Rivista Club degli autori n° 163-164-165-166
Settembre 2006
 
Federico Garcia Lorca: «Tutta la luce del mondo sta in un occhio» di Massimo Barile
La parola può suscitare l'anima, inondare le nostre vene d'un calore primordiale, estasiare fino a farci sentire il primo essere umano davanti alla prima aurora del mondo: e tutt'intorno pare non esistere più nulla, ciò che è materiale dissolto in una dimensione cosmica, quasi in una sospensione nel Tempo, nella tenebra più profonda, nel buio assoluto che precede il bagliore vitale, la scintilla primigenia.
Non siamo che pulviscolo cosmico e l'unica possibilità a noi concessa è di elevare il nostro stato, il nostro spirito, l'essenza umana, la nostra visione del mondo, far lievitare le nostre emozioni, ricercare la miscela vitale d'elementi che vagano in luoghi sconosciuti.
La parola è importante e fondamentale. La parola è luce, il silenzio è tenebra e vuoto.
Non a caso, Federico Garcia Lorca, amava leggere le sue poesie agli amici anzi aveva la necessità di recitare e declamare come quella volta che nei giardini della Residencia de Estudiantes la sua voce «Verde que te quiero verde...» affascinò Rafael Alberti con quella "misteriosa drammaticità" che sprigionava nella penombra del giardino. Solo in un secondo tempo si convinceva o veniva sospinto a pubblicare: ma il fascino era ascoltarlo, sentirne la forza, la capacità di far vibrare l'animo, cogliere il dramma infinito dell'uomo.
Questa visione della sostanza autentica e della funzione della poesia si ritrova, perfettamente espressa, in quello che scrisse Garcia Lorca: «La poesia è qualcosa che s'incontra per le strade, che si muove, che passa accanto a noi».
La poesia come qualcosa di autentico, legato e amalgamato alla nostra stessa vita, come una imprevedibile possibilità offerta a noi, esseri mortali, per svincolarci dalle false apparenze, dalle catene d'un mondo che ci fa sentire diversi anche se, nel momento ultimo, siamo tutti uguali.
La sua "parola" è stata capace di disintegrare ogni più strenua riserva, e le sue poesie, recitate come fossero rosari da sgranare, con una cadenza quasi ossessiva, con quelle reiterate parole e con le continue ripetizioni della strofa, si sono scolpite nella mente e nel cuore e, in alcuni casi, hanno così profondamente segnato ed inciso quasi ad ergersi a "sentenze poetiche".

 
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Garcia Lorca, il cavaliere della luna, il romancero gitano, il poeta goloso di vita, il poeta della libertà e delle "musicali risonanze andaluse", attraversò la poesia come un coltello, tra passioni e incantamenti, quasi a rendere evidente quel desiderio d'amore al chiaro di luna, la voglia di cantare e ballare in terra d'Andalusia, quella volontà d'assaporare la vita come un "frutto proibito".
Per Jorge Guillén «Federico metteva in contatto con la creazione» e Pedro Salinas disse «si sentiva la sua presenza molto prima che arrivasse, lo annunciavano avvisi, impalpabili messaggeri, come le diligenze della sua terra, come sonagli nell'aria» e ancora, per il critico Sebastià Gasch, l'uomo Garcia Lorca «possedeva il puro aroma di ciò che nasce spontaneo e forte. E, sempre affacciato al suo volto, il sorriso schietto, luminoso e cordiale, tra l'ingenuo e lo scaltro». Da una certa parte della critica fu anche definito un poeta dalle "intermittenze languide" e dalle assenze improvvise, «a volte stava a lungo senza parlare, assente dalla stanza, con lo sguardo vago, la bocca stretta e le sopracciglia aggrottate, i silenzi quando gli occhi parevano guardare all'interno per cercare nel profondo di un ricordo» come scrisse Adolfo Salazar.
Erano occhi che sembravano celare una profonda tristezza, stranamente malinconici, malgrado l'"euforia dell'essere" che accompagnava ogni gesto di Garcia Lorca. La sua risata era autenticamente contagiosa ma i suoi occhi non ridevano anzi parevano occhi nostalgici e in essi si annidava sempre la profonda tristezza della sua anima come ricordò il pittore e amico Gregorio Prieto.
L'immagine è quella di un uomo che porta con sé la sofferenza di sentirsi estraneo come se la sua vita dovesse svolgersi in un "altro luogo", un luogo da ricercare, un altrove immaginario dove poter dispiegare tutte le energie per far risuonare la forza della sua parola: in una strada, in un teatro, un caffé, tra una danza e l'altra, al suono magico d'una canzone gitana. Eppure Garcia Lorca fu un poeta sempre dalla parte di coloro che soffrono che "non hanno nulla e addirittura il nulla gli si nega".

 
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Fin dalle sue prime esperienze letterarie Garcia Lorca dà tutto se stesso ed emerge chiara quella sua intenzione, che si fa necessità vitale, di esprimere i propri sentimenti. Di sicuro, l'amarezza per non aver potuto coronare la sua vocazione musicale, lascia un profondo rimpianto ma si tuffa a capofitto nella poesia, con tutta l'energia di cui dispone, e con il suo "Poema del cante jondo", entra nel mondo letterario.
I temi fondamentali della sua opera, e quindi la sua visione del mondo, il significato profondo della vita e l'ineluttabilità della morte, l'arte in tutte le sue manifestazioni, i sentimenti d'un uomo che non può rinunciare all'amore, sono già gli stessi e rimarranno fermamente legati alla sua poesia futura: è questa linea sotterranea che unisce e si plasma con la sua vita che sarà definita una "misteriosa continuità", la conoscenza d'un mondo interiore, la ricerca dell'amore e l'accertamento dell'angoscia che ne deriva, scoprendo l'impossibilità di tale amore, e poi ancora a chiedersi qual è il senso dell'esistenza, la sua identità, le sue passioni, sempre con lo sguardo e la mente rivolti all'inesorabile fine di tutto, quasi una sofferenza al solo pensiero delle lacrime che ancora non si sono versate per quella insistente frustrazione d'amore, in un continuo camminare verso l'improvvisa rivelazione che può giungere in una notte qualunque proprio come la morte.
Per questa continua evoluzione drammatica, che coinvolge l'esistenza e le pulsioni, dopo aver pubblicato Romancero gitano, e nonostante il suo libro sia accolto da recensioni positive (e sarà il libro di poesie più letto, più recitato, più studiato ed il più celebre della letteratura spagnola per quel mondo gitano che viene narrato con passione, quell'universo simbolico, quella funzione delle rime), Garcia Lorca torna a Granada e vive una crisi personale. Così scrive ad un amico: «Io ho risolto volontariamente in questi giorni uno degli stati d'animo più dolorosi che ho avuto nella mia vita. Non puoi immaginare cosa significhi passare notti intere sul balcone a guardare una Granada notturna, vuota per me e senza avere la minima consolazione da nulla».
 
Garcia Lorca, solo davanti al tempo che scorre, anche nel momento dell'ultimo abbandono, guarda il particolare nel presente, sia che si trovi nella sua terra, sia che si muova nelle strade di New York, e si sposta quindi verso una visione universale della sua poesia, senza confini e senza tempo, ecco allora che la sua parola passa dall'ambito del personale, dall'Io che scrive all'umanità intera. Una "metafora della vita" con una energia poetica che travalica le limitazioni delle esperienze sensibili di un uomo e cerca di scoprire le verità nascoste: la parola come necessario strumento per disvelare le apparenze, per abbattere gli steccati, per rimuovere la superficie ingannevole che si posa sopra le cose e gli eventi della vita. Oltre la facciata di comodo, dietro la maschera posizionata sul volto per celarsi agli occhi della conoscenza, come a scandagliare, grazie al privilegio concesso dalla poesia, le "altre verità" del mondo circostante.
Le sue parole incidono la carne, lacerano l'animo, abbattono le certezze, inseguono il lato nascosto delle cose, ciò che non appare, ciò che rimane al di là d'una ipotetica verità: poi quasi a ricercare dentro se stesso una personale funzione ecco la constatazione «perché non sono un uomo, nè un poeta, e neppure una foglia,/ma un polso ferito che insegue l'altro lato delle cose».
Sempre è presente un impulso a superare la realtà fino a farsi profetico, denunciando le ingiustizie e le contraddizioni del mondo; filosofico quando si riferisce allo smarrimento di fronte all'Uomo che ha perduto l'equilibrio, quando indaga il malessere, l'alienazione, la schiavitù nei confronti dei simboli della società capitalistica. La coscienza che si ribella alla vita reale.
Ma Garcia Lorca si spinge addirittura oltre e si rende evidente la sua volontà quasi di incarnarsi in una vittima sacrificale che porta con sè un messaggio. Mai decade la consapevolezza che esiste una "comunione nel dolore" e che la poesia ha la capacità di coglierla e offrire una voce potente e salvifica. Il poeta vive, soffre, ama, e sublima tutto ciò in un discorso universale. Il poeta sogna e ha davanti una realtà "senza sogni": la frustrazione, le cose e le verità irrisolte, l'inquietudine, lo stato d'angoscia, la solitudine dell'uomo, sono una miscela sconcertante che rappresenta il mondo ma il poeta ha la capacità di rivelare verità illimitate.
Il tema dominante è lo scontro tra verità e menzogna, fra l'essere e l'apparire, fra libertà e chi non si rende conto di essere schiavo. «Il poeta aspira a commuovere i vostri cuori mostrando le cose che non volete vedere, gridando le semplicissime verità che non volete udire» afferma Garcia Lorca.
In questo percorso di ricerca all'interno di se stesso pare di assistere alla sofferta conclusione che vede "l'amore che contiene la morte", l'amore come agonia, sofferenza senza fine, e intorno un mondo sentimentale fatto di deflagrazioni e di solitudine, di disperazione e d'inquietudine che inchiodano alla condanna ad una situazione d'inappagabilità.
L'amore dirompente, esasperato, non trovato, irrealizzato. Il corpo della donna è "un giardino della mia agonia", l'organo femminile un "cactus nero aperto fra i giunchi" e l'impossibilità di trovare l'amore nella donna è confermata dalle parole «vederti nuda è ricordare la terra... chiusa all'avvenire»: quel non realizzarsi nei sentimenti, quel senso di frustrazione rabbioso o sussurrato, le domande senza risposte, il desiderio di fuggire, di annientarsi nel ricordo dell'infanzia.
Garcia Lorca, come a seguire un lento processo di erosione dall'interno, si convince che l'unica salvezza per l'essere umano risiede nel "rispettare i propri istinti".
 
«Nella mia poesia v'è solo una grande emozione che emana dalla mia tristezza e dal dolore che provo di fronte alla natura...». In una lettera a Jorge Guillén così scrive Garcia Lorca: «I gitani sono un tema poetico. Nient'altro. Io potrei essere allo stesso modo poeta di aghi per il cucito o di paesaggi idraulici» perché la poesia si trova in ogni cosa e non si identifica con un argomento unico ma nella capacità e nel modo in cui si è capaci di guardare . La poesia non è mai fuga dalla realtà ma l'opposto, è un gettarsi a capofitto nella vita stessa per cercare le risposte del vivere in un mondo privo di certezze. Un salto rischioso, uno slancio appassionato da farsi in modo spontaneo, libero, impetuoso, ardito.
Nella poesia intitolata Gli incontri di una lumaca avventurosa si intravede la parabola del poeta stesso che, come una lumaca, intraprende un viaggio impossibile e avanza per il sentiero che dovrebbe condurre alle verità ultime e il poeta, allo stesso modo, indeciso e illuso, cammina alla ricerca di verità che rimangano tali anche nel tempo, e quel doloroso percorrere le strade della vita con le prevedibili delusioni e gli inevitabili ostacoli d'ogni sorta pare annunciare un "percorso senza fine".
 
Così nel cante jondo, il canto profondo, il canto primitivo andaluso, allo stesso modo con la simbolica gitana che «ha d'argento il cuore/e nella destra un pugnale» o la donna a lutto «vestita di manti neri» o ancora la gitana lussuriosa e morente: ogni azione è una sfida al destino e alla sofferenza, ogni soffio vivente è un grido o un lamento, l'amore è pena e si incarna nell'essere umano.
«Nelle mani/ ho i buchi/ dei chiodi./ Non vedi come/mi dissanguo?/Non guardare mai indietro» e «pensa che il mondo è piccolo/e il cuore immenso... pensa che il sospiro tenero/e il grido scompaiono/nella corrente del vento». Mentre suonano le campane di Cordova all'alba, le ragazze d'Andalusia ballano sotto la luna, le donne di Spagna con le "gonne frementi/che riempiono di luci i crocicchi" sotto il cielo terso, le gitane che danzano nella notte e "le loro ombre toccano il cielo viola", il singhiozzo delle anime esce da una chitarra, la pena cantata dietro un sorriso, e il poeta che rivela "come l'amore i cantori sono ciechi", camminano sulla "terra bruciata", nei limoneti di Malaga addormentata, col cuore riflesso nel vento, tra il basilico, gli aranci e sulla "lunga notte verde" come la menta.
La lunga notte fissa, l'inconoscibile e il mistero, le aspirazioni e i desideri, la sensazione di una separazione dall'amore, dalla vita dove la speranza lascia il posto alla desolazione: fantasia e ragione, passato e presente, luce ed ombra, vita e morte, silenzio e urlo, non hanno più senso in un universo senza equilibrio nelle mani dell'ineffabile.
Il viaggio alla ricerca di se stessi, del senso autentico della vita, sembra non avere fine perché, nel momento in cui il poeta crede di trovarsi vicino al punto d'arrivo, ecco che, inesorabilmente, tutto ricomincia da capo.
È questa la separazione dell'uomo dal Tempo e dalla Natura: è la drammatica lacerazione del poeta fra se stesso e la vita che vede solo estraniazione e occasioni perdute.
Le notti nei caffè della Rambla "l'unica strada della terra che vorrei non finisse mai", quella visione della vita che gli faceva dire "tardi ma in tempo", il desiderio di recitare le sue poesie, di incontrarsi con le persone, di tenere conferenze, di schierarsi in difesa di un ideale, la certezza che solo il poeta può rendere immortale la persona amata, o un canto profondo di libertà e anche il nome d'un torero, come nel lamento per Ignacio Sanchez Mejias, e così salvarli dall'oblìo.

 
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Colpito al cuore, assassinato, l'uomo che cantava l'insonnia del cavaliere sotto la luna, l'uomo che piangeva come un bambino, che si disperava, che cercava di equilibrare la morte usando come spada la sua parola, stillando gocce nel vento freddo, nel silenzio grave, macchie d'inchiostro in una notte gitana, la notte che bussa ai vetri delle finestre nel "Romancero gitano", le strade all'alba e "occhi di mercurio" che si appannano d'immensa notte, e un angelo gitano adagia la sua testa su un cuscino, tra odore di vino e ambra.
Nella notte d'argento, il sangue versato che piange tra silenzio di mirto, cedro, zafferano e girasoli, e, in un'alba fresca, quanto sangue nelle vene d'un uomo che si getta nella vita e mai si stanca, testardo a voler far risuonare la sua voce nelle strade in penombra per sentirne il respiro e la melodia e dietro agli occhi disvelare il dolore.
Le macchie di sangue quando tutto è perduto, quando ci si deve inerpicare sulla strada in salita e sognare, e ancora sognare, in un eterno drammatico "gioco di luna e arena".
Mentre si affilano i coltelli nel mutilato silenzio, nel pianto oscuro, le parole continuano ad uscire dalla bocca e nell'aria profumo di erbaluisa e rosmarino, due donne un vecchio e un bambino, e il poeta che con il suo sangue testimonia che "è sempre quello che era ancor fanciullo", nemico delle sottigliezze. Uomo che ha opinioni diverse da quelle della maggioranza, uomo che piange dentro la terra perché lui è la terra, l'acqua che indora, la città lontana, la voce perduta, la luna che gira nel cielo, la fiamma nel cuore, il sogno ferito, "il cuore che trema rannicchiato come un cavalluccio marino".
Una voce antica dell'amore con gli occhi che si spezzano nel vento: «Non voglio mondo nè sogno, voce divina,/ voglio la mia libertà, il mio amore umano/ nell'angolo più buio del vento che nessuno vuole»... «Io non domando, io desidero" e ancora "Non potrò lamentarmi/se non ho trovato quello che cercavo:/ma andrò al primo paesaggio d'umidità e di ululati/per comprendere che quello che cerco avrà il suo centro d'allegria/quando volerò mescolato all'amore e alle arene».

 
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«Non chiedermi nulla. Ho visto che le cose quando cercano il loro corso trovano il vuoto». Il suo dolore sanguinava nelle sere, «per vedere che tutto è finito/per vedere i vuoti e i vestiti/dammi il tuo guanto di luna/l'altro tuo guanto smarrito nell'erba/amor mio!», cavalcando il "cavallo azzurro della follia": "«Non c'è secolo nuovo nè luce recente./Solo un cavallo azzurro e un'alba».
Bisogna cercare in fretta il profilo insonne, in questo mondo di distanze inaccessibili, nell'ultima festa, nell'inferno della più lurida strada, nel rigurgito di sangue mentre il poeta sarà spezzato, con le labbra d'argento, tremante di tenerezza mentre cancella i brividi del terrore, le mani trasparenti e la voce lacerata griderà ad un altro infinito che non è il suo.
Le parole offerte come doni agli amici, riflessi fedeli del suo cuore e del suo animo, legate alla sua stessa vita, intento a vivere la sua poesia, la sua vita che deve essere bruciata, nel cuore dell'uomo, nel grido, nel canto con quel bisogno estremo di recitare perché doveva affascinare con la sua parola.
Ecco il "Mago prodigioso" di colori, di mercurio di stella, di bellezza senza nostalgie nè sogno, di incanti segreti, di corpi celesti e sangue divino, il suo mistero poetico.

 
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Vi sono esperienze e momenti della vita ai quali è difficile sopravvivere come se non vi fosse più nulla, solo l'abisso, il sangue raggrumato, la notte viola. Tutte le consolazioni possibili diventano polvere che si disperde nel vento gelido, tutte le strade risultano inaccessibili, e i nostri poveri corpi come costretti nelle armature d'una solitudine che è l'unica a rendere cocenti le lacrime, le sofferenze passate non contano più nulla e, ai nostri occhi, le parole innocenti, le labbra rosse piene d'amore, il sentimento puro, sono dei ricordi difficili da recuperare nella linfa del pozzo.
Dopo aver sentito le proprie fiamme consumare la vita, dopo aver danzato tra il fuoco e la cenere, dopo aver vissuto il brivido assoluto e aver gustato ogni attimo come un'incandescenza, pare quasi impossibile riuscire ancora a respirare e non vorremmo lasciare tutto ciò che di umano è ancora rimasto dentro di noi. I nostri pensieri si ammantano d'una "brezza d'umida canna e suono d'antiche voci" mentre la "notte tremante bussa alle finestre", senza occhi, senza parole, in un delirio di profumi, che fa piangere "lacrime d'oro" e assale quel desiderio di "perdersi nel vento".
La miscela profumata della vita: cedro, oleandro amaro, uliveti, aranceti, bianche camelie, erbe d'argento, gigli freschi, giunchi magnolie e gelsomini e poi immancabilmente c'è «il sangue delle tue vene nella mia bocca/ la tua bocca senza luce per la mia morte».
 
E ciò che rimane sono le parole come quelle della poesia Gazzella del ricordo d'amore in Divan del Tamarit del 1936: «Non portare via il tuo ricordo./Lascialo solo nel mio cuore,/tremore di bianco ciliegio/nel martirio di gennaio./Mi separa dai morti/un muro di brutti sogni./Soffro pene di giglio fresco/per un cuore di gesso./Tutta la notte nell'orto/i miei occhi come due cani./Tutta la notte, mangiando/le cotogne di veleno./A volte il vento/è un tulipano di paura./E' un tulipano malato/l'alba d'inverno./Un muro di brutti sogni/mi separa dai morti./L'erba copre in silenzio/la valle grigia del tuo corpo./Sull'arco dell'incontro/aumenta la cicuta./Ma lascia il tuo ricordo,/lascialo solo nel mio cuore». Affannarsi come dei matti per prendere una "barca che non va in nessun luogo", vivere intensamente eppure accorgersi che d'amore ce n'è poco, e noi «camminiamo sopra uno specchio/senza mercurio/sopra un cristallo/senza nubi»...
Garcia Lorca è il poeta che scrive: «Come mi perdo nel cuore di qualche bambino,/mi sono perduto molte volte sul mare./Ignorante dell'acqua cerco/una morte di luce che mi consuma». Garcia Lorca è stato un artista complesso, tra recupero e attenzione alla tradizione e innovazione, cantore dei gitani per quella sua personalità dirompente che è il simbolo della sua singolarità ed unicità che mai potrà essere rivestita d'una improbabile etichetta ma solo ricordata con le sue parole: «La poesia esiste in tutte le cose, in quelle brutte, in quelle belle, in quelle ripugnanti; la difficoltà consiste nel saperla scoprire... Ciò che stupisce dello spirito è che può ricevere un'emozione e interpretarla in molti modi, tutti diversi e opposti... Bisogna essere religiosi e profani. Unire al misticismo di una cattedrale gotica, la meraviglia della Grecia pagana. Vedere tutto, sentire tutto. Il nostro premio nell'eternità consisterà nel non avere avuto orizzonti».
 

Massimo Barile


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