui notai The Outsider di
                  Colin Wilson e svariati testi di preghiere
                  buddiste, meditazioni zen, respirazione yoga,
                  misticismo indù... Niente romanzi.
                  Perché Brando non ne legge. Non ha mai
                  aperto un libro di narrativa - giura - dal 3 aprile
                  1924 (giorno in cui nacque a Omaha nel Nebraska) in
                  qua. Ma sebbene non gli interessi leggere opere di
                  fantasia, desidera scriverne. Il tavolinetto
                  laccato era, infatti, coperto di traboccanti
                  portacenere e pile di fogli: pagine e pagine del
                  suo più recente sforzo creativo: una
                  sceneggiatura cinematografica dal titolo A Burst of
                  Vermilion.Evidentemente,
                  Brando stava lavorando a questo copione al momento
                  del mio arrivo. Quando entrai nella stanza, un uomo
                  piuttosto giovane, dall'aria dimessa, che
                  chiamerò Murray e che mi era stato in
                  precedenza indicato come «quello che da una
                  mano a Brando a scrivere», stava seduto alla
                  turca sulla stuoia, scartabellando il manoscritto
                  di A Burst of Vermilion. Soppesandone in mano
                  alcune pagine, costui disse: «Senti, Mar.
                  È meglio che gli do una scorsa giù in
                  camera mia... e magari ci si rivede più
                  tardi, eh? Diciamo verso le dieci e
                  mezza>.Brando
                  si accigliò, come se non gli sorridesse
                  l'idea di riprendere il lavoro a tarda ora.
                  Leggermente indisposto (come appresi in seguito),
                  aveva trascorso tutto il 'giorno' in camera, e
                  adesso sembrava irrequieto, «Cose quella
                  roba?» domandò, indicando un paio di
                  pacchetti oblunghi che si trovavano sul tavolo
                  laccato, frammezzo agli avanzi
                  letterariMurray
                  si strinse nelle spalle. Li aveva portati la
                  cameriera: altro, lui non sapeva. «Gli mandano
                  regali di continuo, a Mar» disse rivolto a me,
                  «Spesso neppure lo sappiamo, chi li manda.
                  Vero, Mar?»«Eh
                  sì» disse Brando, dandosi ad aprire i
                  regali, che, al pari di gran pane dei pacchetti
                  giapponesi- anche acquisti da nulla in negozi senza
                  pretese - erano magnificamente confezionati. Uno
                  conteneva dolcetti, l'altro supplì di riso
                  in bianco - che si rivelarono duri come cemento
                  sebbene sembrassero soffici come batuffoli di nube.
                  Non v'era alcun biglietto, atto a identificare i
                  donatori, in nessuno dei due. «Come ti rigiri,
                  c'è qualche giapponese che ti rifila un
                  regalo. Vanno matti per fare regali»
                  osservò Brando. Sgranocchiando un
                  supplì con atletiche mandibole, passò
                  le scatole a Murray e a me.Murray
                  scosse la testa. Gli premeva solo di ottenere da
                  Brando la promessa di rivedersi alle dieci e mezza.
                  «Dammi un colpo di telefono verso
                  quell'ora» gli disse Brando, alfine.
                  «Vediamo come siamo messi.»Murray,
                  a quel che sapevo, era solo un accolito di quella
                  cui si alludeva, nell'ambiente di Sayonara, come la
                  «ghenga di Brando». Oltre all'assistente
                  letterario, la ghenga comprendeva: Marlon Brando
                  senior, che funge da manager del figlio; una
                  graziosa segretaria bruna, miss Levin; e il
                  truccatore privato dì Brando. Le spese a
                  viaggio - e di sussistenza, in esterni - di questo
                  entourage erano, contrattualmente, a carico della
                  Warner Brothers. Contrariamente al mito, i
                  produttori di solito non sono così di manica
                  larga, finanziariamente. Un uomo della Warner, da
                  me successivamente interpellato, mi spiegò
                  il motivo di tanta accondiscendenza con Brando.
                  «Di solito» mi disse, «non ci
                  staremmo. Sapessi quante esigenze ha! Solo che,
                  vedi, per questo film ci voleva una grossa star.
                  È l'unica cosa che conta realmente, al
                  botteghino.»In
                  seno alla troupe c'erano alcuni che si lamentavano
                  perché la cerchia protettiva dei suoi intimi
                  impediva loro di «avvicinare Brando e arrivare
                  a conoscerlo meglio» come avrebbero
                  desiderato. Brando si trovava in Giappone da oltre
                  un mese e, durante questo periodo, si era
                  comportato sul set come un giovanotto straccamente
                  dignitoso, in apparenza affabile, sempre pronto a
                  collaborare con i colleghi, a incoraggiarli persino
                  - specie gli attori - e, tuttavia, nel complesso
                  non era socialmente disponibile; preferiva, durante
                  i tediosi intervalli fra una scena e l'altra,
                  starsene appartato a leggere filosofia o a
                  scribacchiare su un quaderno di scuola. Al termine
                  della giornata di lavoro, anziché accettare
                  l'invito dei colleghi a una bevuta in compagnia, a
                  una cenetta a base di pesce crudo al ristorante, a
                  un giro nel quartiere delle gheisce, anziché
                  aggregarsi alla comitiva e partecipare a quello
                  spirito di festa in famiglia che, in teoria, si
                  instaura quando i cineasti lavorano in esterni,
                  lui, di solito, rientrava in albergo e ci restava.
                  Poiché i più ferventi ammiratori dei
                  divi del cinema sono quelli che nel cinema lavorano
                  essi stessi, Brando era oggetto di enorme interesse
                  all'interno della troupe di Sayonara. E tanto
                  più lo era, in quanto quel suo atteggiamento
                  di cordiale distanza, scontrandosi con la loro
                  curiosità, produceva malinconia e
                  frustrazione. Persino il regista, Joshua Logan,
                  dopo aver lavorato con Brando per un paio di
                  settimane, fu indotto a dire: «Marlon è
                  la persona più affascinante che ho
                  incontrato, dopo la Garbo. Un genio. Ma non lo so
                  mica, com'è fatto. Non so nulla, di
                  lui».La
                  cameriera era rientrata nella stanza del divo, e
                  Murray, uscendo, per poco non inciampava nello
                  strascico del suo kimono. La ragazza, deposta una
                  ciotola di cubetti di ghiaccio, raggiante, ebbe un
                  tale slancio che i suoi piedini, simili a zoccoli
                  nei bianchi calzini con l'alluce diviso dagli altri
                  diti, scalpitarono come quelli di un puledro che si
                  impenna. Annunciò: «Torta di mere!
                  Stasera, in menù, torta di
                  mere!».Brando
                  gemette: «Torta di mele. Ci mancava anche
                  questa!». Sdraiatosi sul pavimento, si
                  slacciò la cinghia che gli stringeva troppo
                  la pancia prominente. «Dovrei stare a dieta,
                  dovrei. Ma le uniche cose di cui vado ghiotto sono
                  le torte, di mele o di quel che vi pare.» Sei
                  settimane prima, in California, Logan gli aveva
                  detto che doveva dimagrire di sei chili per quel
                  ruolo in Sayonara; e quando arrivò a Kyoto,
                  Brando era riuscito a smaltirne sette. Da quando
                  era in Giappone, però, con la
                  complicità non solo della torta di mele
                  all'americana ma anche della cucina giapponese - in
                  cui deliziosamente predominano i dolci, gli amidi,
                  il fritto - non solo aveva recuperato i chili
                  perduti ma era aumentato di altrettanti. Ora,
                  allentatasi ancora la cinta e massaggiandosi
                  pensoso l'addome, diede una scorsa al menu, che
                  offriva una vasta scelta di specialità
                  occidentali, e dopo aver rammentato a se stesso:
                  «Devo assolutamente dimagrire»
                  ordinò una minestra, bistecca con patate
                  fritte, tre&emdash;contorni di verdure, uno sfizio
                  di spaghetti, panini e burro, una bottiglia di
                  sakè, formaggio e cracker. «E torta di
                  mere, Marron?» Marlon sospirò.
                  «Con gelato, tesoro.» Sebbene non sia
                  astemio, Marlon Brando ci va leggero con il vino e
                  gli alcolici. Mentre si aspettava che la cena ci
                  venisse portata in camera, mi offrì
                  un'abbondante vodka al ghiaccio ma, per sé,
                  ne versò solo un sorsetto. Tornato a
                  sdraiarsi sulla stuoia, la testa abbandonata su un
                  cuscino, socchiuse gli occhi, poi li chiuse. Fu
                  come se si fosse appisolato e si destasse, di
                  soprassalto, da un sogno inquietante. Batté
                  le palpebre... e, quando parlò, la sua voce
                  - una voce pacata, in certo qual modo coltivata,
                  garbata, e tuttavia sorprendentemente
                  adolescenziale, una voce che aveva un non so che di
                  querulo, inquisitivo, fanciullesco - parve
                  provenire da una sonnolenta lontananza.«Gli
                  ultimi otto, nove anni della mia vita sono stati un
                  pastrocchio» disse. «Forse questi ultimi
                  due sono andati un po' meglio. Un po' meno in balia
                  dei flutti. Sei mai stato in analisi? A me, da
                  principio, metteva paura. Temevo che potesse
                  distruggere, in me, quell'impulso che mi rendeva
                  creativo, artista. Una persona ipersensibile riceve
                  cinquanta impressioni laddove un'altra può
                  riceverne solo sei, sette. Le persone molto
                  sensibili sono estremamente vulnerabili. Facilmente
                  vengono ferite e violentate proprio perché
                  sono sensibili. Più sei sensibile più
                  sei certo che verrai brutalizzato, che ti
                  attaccheranno la rogna. Non ti evolvi. Non ti
                  permetti mai di sentire alcunché,
                  perché senti sempre troppo. L'analisi aiuta.
                  Me, mi ha aiutato. Ma in questi ultimi otto, nove
                  anni sono stato lo stesso piuttosto confuso, un bel
                  po' incasinato...»La
                  voce seguitò, come se parlasse per udire se
                  stessa: effetto, questo, che l'eloquio di Brando
                  spesso produce, poiché, al pari di tanti che
                  sono intensamente pieni di sé, in sé
                  assorti, lui è un grande monologatore...
                  Cosa che riconosce e della quale offre una
                  spiegazione tutta sua.«Quelli
                  che mi circondano non dicono mai nulla» dice,
                  «Sembrerebbe che vogliano soltanto ascoltare
                  ciò che ho da dire io. Ecco perché
                  sono sempre io a parlare.» A guardarlo
                  così, con gli occhi chiusi, la faccia senza
                  rughe bianca sotto la luce che piove dall'alto,
                  ebbi la sensazione di rivivere il nostro primo
                  incontro, nel 1947... 2
                  1 2 ...Mi
                  appartai sul terrazzino, affinché Brando e
                  la signorina Taka seguitassero a parlare in
                  libertà. Sotto di me il giardino
                  dell'albergo, piante e pietre disposte in modo
                  semplicissimo e soigné, fluttuava nella
                  nebbiolina che si leva dai canali di Kyoto:
                  perché questa è una città
                  acquatica, attraversata in lungo e in largo da
                  corsi d'acqua poco profondi e punteggiata da
                  laghetti cheti come serpenti acciambellati e da
                  allegre cascatelle che risuonano come il riso delle
                  fanciulle giapponesi. Un tempo capitale
                  dell'impero, oggi museo culturale del paese, tanto
                  preziosa esteticamente che i bombardieri americani
                  non la molestarono affatto durante la guerra, Kyoto
                  è circondata da acque: oltre i colli che le
                  fanno corona, strade strette attraversano come
                  pontili le risaie allagate. Quella sera, nonostante
                  l'inquieta foschia, le azzurre colline circostanti
                  erano discernibili sullo sfondo della notte,
                  perché il cielo nelle alte sfere era
                  limpido, trapunto di stelle, con uno spicchio di
                  luna. Si vedevano alcune parti della città.
                  Nei pressi c'era un quartiere di case dai tetti
                  ricurvi, dalle facciate aristocratiche, graziose e
                  tuttavia austere, nordiche, segrete come i palazzi
                  di Siena. Quelle case facevano apparire più
                  brillanti i lampioni delle strade e le lanterne
                  che, dalle porte d'ingresso, diffondevano colori da
                  kimono: rosa e arancione, giallo limone e rosso.
                  Più oltre, un quartiere moderno: ampie
                  strade, insegne al neon, un grattacielo di cemento
                  armato che appariva meno duraturo, più
                  deperibile delle dimore di carta velina che lo
                  circondavano.Brando
                  aveva terminato la telefonata. Avvicinandosi al
                  terrazzino, guardò me che ammiravo il
                  panorama. Mi domandò: «Sei stato a
                  Nara? È molto
                  interessante».Sì,
                  c'ero stato, e certo lo era. L'«antica Nara
                  dei vecchi tempi» - come il nostro cicerone la
                  chiamava - è a un'ora di macchina da Kyoto:
                  una città da cartolina incastonata in un
                  parco fiabesco. Si ha, lì, l'apoteosi del
                  genio giapponese capace di ipnotizzare la natura e
                  indurla a comportarsi in modo innaturale. Il grande
                  parco, tempestato di santuari, è un enorme
                  salone verde dove pascolano pecore, e branchi di
                  cervi addomesticati vagolano sotto pini ben potati
                  e, al pari dei piccioni veneziani, posano
                  volentieri con le coppie in luna di miele; dove
                  ragazzini tirano la barba a capre remissive; dove
                  vegliardi in cappa nera bordata di visone siedono
                  alla turca in riva a laghetti trapunti di loto e,
                  battendo le mani, richiamano branchi di pesci,
                  carpe screziate e scarlatte, grosse come trote, che
                  si lasciano accarezzare sul muso e poi s'ingozzano
                  delle briciole che i vegliardi gettano loro. Che
                  quell'Eden senza serpente avesse tanto affascinato
                  Brando era un po' sorprendente. Dato il gusto che
                  aveva per le cose fuori ordinanza e non troppo
                  agghindate avresti detto che non fosse il tipo da
                  estasiarsi per un paesaggio così ordinato,
                  così artefatto e soggiogato. POI, quasi
                  fosse a proposito di Nara, egli disse: «Sai,
                  mi piacerebbe sposarmi. Vorrei avere dei
                  figli». Non era forse, il non sequitur che
                  sembrava: la compostezza e la dolce
                  tranquillità di Nara poteva benissimo, per
                  associazione di idee, far pensare al matrimonio, a
                  una famiglia. «Dell'amore non puoi fare a
                  meno» disse. «Non c'è altra
                  ragione per vivere. Gli uomini non sono mica
                  diversi dai topi. Nascono per compiere la medesima
                  funzione: procreare.» («Marlon» per
                  citare il suo amico Elia Kazan, «è una
                  delle persone più delicate che io conosca.
                  Forse la più dolce di tutte.» Queste
                  parole di Kazan acquistavano un significato quando
                  osservavi Brando in compagnia di bambini. Per lui,
                  i giapponesi dell'ultima generazione - amabili,
                  vivaci ragazzini dalle guance di ciliegia, gambe
                  storte e ispidi ciuffi di capelli - erano sempre i
                  benvenuti intorno al set di Sayonara. Lui era molto
                  gentile coi bambini, a suo agio, giocherellone,
                  comprensivo... ben diverso dal solito Brando che ti
                  guarda con commiserazione, che dispensa
                  caritatevoli sorrisi agli adulti.)Accarezzando
                  il dono floreale di Miiko Taka, seguitò:
                  «Quale altro motivo c'è, per vivere? A
                  parte l'amore, cioè? Questo è sempre
                  stato il guaio principale, con me: la mia
                  incapacità d'amare chicchessia».
                  Rientrò nella stanza illuminata e si mise a
                  cercare qualcosa... una sigaretta? Raccattò
                  un pacchetto. Era vuoto. Si diede a tastare le
                  tasche di calzoni e giacche sparse qua e là.
                  Il guardaroba di Brando non è più
                  quello d'un teppista. In fatto di eleganza è
                  progredito - o regredito - verso uno stile
                  piuttosto retro: lo chic dei fuorilegge e degli
                  elegantoni all'epoca del proibizionismo: - cappello
                  nero di feltro, abito a rigoni, camicia scura alla
                  George Raft e cravatta pastello. Trovate le
                  sigarette, Brando tornò a sdraiarsi sul
                  giaciglio, fumando. Il sudore gli imperlava il
                  labbro. Nella stanza faceva un caldo tropicale: ci
                  si sarebbero potute coltivare orchidee. Al piano di
                  sopra i coniugi Buttons avevano ripreso il loro
                  trapestio, ma Brando sembrava aver perso interesse
                  per loro. Stava meditando. Poi, seguendo il filo
                  dei suoi pensieri, disse: «Non ci riesco. Ad
                  amare nessuno. Non riesco a fidarmi tanto di
                  qualcuno per fargli dono di me stesso. Ma sono
                  pronto. Lo desidero. E potrei. Sono quasi lì
                  lì. Devo proprio...». Aguzzava gli
                  occhi ma il suo tono, tutt'altro che intenso, era
                  quasi indifferente, di un'opaca obiettività,
                  come se stesse ragionando intorno a un personaggio
                  di commedia... un ruolo che non avesse alcuna
                  voglia di interpretare ma cui fosse legato per
                  contratto. «Perché... insomma, che
                  cos'altro c'è? È intorno a questo che
                  ruota tutto. Amare qualcuno.»(All'epoca
                  Brando era scapolo, ovviamente. Era stato fidanzato
                  un paio di volte, quasi ufficialmente. Con
                  l'aspirante scrittrice e attrice, a nome Blossom
                  Plumb; poi di nuovo - con maggior attenzione da
                  parte del pubblico - con la figlia di un pescatore
                  francese, Josanhe Mariani-Bérenger. In
                  nessuno dei due casi, tuttavia, si arrivò
                  alle pubblicazioni matrimoniali. Poi però il
                  mese scorso, nel corso di una improvvisa e alquanto
                  segreta cerimonia a Eagle Rock, in California,
                  Brando ha sposato una giovane attrice di pelle
                  bruna, avvolta in sari, nota come Anna Kashfi. Le
                  cronache dei giornali sono discordi: c'è chi
                  la dice di pura stirpe indiana, buddista, nativa di
                  Darjeeling nel Bengala Occidentale, mentre secondo
                  altri sarebbe nata a Calcutta da genitori inglesi,
                  a nome O'Callaghan, attualmente residenti nel
                  Galles. A tutt'oggi, Brando non ha fatto nulla per
                  chiarire il mistero.)«Comunque
                  ho degli amici. No. No, non ne ho» soggiunse,
                  tirando verbalmente di boxe con l'ombra. «Ma
                  sì, certo, ne ho» decise, detergendosi
                  il sudore dal labbro. «Ho un gran bel po' di
                  amici. Con alcuni di loro mi apro. Gli racconto
                  tutto. Bisogna pur fidarsi di qualcuno. Be', non
                  fino in fondo. Non c'è nessuno su cui faccio
                  pieno affidamento, da cui mi lascio
                  guidare.»Gli
                  chiedo se questo vale anche per i consulenti
                  professionali. Mi risulta, per esempio, che Brando
                  fa molto assegnamento sui consigli di Jay Kanter,
                  un giovane esponente dell'agenzia che cura i suoi
                  interessi, la Music Corporation of America.
                  «Oh, Jay...» dice Brando, lentamente.
                  «Jay fa come gli dico io di fare. Sono solo a
                  tal punto.»Squilla
                  il telefono. A quanto pare è trascorsa
                  un'ora, ed è di nuovo Murray.
                  «Sì, stiamo ancora chiacchierando»
                  gli dice Brando. «Senti, ti richiamo io... Oh,
                  fra un'oretta, circa. Ti trovo in camera tua?...
                  D'accordo.»Riagganciò
                  e disse: «Un bravo ragazzo. Vuole fare il
                  regista... da grande. Ma ti stavo dicendo qualcosa.
                  Parlavamo di amici. Lo sai, come mi faccio un
                  amico?». Si sporse un po' verso di me, come se
                  avesse da confidarmi un segreto divertente.
                  «Ci vado molto cauto. Ci giro intorno intorno.
                  Poi, un po' alla volta, mi avvicino. Poi allungo
                  una mano e li tocco... oh, piano piano...» Le
                  sue dita protese, muovendosi come antenne
                  d'insetto, mi sfiorarono il braccio.
                  «Poi» disse, un occhio semichiuso,
                  l'altro magneticamente sgranato, lucente, alla
                  Rasputin, «mi tiro indietro. Aspetto un po'.
                  Li lascio stare in forse. Al momento giusto mi
                  faccio di nuovo avanti. Li tocco. Gli giro
                  intorno.» Adesso la sua mano, semichiusa,
                  descrive un cerchio, come se stringesse una corda
                  con la quale stesse legando un'invisibile presenza.
                  «Loro non sanno cosa sta accadendo. Prima che
                  se ne rendano conto, sono presi, avvinti, avvolti.
                  Li ho in mano. E poi qualche volta,
                  improvvisamente, sono io tutto quello che hanno
                  loro. Molti di loro, vedi, sono persone che non si
                  sono mai inserite da nessuna parte: non sono
                  accettate, sono state ferite, menomate in un modo o
                  nell'altro. Ma io intendo aiutarle, e loro possono
                  puntare su di me: io sono il duca. Una sorta di
                  duca nel mio dominio.»(Uno
                  che in passato era stato vassallo nei possedimenti
                  ducali, descrivendone il signorotto e i suoi
                  sudditi, ebbe a dirmi di recente: «È
                  come se Brando abitasse in una casa le cui porte
                  non sono mai chiuse a chiave. Quando viveva a New
                  York, la sua porta era sempre aperta. Chiunque
                  poteva entrare - che Marlon fosse o non fosse in
                  casa e tutti quanti entravano. Tu arrivavi, e ci
                  trovavi una decina, una quindicina di persone che
                  giravano qua e là. Come fossero nella sala
                  d'aspetto di una stazione. Era strano, nessuno
                  sembrava conoscere nessuno. Certuni dormivano in
                  poltrona. Certi altri leggevano. Una ragazza
                  danzava per suo conto. Un'altra si laccava le
                  unghie. Un comico provava il suo numero da cabaret.
                  In un angolo, c'era magari qualcuno che giocava a
                  scacchi. E non mancava mai chi suonava il tamburo:
                  bam, bum, bam, bum bum! Ma non si beveva, no, non
                  si beveva... niente alcolici di sorta. Di tanto in
                  tanto, qualcuno diceva: "Andiamo giù al bar,
                  qui di sotto, a farci un gelato". Ebbene, era
                  Marlon il loro unico comune denominatore, il solo
                  anello che li connettesse. Lui si aggirava qua e
                  là, nella stanza, prendeva in disparte ora
                  questo ora quello, e parlava con loro a tu per tu.
                  Non so se l'hai notato: Marlon non parla mai con
                  due persone simultaneamente, non gli riesce, non
                  gli va. Non prende mai parte a una conversazione di
                  gruppo. Deve sempre essere un colloquio intimo,
                  tète-à-tète - una persona alla
                  volta. Il che si rende necessario, suppongo, se usi
                  lo stesso tipo di charme con ciascuno. Ma anche
                  quando lo sai, che è così che si
                  comporta con tutti, non importa. Poiché
                  quando arriva il tuo turno, lui ti da la sensazione
                  che sei tu l'unica persona presente nella stanza.
                  Nel mondo. Ti fa sentire che sei sotto la sua
                  protezione e che i tuoi guai, i tuoi stati d'animo,
                  lo coinvolgono, gli stanno a cuore. Devi credergli
                  per forza. Più di chiunque altro ch'io
                  conosca, lui irradia sincerità. Dopo, puoi
                  domandarti: "Stava recitando?". In tal caso, a che
                  prò? Cos'hai, tu, da dargli? Niente, tranne
                  - ed è questo il punto - tranne l'affetto.
                  Un affetto che, a lui, conferisce autorità
                  su di te. Certe volte me lo figuro, Marlon, come un
                  orfanello che, divenuto grande, cerca di risarcirsi
                  divenendo l'affabile direttore di un grande
                  orfanotrofio., anche al di fuori di questo
                  istituto, lui vuole che tutti lo amino».
                  Sebbene esistano decine di testimoni che potrebbero
                  contraddire tranquillamente quest'ultima
                  asserzione, Brando stesso ha fama di aver detto una
                  volta a un intervistatore: «Posso entrare in
                  una sala dove ci sono cento persone... e se in
                  mezzo a loro ce n'è una sola che non mi
                  vuole bene, me ne accorgo, e devo uscire di
                  là». A mo' di nota a pie di pagina, va
                  aggiunto che, in seno alla cricca da lui
                  presieduta, Brando è considerato sia un
                  padre intellettuale, sia un emotivo fratello
                  maggiore. La persona che forse meglio lo conosce,
                  il comico Wally Cox, dichiara che lui è
                  «un filosofo creativo, un profondissimo
                  pensatore». E aggiunge: «È una
                  vera e propria forza liberatrice, per i suoi
                  amici»)Brando
                  sbadigliò. Si era fatto tardi: l'una e un
                  quarto. Fra cinque ore - lavato, sbarbato e fatta
                  colazione - doveva trovarsi sul set, dove un
                  truccatore gli avrebbe colorito da mulatto il viso
                  pallido, come il technicolor richiede.«Fumiamoci
                  un'altra sigaretta» disse, quando io feci per
                  infilarmi il cappotto.«Non
                  sarebbe ora che andassi a letto?»«Questo
                  significa solo doversi poi alzare. Perlopiù,
                  la mattina non lo so mica, perché mi alzo.
                  Non mi va di affrontare la nuova giornata.»
                  Guardò il telefono, come se ricordasse la
                  promessa fatta a Murray di chiamarlo.
                  «Comunque, posso anche lavorare più
                  tardi. Vuoi qualcosa da bere?»Fuori,
                  le stelle si erano spente e si era messo a
                  piovigginare, quindi l'idea di un cicchetto mi
                  sorrideva, specie perché mi toccava tornare
                  a piedi al mio albergo, lontano un miglio dal
                  Miyako. Mi versai della vodka. Marlon
                  declinò di farmi compagnia. Però,
                  poi, prese il mio bicchiere e ne bevve un sorso,
                  quindi all'improvviso disse, in tono disinvolto,
                  come di sottogamba, che però tradiva molto
                  sentimento: «Mia madre... Mia madre
                  andò in pezzi come un oggetto di
                  porcellana».Avevo
                  spesso udito amici di Brando dire: «Marlon
                  adorava sua madre». Ma prima della
                  première di Un tram che si chiama desiderio,
                  nel 1947, pochi - nessuno, forse - dei suoi
                  colleghi avevano mai incontrato l'uno o l'altro dei
                  suoi genitori; né sapevano alcunché
                  dei suoi trascorsi, a parte quello che lui aveva
                  scelto di raccontare. «Marlon dipingeva sempre
                  un quadro molto idillico della sua vita familiare
                  in Illinois» ebbe a dirmi uno dei suoi
                  conoscenti. «Quando apprendemmo che i suoi
                  venivano a New York per la prima del Tram, eravamo
                  tutti molto curiosi. Non sapevamo cosa aspettarci.
                  La sera del debutto, Irene Selznick diede una festa
                  al Club 21. Marlon si presentò con il padre
                  e la madre. Ebbene, non puoi immaginare due persone
                  più simpatiche. Alte, belle, affascinanti.
                  Quel che mi fece impressione - e credo stupì
                  tutti quanti - fu l'atteggiamento di Marlon nei
                  loro confronti. In loro presenza, lui non era il
                  ragazzo che conoscevamo. Era un figlio modello.
                  Reticente, rispettoso, educatissimo, premuroso...
                  da non credersi.»Nato
                  a Omaha (Nebraska) dove il padre faceva il
                  rappresentante di materiali edili, Brando - terzo
                  figlio e, unico maschio - si trasferì con la
                  famiglia, da piccolo, a Libertyville (Illinois).
                  Qui, i Brando andarono ad abitare in una zona
                  semirurale. Perlomeno, c'era abbastanza campagna
                  intorno alla loro grande casa dalla pianta
                  irregolare, per poter tenere oche e galline e
                  conigli, un cavallo, un cane danese, ventotto gatti
                  e una mucca. Mungere la mucca era, ogni giorno,
                  compito di Bud - come allora Marlon era
                  soprannominato. Pare che Bud fosse un ragazzo
                  estroverso e competitivo. Chiunque entrasse nella
                  sua orbita era sfidato a qualche gara: chi mangia
                  più svelto? chi riesce a trattenere il fiato
                  più a lungo? chi la conta più grossa?
                  E poi era un ribelle, Bud: pioggia o sole, scappava
                  di casa ogni domenica. Sia lui sia le sorelle
                  Frances e Jocelyn, erano molto attaccati alla
                  madre. Molti anni più tardi, Stella Adler,
                  insegnante di recitazione di Brando,
                  descriverà la signora Brando, morta nel
                  1954, come «una creatura bellissima,
                  celestiale, smarrita, fanciullesca». Per tutta
                  la vita, la signora Brando recitò in varie
                  compagnie di filodrammatici, e sempre avrebbe
                  aspirato a teatri più prestigiosi di quelli
                  le cui scene calcava in provincia. Tale aspirazione
                  fu di sprone ai figli. Frances si dedicò
                  alla pittura, Jocelyn al teatro: attualmente
                  è un'attrice professionista. Anche Bud aveva
                  ereditato dalla madre la passione per il teatro;
                  sennonché a diciassette anni annunciò
                  che voleva studiare da pastore protestante.
                  (Allora, come oggi, Brando era alla ricerca di una
                  fede. Come ebbe a dire uno dei suoi discepoli:
                  «Ha bisogno di trovare qualche punto fermo
                  nella vita, come pure in se stesso, qualcosa che
                  sia vero in perpetuo, qualcosa cui dedicare
                  l'intera esistenza. Niente, al di sotto di
                  ciò, può fare al caso di una
                  personalità tanto intensa».) Dissuaso
                  da quelle ambizioni ecclesiastiche, espulso da
                  scuola, escluso dal servizio militare nel 1942 per
                  via di un difetto al ginocchio, Brando fece i
                  bagagli e andò a New York. Qui Bud, il
                  grassoccio infelice adolescente dai capelli di
                  stoppa, esce di scena, e viene alla ribalta Marlon,
                  un adulto molto dotato.Brando
                  non ha dimenticato Bud. Quando parla del ragazzo
                  che era lui, il ragazzo sembra abitarlo... come se
                  ben poco avesse fatto, il tempo, per separare
                  l'uomo dal fanciullo ferito, sognatore: «Mio
                  padre ha sempre dimostrato indifferenza, verso di
                  me» dice. «Nulla di ciò che io
                  facessi suscitava il suo interesse, il suo
                  compiacimento. Adesso l'ho accettato, questo. Siamo
                  amici, adesso. Andiamo d'accordo.» Da una
                  decina d'anni, Brando padre gestisce gli affari
                  finanziari del figlio. Oltre alla Pennebaker
                  Production, di cui Brando senior è un
                  impiegato, hanno avviato insieme numerose imprese,
                  fra cui un'azienda agricola nel Nebraska, nella
                  quale Brando junior ha investito una grossa
                  porzione dei suoi guadagni. «Ma mia madre era
                  tutto per me. Un mondo intero.Io
                  ce la mettevo tutta. Certe volte tornavo a casa da
                  scuola...». Esitò, come se aspettasse
                  che io me lo raffigurassi: Bud, coi libri
                  sottobraccio, che scarpina per una strada, di
                  pomeriggio. «Ma a casa non c'era nessuno.
                  Niente nel frigorifero.» Altri fotogrammi di
                  lanterna magica: una stanza vuota, una cucina.
                  «Poi squillava il telefono. Era qualcuno che
                  chiamava da un bar. E diceva: «C'è qui
                  una signora... Dovreste venire a prenderla,»
                  All'improvviso Brando si azzittì. Nel
                  silenzio il fotogramma divenne fisso: Bud al
                  telefono. Finalmente un'altra immagine seguì
                  a quella, compiendo un balzo in avanti nel tempo.
                  Bud ha diciotto anni. E racconta: «Pensavo
                  che, se lei mi amava abbastanza, se aveva
                  abbastanza fiducia in me, pensavo, allora si
                  potrebbe stare insieme, qui a New York, Potremmo
                  abitare insieme e io mi prenderei cura di lei. In
                  seguito, questo accadde sul serio. Lei
                  lasciò mio padre e venne a stare con me, a
                  New York. Io recitavo in un teatro. Ce la mettevo
                  tutta. Ma il mio amore non era abbastanza. Lei non
                  mi voleva abbastanza bene. Tornò dal marito.
                  E poi un giorno» - la sua voce si fece ancor
                  più piatta, e, tuttavia, il timbro emotivo
                  divenne più marcato, tanto che si poteva
                  cogliere, come un suono dentro un suono, un
                  accorato sgomento - «non me n'importava
                  più. Lei era là... in una stanza... e
                  si aggrappava a me. E io la lasciai cadere.
                  Perché non ne potevo più... Vederla
                  andare in pezzi, di fronte a me, come un oggetto di
                  porcellana. Le passai sopra, la scavalcai e via, me
                  ne andai, uscii dalla stanza. Ero indifferente. Da
                  allora, sono sempre stato
                  indifferente».Il
                  telefono stava squillando. Quegli squilli parvero
                  destarlo dal dormiveglia. Si guardò intorno,
                  come se si fosse svegliato in una stanza
                  sconosciuta, poi fece una smorfia, un abbozzo di
                  sorriso e sussurrò: «Accidenti,
                  accidenti...» mentre allungava una mano verso
                  il telefono. «Mi dispiace» disse a
                  Murray, «Stavo giusto per telefonarti... No,
                  se ne sta andando adesso. Ma, senti, lasciamo
                  perdere per stasera. È l'una passata. Quasi
                  le due... Sì... Senz'altro. Domani.»
                  Frattanto, io mi ero messo il cappotto e aspettavo
                  per dargli la buonanotte. Brando mi
                  accompagnò alla porta, dove mi rimisi le
                  scarpe. «Allora, sayonara» mi disse
                  scherzosamente. «Digli, in portineria, di
                  chiamarti un taxi.» Poi, mentre mi allontanavo
                  nel corridoio, mi gridò dietro: «Ah,
                  senti. Non prestar troppa attenzione a quello che
                  dico. Io non sempre la penso alla stessa
                  maniera».In
                  un certo senso, non fu l'ultima volta che, quella
                  sera, lo vidi. Scesi da basso. L'atrio del Miyako
                  era deserto. Non c'era nessuno in portineria.
                  Né, lì fuori, c'erano taxi in vista.
                  Persine in pieno giorno, mi ero smarrito per le
                  strade di Kyoto. Tuttavia mi avviai a piedi sotto
                  una stizzosa, fredda pioggerella, sperando di aver
                  imbroccato la giusta direzione. Mai mi ero trovato
                  in giro per la città a così tarda
                  ora. Forte era il contrasto con le ore diurne -
                  quando il centro della città, percorso da
                  folle festanti, risuona come una sala da pachinko e
                  con l'atmosfera di prima sera, il momento
                  più magico di Kyoto, allorché, simili
                  a fiori notturni, le lanterne inghirlandano le
                  stradine secondarie, e risplendenti gheisce - con
                  facce di ceramica bianca ed enormi parrucche
                  laccate tempestate di campanellini d'argento, a
                  passettini saltellanti - si recano, fra il lusco e
                  il brusco, alle loro meticolosamente raffinate
                  baldorie. Ma alle due di notte tutti questi
                  squisiti grotteschi sono scomparsi, i cabaret hanno
                  chiuso i battenti. Erano rimasti soltanto i gatti a
                  tenermi compagnia, oltre agli ubriachi e alle dame
                  del quartiere a luci rosse, gli inevitabili
                  senzatetto accovacciati negli androni, e, per un
                  breve tratto, un cencioso suonatore ambulante che
                  mi seguì suonando col flauto una musichetta
                  medievale. Avevo scarpinato per oltre un miglio
                  quando, finalmente, da un ennesimo vicoletto,
                  sbucai nel centralissimo quartiere dei grandi
                  magazzini e dei cinematografi. Fu allora che rividi
                  Brando. Alto una ventina di metri, con un testone
                  grande come quello del più enorme dei
                  Buddha, eccolo là - a colori da giornalino a
                  fumetti - su un manifesto che, sopra l'ingresso di
                  un cinema, reclamizzava La Casa da tè della
                  luna d'agosto. Piuttosto simile a Buddha era,
                  inoltre, la sua posa, poiché era stato
                  ritratto seduto alla turca, con un sorriso sereno
                  sul volto che luccicava nella pioggia al riverbero
                  di un lampione. Una divinità, sì; ma,
                  più che altro, veramente, soltanto un
                  giovanotto che siede sopra un mucchio di
                  dolciumi.    Truman
                  Capote
                     
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