Rivista Club degli autori n° 146-147-148
Ottobre-Novembre-Dicembre 2005
 
 
Ada Negri:
La vocazione poetica come meravigliosa condanna
Diceva un famoso oratore: «Se la parola non mi costasse non sarebbe autentica, se non dolesse non sarebbe viva, se non bruciasse non avrebbe lume». Non è forse la parola che ci conduce alla tribuna del mondo ad ascoltare la diagnosi del nostro male? Non è forse la parola che ci smuove dalla tana nella quale ci eclissiamo, dalla nicchia della nostra casa ormai anestetizzati dai luoghi comuni e dalle abitudini?
Il nostro cammino è una continua ascesa al Golgota e tutto ciò che viviamo sta lì a dimostrarlo: la parola nasce dal travaglio, dalla professione di Uomo e di Donna mai dalla lusinga del venditore disposto a spacciare le parole in senso proprio e in senso contrario pur di far i suoi interessi.
Ma le parole potranno mai rendere giustizia alla profonda sensibilità ed umanità? O saranno solo fango che si deposita negli anni, solo innocui richiami all'entusiasmo, solo atti di presenza che tentano di scampare miracolosamente al dominio della banalità: inevitabilmente costretti ad una presenza in questo tempo che ci condanna alla limitante fisicità dell'essere umano.
A volte viene resa giustizia altre volte si finisce nell'oblìo. La letteratura è un campo disseminato di autori poco conosciuti, snobbati, esiliati, defraudati, in rari casi, riscoperti, per lo più sovente dimenticati.
Ma come noi ben sappiamo Multi sunt vocati, pauci vero electi.
In questi ultimi sessant'anni, dopo la sua scomparsa, Ada Negri è stata spesso trascurata a dispetto del successo che le fu tributato all'apparire della sua prima raccolta poetica dal titolo Fatalità. In quella giovanile esperienza letteraria si potevano trovare versi di protesta sociale contro lo sfruttamento dei lavoratori nell'opificio dove lavorava la mamma Vittoria e v'era un sentimento di comunanza con quel mondo di miseria e sofferenza oltre ad uno sguardo partecipe ed un interessamento solidale alla situazione esistenziale di quelle persone. Quella visione umanitaria, quella capacità di scrivere e di farsi partecipe della vita di uomini e donne sfibrati dall'estenuante lavoro fisico e quel desiderio di mettere in luce una condizione umana che si arrabattava a sopravvivere tra privazioni e stenti, le valse l'appellativo di "vergine rossa" ma se cerchiamo di penetrare più a fondo per capire quale fu l'impulso che spinse la poetessa lodigiana a comporre versi di tale intensità e spessore ci rendiamo conto che tutto il suo percorso letterario è accompagnato da quella necessità vitale di "scrivere per istinto, come le detta l'anima" e così fece fin dal suo esordio fatta eccezione per l'ultimo periodo nel quale si ravvisa una chiusura, una interiorizzazione, una rivi-sitazione della propria vita ben più meditata, calcolata e studiata fino ad arrivare ad una visione spirituale.
La sua fu una scelta di solitudine volontaria: non partecipò ai movimenti letterari del suo tempo e rimase distante dal futurismo nonostante l'amicizia con Marinetti che apprezzava la sua poesia. Non partecipò al rondismo né all'ermetismo e seppure non li ignorò del tutto ne scrisse come di "baraonda letteraria" sostenendo e riaffermando più volte e con vigore che «i veri scrittori e poeti non appartengono a gruppi e chiesuole».
Eppure a guardar bene sono poche le storie letterarie che vantano da parte di un autore un così rapido e solido successo.
 

 
Ada Negri da quel mattino in cui era partita da Lodi con "Dio nel cuore" e l'animo velato di malinconia al pensiero di dover lasciare quel luogo tranquillo, aveva iniziato il suo viaggio nella vita. E la sua esistenza sarà assai travagliata: non mancheranno le sofferenze, i dolori, le lacrime e la separazione dal marito anche se gli eventi negativi saranno accompagnati da periodi di felicità come la gioia della maternità, la forza del ricordo sempre capace di far rivivere momenti estatici e in ultimo ma fondamentali le grandi soddisfazioni letterarie.
I suoi primi versi erano già apparsi nell'Illustrazione popolare diretta da Raffaello Barbiera per poi essere riuniti nel volume Fatalità del 1892 che le darà un successo strepitoso grazie a quella capacità di esprimere, con immediatezza di linguaggio e prontezza di rime, le lotte del primo socialismo italiano e gli ideali di redenzione sociale del popolo seppur il dichiarato intento sarà "puramente umanitario". Le liriche avevano commosso e stupito i lettori e creato intorno alla giovane poetessa un alone di profonda simpatia. Questo primo volume di poesie delle edizioni Treves rivelò, in modo chiaro e preciso, nell'umile maestrina di Motta Visconti la figura di una poetessa. E Ada Negri, già nella prima poesia che dà il titolo al volumetto, sembra presagire quello che sarà il suo cammino da quell'esordio esplosivo fino all'ultima stagione della sua esperienza poetica, con quella apparizione notturna della sventura, "bieca figura" con un "ghigno" sulla faccia che le predice un avvenire di dolori e di grandezza: «Son la sventura./Ch'io t'abbandoni, timida fanciulla,/non avverrà giammai». Al che la giovane Ada insorge gridando: «Io voglio la speranza/che ai vent'anni riluce,/voglio d'amor la trepida esultanza,/voglio il bacio del genio e della luce!...»
Ecco infine il responso della sventura a chiudere la lirica: «A chi soffre e sanguinando crea,/sola splende la gloria./Vol sublime il dolor scioglie all'idea,/ per chi strenuo combatte è la vittoria./...»
Senza dubbio parole dettate dalla gioventù che rendono più l'idea dello sfogo, dell'ingenuo desiderio di affermazione, dell'arroganza tipica di una giovane esuberante, eppure sono già la più vera testimonianza d'un "gentile e robusto ingegno femminino" della signorina Ada Negri, capace di versi squisiti, di liriche ammirabili d'un vero talento d'una poetessa, sicura "gloria lodigiana", come si leggerà sul Fanfulla da Lodi. Questi primi versi velati da una giustificata immaturità saranno comunque sempre riscattati dalla passione per l'arte che la poetessa profonderà a piene mani.
A dire il vero nella silloge Fatalità ritroviamo un po' di tutto: dalla tristezza della solitudine, all'inquietudine, alla malinconia, dal patimento della povertà alla quale riesce difficile rassegnarsi, alle indignazioni improvvise, al disprezzo del mondo egoista e cinico, e poi una inappagata sete di vivere, un inesauribile bisogno d'affetto e d'amore, una brama di luce e di gloria. Sentimenti che deflagravano nel suo animo ed erano la fiamma che accendeva il suo canto.
Un bagno di fuoco divoratore di una giovane che conosceva già le notti insonni e «l'inquieto pensier della dimane» ma nel suo sguardo splendeva una luce che era un raggio di speranza da offrire alla madre che si consumava, giorno dopo giorno, in un lavoro estenuante.
Fu in queste prime poesie che Ada Negri, con forte amarezza nel cuore, pose in evidenza e mise mirabilmente in risalto lo stato di povertà e di miseria in cui vivevano lavoratori sfruttati dai "padroni" che avevano come unico scopo il profitto a discapito della dignità di persone che si trovavano spesso in condizioni tremendamente disagiate e sottoposte all'abbruttimento in luridi tuguri senza assistenza da parte di nessuno. Con gli occhi di una donna dall'animo sincero e pervasa da un forte senso di giustizia sociale, non riusciva a tollerare e a concepire una simile condizione di oppressione, una tal sorta di soprusi e quindi con una partecipazione attiva grazie alla sua poesia che si faceva canto sociale tentava di ribellarsi a questa fatalità. Ecco allora prendere forma le poesie ispirate ai ricordi dell'infanzia tra mille sacrifici e miserie, la fatica e l'umiliazione di sua madre che lavora come operaia e diventa l'emblema (leggere ad esempio le poesie Madre operaia e Nenia materna) del comune dramma di molti esseri umani che sono raffigurati e fissati negli ambienti delle fabbriche oscure, nelle case umide, nelle malsane risaie, dove svolgono lavori faticosi per un misero salario sufficiente malapena a farli sopravvivere.
Grazie ad una sincerità e ad una spontaneità davvero singolari riesce a dare vita ad una poesia civile che si fa canto di lotta sociale. L'importanza di Fatalità risiede appunto nel fatto che Ada Negri esprime tutto quel sentire con una invidiabile chiarezza e un eccezionale vigore: sono liriche di un animo esuberante che graffia la fotografia di una realtà di certo non entusiasmante senza quella ricerca d'effetti pascoliana.
Con Fatalità iniziò e si allargò sempre più il favore per la sua poesia destando un notevole interesse da parte di giornalisti e critici con una immediata seconda ristampa e l'opera vinse il premio Giannina Milli con l'assegnazione di una rendita annua in denaro che permise alla poetessa di lavorare serenamente ed avere la possibilità di scrivere altre poesie. L'affermazione letteraria andava di pari passo con l'affermazione professionale e Ada Negri venne abilitata all'insegnamento nella scuola Agnesi di Milano nel ruolo di professoressa ad honorem. Fu così che dovette partire da Motta Visconti per trasferirsi con la madre a Milano lasciando la «povera scuola di campagna con le sue voci affettuose», le persone che le erano state vicino e rappresentavano ormai il "dolce passato": nella sua mente già era presente, forte e sicura, la consapevolezza che non avrebbe mai più ritrovato la pace di quel luogo tanto caro e tanto amato che la faceva sentire nel posto giusto, in un ambiente adatto a lei; nè che avrebbe riassaporato la semplicità della sua gente, povera ma ricca di sentimenti.
In quel periodo fra i numerosi ammiratori aveva incontrato anche l'amore. Aveva conosciuto un certo Ettore Patrizi, un ingegnere con il quale c'era una indubbia affinità di spirito ed una condivisione delle prime esperienze e dei primi approcci con il mondo intellettuale milanese ma il destino volle che l'ingegnere aveva già programmato di partire per l'America e la poetessa non riuscì a fermarlo anche se gli promise di aspettarlo. Inevitabilmente seguì un periodo di lavoro intenso per un nuovo volume di poesie e nel 1895 uscì sempre per l'editore Treves la seconda raccolta di liriche dal titolo Tempeste. Le tematiche erano le stesse: l'ansia di libertà, quella sete di vivere, l'amore per la madre e la sua terra «pienezza di vita fra le spighe d'oro» dove non esiste più tristezza nè miseria.
Ada Negri continua il suo discorso umanitario e si dirige verso una figura di "poetessa sociale", seppur contaminata ancora da un repertorio retorico e da un enfasi talvolta eccessiva, offre magistralmente una nuova espressione della sua energia vitale, della sua esuberanza e della sua compassione umana. Si sente l'interprete unica di una missione ma si può leggere nelle sue poesie, sparsa qua e là, anche una profonda amarezza causata da un amore infelice: la passione e l'angoscia la travolgono come tempeste ma grazie al dono naturale della sua vocazione poetica prendono vita liriche pulsanti d'amore deluso e di rivalsa ma senza adagiarsi mai su toni patetici. Un lento ma inesorabile traghettamento sulla barca della vita che la porta dall'immagine di "vergine rossa" ad una figura più vera di "poetessa dell'amore" che offre con la sua poesia la realtà di una umanità sofferente e misera sulla quale si abbatte, ora e sempre, il destino infausto. E anche Ada Negri fu una donna che conobbe da vicino il doloroso cammino di questa vita che a molti spetta di attraversare con animo dolente e rari momenti di felicità: e la sua parola fu sempre vera, specchio fedele del suo dolore e delle sue speranze deluse.
In questa seconda raccolta di liriche v'è anche un desiderio nuovo come l'ansia d'amore con il tormento per il lungo silenzio dell'uomo amato e la dolorosa constatazione di essere stata ormai dimenticata. La sua espressione poetica, è sempre immediata e sincera, anzi così tremendamente sincera, da raccogliere anche il consenso del severo Giosué Carducci.
Pure in presenza di enfasi e prolissità queste due prime raccolte costituiranno la più vera affermazione della sua personalità genuina e della sua arte: due sigilli alla sua famosa "vocazione poetica".
 
La positiva accoglienza della raccolta poetica Tempeste aumentò ancor più il numero dei suoi estimatori ed ammiratori e fra questi un industriale del Biellese proprietario di un lanificio, un tale Giovanni Garlanda che si invaghì di lei e dopo fugaci incontri si sposarono. Fu una scelta avventata e i motivi di tale decisione repentina risiedono forse nel silenzio prolungato del primo amore Ettore Patrizi o forse nel desiderio di trovare finalmente l'agiatezza economica e la soluzione definitiva ad anni di povertà trascorsi insieme alla madre. O forse era arrivato il momento di sposarsi e colse al volo la prima occasione: un buon partito e la possibilità di trasferirsi dalla modesta casa di Milano alla ben più appetibile dimora nel Biellese. Ma il matrimonio con un uomo appena conosciuto e per di più con idee assai differenti dalle sue nonché il trasferimento in un ambiente più chiuso e diffidente (come poteva essere quello della Valle Mosso dove era totalmente immersa in una dimensione borghese che mal si addiceva alle convinzioni della poetessa), provocò continue incomprensioni e dissidi. A salvare momentaneamente il matrimonio contribuì la nascita della figlia Bianca che regalò alla poetessa una ritrovata serenità e felicità seppur guastata, due anni più tardi, dalla perdita di Vittoria dopo neanche un mese di vita. Quando per motivi di lavoro dovettero trasferirsi a Milano, Ada riallacciò i rapporti con l'ambiente letterario ma ciò non fece che aumentare le incomprensioni e gli screzi con il marito. Le vicende di questo periodo travagliato della sua esistenza non avevano comunque fermato la mano poetica di Ada che vi aveva invece attinto nuove ispirazioni per la sua arte: la solitudine nella grande casa di Valle Mosso, la nostalgia per i luoghi della giovinezza tanto amati, la felicità per la nascita della figlia Bianca, il dolore per la morte di Vittoria.
Ancora una volta saranno le personali vicende, gli avvenimenti che costellano la sua vita a dare corpo ad una nuova esperienza poetica con la raccolta Maternità del 1904, a quasi dieci anni di distanza da Tempeste, e ormai l'elemento strettamente autobiografico prende il posto della visione sociale ed umanitaria con il tema della maternità in primo piano dove rivela tutto il suo travaglio, con le ansie e le trepidazioni, le gioie e i desideri, la serenità di un ambiente familiare ma anche i turbamenti e le ingiustizie del mondo con una apertura religiosa ed una esortazione ad applicare il messaggio cristiano. Si chiude la stagione della rivendicazione sociale e si apre quella nuova dell'affermazione dei diritti della donna come cittadino, della dignità e del rispetto come persona, rendendo palesi le difficoltà che le donne devono affrontare e le umiliazioni che si trovano a dover sopportare: nelle sue liriche ne sono un esempio le figure di madri che compiono atti disperati e quel senso di pietà che ne emerge.
È la ricerca di un equilibrio interiore, di una armonia da ritrovare, alla scoperta di una nuova personalità poetica e spirituale che fa cadere la proverbiale immediatezza espressiva e tocca ora un più intimo raccoglimento ed una più sofferta meditazione interiore.
Alcune poesie tra le più belle nascono poi dalla nostalgia per il suo "ribelle e splendido passato" come le liriche Ritorno a Motta Visconti e Piazza di San Francesco in Lodi.
Il silenzio e la pace della piazza di San Francesco a Lodi «Ed eran quel silenzio e quella pace/che in te bevevo a sorsi lunghi e puri/e il bacio amavo su' i tuoi vecchi muri/de l'edera tenace» e l'antico tempio che «avea canti e colori/ d'una soavità che ancor mi trema/dentro» e «quei queti cortili pieni di sole e di verde/i portici dei chiostri ove si perde/l'anima dei poeti» fanno rimembrar ai tempi delle speranze, alla poesia suprema degli anni migliori. E poi nella lirica Ritorno a Motta Visconti ecco ricomparire «il passato di lotta e di speranza,/il suo ribelle e splendido passato» e poi pare ancora risentire il «vento di libertà, di giovinezza» ed ora invece l'anima stanca si infrange contro l'onda dei ricordi come tempesta a notte.
 
Ma la vita doveva riservare ad Ada Negri ulteriori stravolgimenti. La vita matrimoniale la vedeva rinchiusa nel suo ruolo prestabilito e definito di moglie che deve obbedienza al marito in una sottomissione totale: regina della casa ma reclusa alla vita senza possibilità di relazioni al di fuori del ristretto ambito familiare, viste come turbative ai suoi doveri di moglie. La situazione era insopportabile soprattutto per una donna come lei e i continui dissidi erano una cappa soffocante per ogni suo impulso e istinto di libertà, una continua tortura alla quale pose fine nel 1913 con la separazione dal marito quando la figlia fu mandata in un collegio in Svizzera a studiare lingue straniere e lei la seguì decisa a non tornare più. Le nuove poesie di quell'esilio contengono le amarezze di una donna ma anche la ritrovata forza di affrontare con serenità il futuro.
Una volta evasa dalla prigione dorata nella quale s'era rinchiusa per inesperienza giovanile finalmente poteva costruire la sua vita in totale autonomia senza dover tener conto delle convenzioni, dei doveri imposti da un mondo borghese che lei ripudiava. Come donna era alla ricerca del grande amore, unico vero tesoro al quale mirava e, ormai sul finire della giovinezza, quando già qualche rado capello bianco s'intravedeva nella lunga chioma corvina ecco apparire l'amore irradiante luce solare e la sua felicità è immensa: tale è la gioia che si sente completamente appagata ma quest'amore, fu così intenso quanto fu breve, perché l'uomo amato muore a causa dell'epidemia di spagnola lo stesso anno.
La morte improvvisa è un autentico schianto e lei si lascia andare al pianto sommesso dell'amore disperato, ad un grido di dolore, a lancinanti invocazioni, a rimpianti per ciò che non ha potuto vivere, a sommessi colloqui con l'ombra dell'amato. È uno straziante e al tempo stesso magnifico canto d'amore e canto del ricordo: è una donna annientata dal dolore, che non riesce a dominare il pianto, travolta dai ricordi così belli e felici che sembrano stordirla e lasciarla inerme a fluttuare nel vuoto.
La dolorosa esperienza da lei sofferta è trasfusa l'anno dopo nelle liriche della raccolta Il Libro di Mara pubblicato nel 1919 con la solita "rude immediatezza" e veemenza che sono gli aspetti fondamentali di tutta la sua arte e come tutta la sua opera anch'essa è autobiografica: sincera, esuberante, incontrollata, oratoria, commovente.
Un volumetto così intriso di umano dolore che commosse tanti lettori ispirando un senso di pietà.
Qualche anno dopo si allontanerà volontariamente per un lungo periodo dai clamori del suo successo per scrivere la raccolta di poesie I canti dell'isola del 1924 (l'anno dopo uscirà Ossi di seppia di Eugenio Montale e nel 1926 Grazia Deledda otterrà il premio Nobel per la letteratura) e tre volumi in prosa Finestre alte, Le strade e Sorelle. Ma sarà con il libretto di liriche I canti dell'isola scritto dopo un periodo di vacanza tra la Sicilia e l'isola di Capri che Ada Negri si lascerà travolgere dalla bellezza della natura, dai suoi colori e dai suoi profumi, quasi a seguirne il ritmo accompagnato dalla memoria. Sono canti di umana passione che ora si fa più serena e il dolore si è ormai placato anche se non è scomparso del tutto. La sua parola segue il ritmo del cuore che «da quel giorno ha il profumo di rosa» ed innalza un canto che possa dissolvere il suo dolore: ecco che l'isola le viene incontro come «una dorata nuvola emersa dal fiato del mare» e davanti ai suoi occhi c'è un'esplosione di luci e colori, c'è il mare d'Ulisse, il cielo azzurro e la terra amata che aiutano la sua anima a ritrovare un canto sereno.
 
V'è chi ha reputato l'opera in prosa di Ada Negri decisamente più interessante delle sue liriche e, a proposito del romanzo Stella Mattutina, Pancrazi scriverà «...Nella maggiore umiltà di questo libro di ricordo, il suo dolore umano ha raggiunto una verità e persuasione che altrove manca».
Sarà infatti in Stella mattutina del 1921 che la poetessa rivivrà, con gli occhi della bambina Dinin, la storia della sua vita. La memoria poetica dell'infanzia e della giovinezza sarà fissata per sempre in questo romanzo che non è altro che la sua biografia, il racconto che una scrittrice, ormai matura, fa di sé ripensando all'età dai sette ai diciotto anni. Nella portineria di un palazzo signorile nella natìa Lodi con la madre operaia in una fabbrica tessile e la nonna, che era stata la cameriera di una famosa cantante, vive la scontrosa scolaretta leggendo libri e romanzi d'appendice. Lei si sente legata alla gente che lavora tredici ore al giorno secondo l'orario di fabbrica, come fa la madre, per un salario che è poco più di nulla. Sente dentro di sé di appartenere a questo mondo di fatica e di miseria e osserva la madre che sopporta senza lamento e spesso con una allegria sorridente, nutre per lei un amore che è trepidazione silenziosa eppure soffoca quell'istinto di rivolta contro una condizione sofferente e nell'esempio materno accetta la povertà con orgoglio accontentandosi durante le sere delle letture delle appendici dei giornali da parte della madre alla fioca luce della lampada per consumare poco petrolio. Stella Mattutina è una sorta di ode alla madre, un omaggio a colei che ha permesso alla figlia di far sgorgare dal cuore tutto ciò che sarà poi rivelato con la sua arte. Fortunatamente il palazzo ha un giardino interno e quando i padroni si trasferiranno nella villa per l'estate questo sarà il suo rifugio, il luogo delle sue prime delizie di "ragazzina solitaria". È lo spaccato di un piccolo mondo provinciale e l'amara consapevolezza che il duro lavoro della madre le ha consentito di non seguire identica triste sorte ma di condurla alla carriera di maestra in una scuola e proprio a questo punto finisce il racconto.
È indubbiamente il capolavoro della sua maturità, la conferma della figura di Ada Negri prosatrice e, in Stella Mattutina, si possono cogliere i motivi essenziali della sua arte. In questo libro autobiografico Ada Negri ha consegnato, grazie al distacco consentitole dal tempo e dal purificarsi della memoria poetica, il suo animo di allora e il nascere in lei dei sentimenti che si ritroveranno in diversi momenti della sua opera.
La sua prosa è nitida, scolpita, a volte dura ma sempre scaldata e fomentata da quella memoria, rivitalizzata dal ricordo, pateticamente e candidamente sempre messa in giusta luce: le crudezze e le durezze non fanno altro che conferire ancora più vibrante, dolente, accorata testimonianza umana.
S'è scritto che Ada Negri giunge con Stella Mattutina ad un racconto d'arte asciutto, rapido, essenziale o come osserva Flora «Qui è la rapida scrittura piena, qui il franco stile intraveduto e voluto dalla Negri fin dal suo esordio... Qui è una prosa che canta e in ogni ritmo scopre la realtà: qui nei periodi l'ispirazione ha il correre delle limpide acque che passando riflettono colori accesi, luci intense ed astri».
Siamo ormai sul viale del tramonto della sua esperienza letteraria e negli anni successivi alternerà prose, racconti e versi tra i quali solo per citarne alcuni Vespertina del 1931, Il dono del 1936 e Erba sul sagrato del 1939. In queste opere con nitida eleganza riuscirà ad esprimere una «pacata interpretazione del dolore umano entro una visione cristiana della vita» venendo meno talvolta a quell'impeto naturale, a quell'eloquente ispirazione delle sue prime liriche. Tra le varie prose e liriche spetterà al lettore trovare dove poco resta della giovanile emozione e dove netta prevale la limpida forma.
 
Nel 1940 Ada Negri, ormai settantenne, riceverà la nomina di Accademica d'Italia. Il riconoscimento tributatole avrà un valore ancor più alto perché per la prima volta nella storia dell'Accademia una donna veniva chiamata a farne parte. La poetessa continuerà a scrivere articoli sul Corriere della Sera ma la seconda guerra mondiale sarà nella sua fase più terribile e la morte si impadronirà di ogni cosa, delle persone care, delle case distrutte dai bombardamenti, della vita stessa, con continui spostamenti da un luogo all'altro e fughe repentine. Ada Negri ormai malata e distrutta nell'anima vedrà lontani i sogni di libertà e di giustizia perché davanti a lei ci sarà solo il dolore, l'odore di morte, la distruzione totale. Nel gennaio del 1945 abbandonerà il travaglio della vita e dell'arte per ritrovar il giorno senza principio e senza termine nello stupor della perenne luce.
 

 
Tutto in lei si trasformerà in poesia e sempre vi sarà uno stretto e rispondente rapporto tra la sua opera e la sua esistenza con quel condensato di fatalità, di vocazione poetica come meravigliosa condanna di una donna: la sua arte sarà legata alle esperienze della sua vita in modo inscindibile e la sua poetica sarà scritta con la febbre nel sangue, verrà fuori già pronta, già definita in ultima forma «col suo rude ritmo e col suo rude disegno» come affermerà lei stessa.
Con il suo sguardo inizialmente fortemente impregnato di una umanità che si fa condivisione dell'umana sventura in un secondo tempo toccando il tema dell'amore con Tempeste e poi fermandosi a osservar il «mesto avvizzir» della vita che come «sabbia d'oro sfugge dalle avide dita» e pianger lacrime silenziose sui vecchi sogni, sul lontano dolore «piaga insanabile nel cuore».
Dopo Tempeste la poetessa si lascerà andare ad una confessione «C'è qualcosa di grande, di assoluto che fermenta qui nella mia testa; forse ne uscirà la grande parola» che riassume in buona parte la sua storia letteraria e delinea la personalità di una donna convinta del suo valore, della sua capacità di giungere alla parola assoluta, di lambire e conquistare un canto divino o di averlo già espresso perché«anche se fosse scomparsa dopo Fatalità e Tempeste il suo nome sarebbe passato alla leggenda».
È vero ciò che scrisse Cesare Angelini «il verso fu la sua meravigliosa condanna e l'involucro della sua lunga favola» perché tra la sua opera e la sua vita vi fu una intensa rispondenza. La sua arte è legata in modo inscindibile alla sua esistenza, fino alla fine, e non è un caso che proprio con una preghiera si chiuda la postuma Fons Amoris, un'ultima parola ardente dell'intera vita di una donna, ultimo sofferto momento di un cammino poetico, quasi a farsi sigillo nella dura pietra, seme nella terra fertile, eterna presenza di un'anima protettrice d'ogni essere vivente.
È indubitabile che Ada Negri, senza il sigillo delle sue ferite, non sarebbe Ada Negri perché senza un patire profondo, un continuo travaglio, lei non sarebbe cresciuta al lievito di quelle esperienze interiori che sono di certo il segreto della sua poesia. Il suo dolore aveva un dono, la parola, e la sua vita riprendeva così valore e speranza, il suo mondo dolente si ricostruiva più grande tra le sue mani. La "grazia alata", quell'amoroso armonioso impegno, la ricondusse nella folla fatta di donne e di uomini che faticano ogni giorno e pagano il loro pane con il sudore e il sacrificio; la poesia le permise di vedere in modo limpido tutto ciò che la circondava e tutto ciò che veniva a riempire i suoi giorni, sempre con quello sguardo che nasceva da occhi magnetici, e nell'ultima stagione con quella figura quasi mitica di donna statuaria "piena di tempo" in attesa solo di offerenti ed onoranti; la meravigliosa vocazione, l'antica fiamma sempre ardente ricreò fino all'afflato finale la misura del suo valore.
Negli ultimi richiami della vita, ormai rasserenata e disposta benevolmente all'accettazione dell'umano destino, pareva toccare con le mani l'anima dell'umanità, far vibrare le corde d'uno strumento celestiale, pareva che il disegno della natura e l'accettazione della volontà di Dio la placassero; le pareva di essere tornata ventenne già presaga della vita, di ciò che l'attendeva; pareva ormai purificata davanti al lume della sua anima. Così s'è fatta la sua poesia: scavando in se stessa, nel travaglio della sua infanzia, nella solitudine e nell'insonnia per il domani incerto, nelle ferite del dolore, nella sventura che si abbatte su tutti noi, nelle brucianti eppur vane speranze, nell'attesa di un grande amore; rischiarandosi per quei rari momenti di abbandono e di felicità, per quei solitari vagheggiamenti e intimi sorrisi; rielaborando dentro di sé ogni umano motivo di patimento e di meditazione. Dopo l'impegno sofferto e le evidenze consolatorie ecco i richiami liberatori e, in ultimo, il conforto religioso aspettando il riconoscimento del cielo.
Sul suo corpo si può leggere ormai tutta la sua vita e la sua poesia. E la sua parola è un universo di immagini, il desiderio assoluto di riempire il vuoto, la giovinezza pensosa, la stagione dell'amore, l'aria gelida del lodigiano e la tristezza per l'allontanamento dalla propria terra come esilio, la dolcezza di una madre per la figlia, il vento primaverile sul viso e la seduzione della Natura e della Vita.
Ada Negri rimase sempre fedele a se stessa, a quella sua figura di poetessa per vocazione, quasi a seguire la sua stella luminosa; a quella sua parola dotata di una limpidezza estrema che fin dall'inizio, non ancora ventenne, aveva già rivelato la sua poesia.
Ha amato la sua "speranza" con la forza del ricordo, ha servito la sua fiamma fino ad affermare «Io non conosco che la divina gioia di cantare» e, parafrasando un famoso oratore, si può dire che «la sua poesia è una pagina di onestà che non si cancella», un sigillo nell'alabastro: «Con anima per amare/labbra per baciare/voce per benedire».
 

Massimo Barile


Clicca qui per leggere alcun testi di Ada Negri
Torna all'inizio  
 
 

IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |
© COPYRIGHT 2005-2006 RIPRODUZIONE VIETATA
È concessa ai navigatori Internet la stampa di una copia ad uso personale

Realizzato dail server dell'associazione no-profit "Il Club degli autori" che ospita riviste virtuali di cultura e arte

ottimizzato per Netscape