È uscito il n° 132-133
Agosto-Settembre 2003
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 15 settembre 2003
 
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I grandi Scrittori del Novecento
Aldo Palazzeschi un saltimbanco tra fantasia e divertissement

di Massimo Barile


Poeta dello sberleffo, dominatoreindiscusso del gratuito e sfrenato divertimento, giullare dalle invenzioni parossistiche, giocoliere della parola, jongleur come scriverà Montale, con i suoi scherzi di cattivo genere e fuor di luogo, con i suoi lazzi, frizzi e ghiribizzi da quando cominciò a scrivere di poesia e prosa vi fu chi pensò che nel lasciatemi divertire consistesse la sua morale e la sua produzione non potesse essere altro che una "piramide di scherzi".
Capace di far sentire il grottesco della vita come un degno satirico e un esperto caricaturista. Sogghigna per tutto il cammino della sua vita, in solitaria illusione ed allusione, in lotta con la continua necessità di rappresentare ciò che dagli altri è definito strano ed anormale, uno «Stilita che folleggi, pianga e rida, d'un riso più crudele del pianto, sul vertice d'una montagna di teschi» come scriverà Emilio Cecchi.
Spesso dispersivo e disordinato, a dispetto delle sue grandi passioni di collezionista di preziose porcellane, di monete e di francobolli: da autentico filatelico e numismatico arricchirà le sue collezioni con pezzi rarissimi e pregiati. Dalle poesie-corbellerie e dai romanzi ironico-grotteschi sempre costruiti in modo da offrirgli una via d'uscita paradossale ed umoristica passerà con estrema facilità a coltivar fiori e piante da frutto sul terrazzo della sua casa romana al quinto piano in via dei Redentoristi che non lascerà per tutta la vita. Capace di creare "trionfali cagnare" ed "esilaranti apoteosi dell'assurdo" con spericolate invenzioni e stoccate satiriche sempre sospeso tra la sua visionarietà capricciosa e le divertenti prestazioni della sua fantasia. Strofe bisbetiche, corbellerie, grullerie, cose buffe, risate e birichinate: con il suo esilarante estro, a dispetto del suo fisico massiccio ed imponente, sembrerà sempre un saltimbanco acrobata che fa le giravolte e i salti mortali al solo scopo di divertire ma il suo occhio così acuto e malizioso sarà sempre lasciato in piena libertà e saprà raccontare cose che nessun altro ha visto e scritto.
Uomo solitario e amante della solitudine, unica presenza nella sua casa sarà la fedele domestica Margherita che gli rimarrà vicino fino alla fine, fino a quel 17 febbraio del 1974; eppur sempre aperto al sorriso e alla risata, evasivo e pettegolo nella sua arte, inventore di personaggi, figurine e macchiette costantemente in bilico, con quel suo gusto al ridicolo, tra il sottile e il popolaresco. Ma tutti i suoi personaggi seppur così strani, irreali ed "eterei" si aggrappano tenacemente alla vita quasi a sottolineare una indomabile voglia di vivere. Il suo romanzo più famoso Sorelle Materassi del 1934 rappresenta la miscela di tutto questo fermento umano, la somma di tutto il suo lavoro con quella coerenza letteraria e quel profondo legame tra le sue opere: la rievocazione del mondo ottocentesco e la descrizione dello stile di vita delle sorelle Materassi sono di frequente percorse da lampi di riso e la vocazione al divertimento va di pari passo con l'umanità e la pietà che sono la costante della visione palazzeschiana della vita. Le numerose pagine, divertite e divertenti, che Palazzeschi ha offerto grazie alla sua innata predisposizione al ridere di gusto sono il frutto di quel suo continuo abbandono al gioco della fantasia, a quella poetica del grottesco e della provocazione, a quella sottile ed irresistibile tentazione all'irrisione e al buffo. La simpatia umana per l'arte di Palazzeschi è sicura.
 
Aldo Palazzeschi è fuor d'ogni dubbio una figura a sé stante all'interno del panorama letterario italiano anche se, nella sua lunghissima attività letteraria, si accostò a movimenti letterari a lui contemporanei e ne subì gli influssi più o meno accentuati, rendendosi a volte, soprattutto con Marinetti, partecipe attivo in varie iniziative ma evitando doviziosamente quei coinvolgimenti ideologici diretti, tali da poter rendere palese una sua identificazione con uno o con l'altro movimento.
Palazzeschi è dunque autore di una originalità inconfondibile, non riconducibile a schematismi o formule letterarie: dopo l'esordio crepuscolare a cui seguiranno immancabili ritorni, assistiamo infatti al fugace accostamento all'esperienza futurista e poi alla continua tensione ad una dimensione personale contrassegnata da una forte indipendenza. Ne emerge dunque una figura che può trovar posto in diversi capitoli della storia letteraria del Novecento ma non si immedesima e non trova la sua prospettiva con alcuno di essi.
Oggi la critica è unanime nell'assegnare ad Aldo Palazzeschi un posto "unico" tra gli scrittori italiani e fonda le ragioni di questa sua posizione su quella preminenza del gioco fantastico sulla struttura preordinata, sul dominio di quella ingovernabile forza istintuale, su quella allegoria estrosa, quell'ironico arabesco che lo rende un funambolo: la stessa dichiarazione di essere il saltimbanco della propria anima «Io metto una lente/davanti al mio cuore/per farlo vedere alla gente./Chi sono?/Il saltimbanco dell'anima mia» assume un valore emblematico di intenzione eversiva tesa a liberare la parola poetica «prigioniera d'una formula e vuotata d'ogni forza espressiva» ed allo stesso tempo rende involontariamente palese o possibile il pericolo che tale opera di eversione si possa ridurre ad un funambolico gioco d'un saltimbanco, allo sberleffo d'un giullare moderno, alla smorfia d'un mimo di strada.
Rifiutando l'aureola di poeta, in Palazzeschi nasceva inevitabilmente l'esigenza di una autodefinizione e quella di saltimbanco poteva rendere l'esatta misura di quella poesia che doveva contemplare una rottura nei confronti di una poetica logora: da qui la necessità di liquidare una concezione che vedeva il predominio d'un "bolso lirismo" per finire con il ripudio di un linguaggio aulico. Tutto ciò doveva avvenire scherzando e giocando con la parola sui propri sentimenti e sugli stati d'animo quali "malinconia, follia, nostalgia" utilizzando le maschere di una compagnia circense che vanno dallo sberleffo, al lazzo, al ghiribizzo, al motto giocoso, alla buffoneria, al puro divertimento fino alla sguaiataggine.
In ultimo, per dar sostegno al proprio lavoro attraverso questa decisa e dichiarata operazione eversiva, la sua intenzione pareva configurarsi in una necessaria e forte determinazione a disinfestare il linguaggio poetico da una tradizione ormai logora e ridotta a larva: son queste le due linee guida della sua poesia.
Ecco allora che Palazzeschi come poeta si fa grottesco, elegiaco, ironico, divertente: perché nessuno può negare al poeta di divertirsi «Il poeta si diverte,/pazzamente,/smisuratamente./Non lo state ad insolentire,/lasciatelo divertire,/poveretto,/queste piccole corbellerie/sono il suo diletto» che risulta essere decisamente il puro e semplice divertimento fine a se stesso anche perché l'idea di fondo è che «i tempi sono cambiati,/gli uomini non domandano più nulla/ dai poeti...».
In ogni caso è eccessivo prendere questi versi come simbolo di tutta la poesia palazzeschiana ma è, a mio parere, quasi un punto d'arrivo con quel suo «lasciatemi divertire» che finisce per assegnare alla fantasia un ruolo egemonico: dimenticando, non sappiamo se volutamente o no, che rimane sempre l'esigenza fondamentale di affidare alla fervida facoltà immaginativa quella disposizione armonica secondo una regola, quella traduzione obbligatoria nelle "forme dell'invenzione" altrimenti il rischio di cadere nell'arbitrarietà è assai alto.
A partire dall'esordio con I cavalli bianchi del 1905, raccolta di poesie stampata in cento copie, pubblicata a spese dell'autore (la casa editrice Cesare Blanc che altro non è che il nome del suo gatto), e recensita da Moretti e Corazzini, per arrivare a Storia di un'amicizia del 1971, una sorta di testimonianza di un amore alla vita che traspare dalla stessa amarezza della satira, la sua esperienza si chiude con un'altra ampia raccolta di poesie Via delle cento stelle del 1972. L'opera di Palazzeschi si sviluppa quindi lungo un arco di tempo assai ampio e rappresenta una presenza costante nell'ambito letterario italiano anche se, per buona parte della sua produzione, ciò è stato qualificato dalla critica più che altro come un "felice evento biografico". V'è chi ha osservato che la sua ampia produzione coincide solo in parte con una effettiva validità letteraria delle opere stesse e, in diversi momenti del suo itinerario, vi sono di certo vistose cadute di tono immancabilmente sottolineate da tutta la critica.
Per avere una visione completa della figura di Palazzeschi credo sia opportuno individuare le varie fasi e sottolinearne le caratteristiche sottoponendo l'intera produzione ad una attenta analisi in modo da avere una nitida immagine di un uomo che ha sottolineato come il far poesia sia stato per lui una "necessità fisiologica".
 
In questo rapido excursus ci limiteremo alla produzione poetica di Aldo Palazzeschi e soprattutto alla fase giovanile che, come avremo modo di sottolineare in diverse occasioni, rappresenterà già un punto d'arrivo contenendo gli elementi portanti che caratterizzeranno in seguito buona parte della sua produzione letteraria.
In un secondo tempo, con un ulteriore articolo, affronteremo le successive opere come la famosa "favola aerea" dell'uomo di fumo de Il codice di Perelà del 1911, una sorta di fiaba ironico grottesca presentata subito dopo L'Incendiario. Seguirà nel 1920 Due imperi... mancati, un coraggioso atto d'accusa contro la guerra, un anno dopo la raccolta di novelle Il Re bello e poi La Piramide (Scherzi di cattivo genere e fuor di luogo) giungendo così fino al 1926. Sarà questa la stagione del Palazzeschi poeta che porterà una nota personalissima nel panorama letterario seppur con scarsa accoglienza nel mondo della critica ufficiale come scriverà Eugenio Montale. Poi ci sarà la svolta con Stampe dell'800 del 1932 e Sorelle Materassi del 1934, le migliori prove della sua lunga carriera, grazie alle quali verrà inserito nei quadri della migliore narrativa tradizionale. Seguiranno poi le raccolte di novelle Il palio dei buffi e Bestie del 900 e i romanzi I fratelli Cuccoli, Roma, Il Doge, Stefanino, e Storia di un'amicizia del 1971 a conclusione della sua lunga produzione narrativa.
Ora per cercare di avvicinarsi e comprendere il più possibile la personalità di Palazzeschi è opportuno fare alcuni riferimenti alla premessa presente nelle Opere giovanili pubblicate nel 1958 da Mondadori, dove sono inserite le vecchie poesie i primi tre romanzi e una selezione della prosa apparsa su Lacerbe, nella quale lo stesso Autore offre una indicazione del sentimento che lo aveva animato in alcune sue opere che risentono «...in certo modo il gusto di quel tempo (che non doveva essere poi l'espressione giusta della mia personalità) e rispecchia fedelmente una giovinezza turbata e quasi disperata». E poi ancora: «E tale fu la mia fino al giorno che tale disperazione e turbamento come per un miracolo, come per virtù di un incantesimo, del quale non saprei io stesso spiegare il mistero (approfondita conoscenza della vita degli uomini, di me stesso?) si risolse in allegria. E pur rimanendo un solitario fedele e geloso della mia solitudine, fui da quel giorno molto allegro, sempre più allegro. Poche persone in questo mondo risero quanto io ho riso, e tale ho saputo conservarmi fino alla vecchiezza». Quindi una allegria che è l'esito finale di un iniziale turbamento e di una dolente visione della vita: quell'allegria, che così larga eco avrà nella sua attività letteraria, sembra quindi nascere da un incantesimo, da una sorta di magia inspiegabile come viene ricordato in questo brano senz'altro significativo e di valido aiuto per comprendere non solo le opere giovanili ma anche quelle della maturità. In primo luogo Palazzeschi accenna alla disperazione e al turbamento della gioventù ma sui motivi tace e le cause di tale stato d'animo non c'è dato sapere né il poeta ne fa cenno: forse le ragioni risiedono nell'abbandono dell'ambiente familiare per intraprendere la carriera dell'attore, vista decisamente con sospetto nei primi anni del Novecento e questa scelta creò sicuramente dei contrasti con i genitori.
Non ancora ventenne, per seguire la sua passione per il teatro, d'altro canto ereditata dal padre, decide di frequentare la Reale Scuola di Recitazione "Salvini" e fra gli allievi conosce Gabriele D'Annunzio e ropratutto Marino Moretti che resterà suo grande amico per tutta la vita. Quanche anno dopo viene scritturato dalla "Compagnia dei giovanissimi" di Virgilio Talli ma dopo pochi mesi di tournée rinuncia definitivamente alla carriera teatrale si dedica alla stesura della raccolta poetica Lanterna che esce nel 1907. Il povero Corazzini con cui ha un intenso rapporto epistolare non fa in tempo a scrivere la recensione promessa perché muore nel giugno del 1907.
Non è casuale che sia in Allegria di Novembre che ne Il Codice di Perelà e ne La Piramide si sia riscontrata da parte di Giorgio Pullini una sorta di ricerca di una «libertà assoluta che sconfina in una potenziale anarchia o, all'opposto, in un isolamento totale dal mondo sociale e in un rifiuto di compromessi contingenti... l'anelito ad una affermazione integrale di sé fuori dai vincoli restrittivi del consorzio civile...».
Esagerazioni o effettive tensioni del poeta poco importa: ciò che preme sottolineare è questo stato d'animo subito ravvisato nelle prime esperienze narrative e a questo riguardo si deve osservare che Allegria di Novembre (il cui titolo originale è Riflessi) è opera coeva con le poesie di Lanterna e dei Poemi dove l'operazione eversiva nei confronti di una certa letteratura, seppur con numerosi limiti, era già presente: sta di fatto che mentre nella poesia Palazzeschi si lanciava a volo libero verso quelle bizzarrie al contrario avvicinandosi alle prime opere in prosa risentiva ancora "immancabilmente" dell'influsso dannunziano e riecheggiava un tono corazziniano, un linguaggio ancora retorico e ridondante: non v'era di sicuro quel carattere innovatore anzi la struttura narrativa si appesantiva del vecchiume del tardo romanticismo con languori ed eccessivi orpelli decadenti e crepuscolari.
 
Come già ricordato, al suo esordio come poeta con le prime raccolte di poesie I cavalli bianchi del 1905, Lanterna del 1907 e Poemi del 1909 ritroviamo di sicuro una ripresa dei temi tipici dei crepuscolari pur mantenendo una originalità che sorpassa ed elimina quegli abbandoni e quei languori, quelle stanchezze, quelle contemplazioni silenziose e quel rimpianto di sogni impossibili ad esempio così cari al giovane Corazzini: sono presenti nella sua tematica i luoghi, le figure, le parole e i paesaggi crepuscolari ad esempio di Govoni, i temi delle beghine, delle vecchine, dei conventi, dei cimiteri, cipressi e salici, chiese e campane, e tutto l'armamentario conseguente così carico di malinconia si inserisce in una nuova dimensione che oscilla magistralmente tra l'ironia e la favola scenografica ed al contempo si assiste più avanti allo svuotamento delle forme tradizionali così forte da ridurre le composizioni ad una sorta di filastrocche fatte per divertire quasi con un sottile piacere nel creare quel famoso gioco eversivo del repertorio poetico.
Sul finire del 1909 entra a far parte della schiera dei futuristi e consegna personalmente a Marinetti il nuovo libro dal titolo provvisorio Sole mio che sarà poi L'incendiario pubblicato nella primavera del 1910 dalle Edizioni Futuriste di Poesia. Partecipa alla memorabile serata futurista al Politeama Rossetti di Trieste e, pur con qualche riluttanza, ad altre manifestazioni futuriste assai turbolente. L'atteggiamento di Palazzeschi nei confronti delle istanze futuriste è quindi da guardarsi con cautela e se da un lato la sua adesione, anche se per pochi anni, è reale e fattiva, si deve osservare come d'altro canto il suo accostamento all'esperienza futurista e all'attivismo marinettiano non è altro che una conseguente continuazione della sua linea eversiva, già presente nel suo intendere la poesia, che diventa azione demolitrice dei nessi sintattici, superamento delle coordinate di tempo e di spazio ma conservando sempre un tono burlesco e canzonatorio soprattutto nei confronti di tutto ciò che appartiene al passato come «le vecchie/reliquie tarlite/così gelosamente custodite/da tanto tempo!». Le sue parole in piena libertà trovano testi esemplari nel già ricordato E lasciatemi divertire ma più in generale Palazzeschi sostituisce il lazzo al sospiro per contaminare il tono elegiaco con lo sberleffo, con la monellesca impertinenza e questa sostituzione regala a buona parte di queste poesie il carattere del divertimento puro, fine a se stesso, come ad esempio nella poesia La passeggiata dove il poeta elenca e registra tutte le parole che legge durante una passeggiata ed ecco che ritroviamo le indicazioni stradali, le insegne dei negozi «antica trattoria, orologeria di precisione, oggetti d'arte quadri antichità, primaria casa di stoffe, cartoleria del progresso, scatole per tutti gli usi, cioccolato Talmone, La pasticca del Re Sole», per finire con il «cinematografo Splendor» e l'«Hotel Risorgimento»: tutto ciò che appare davanti agli occhi viene meccanicamente annotato ed elencato senza nessuna osservazione personale, senza un pur vago ricordo personale e l'unica evidenza è una velato tono scanzonato.
Con quel suo furbesco ed ammiccante sorriso scardina i moduli metrici tradizionali e si avvicina a soluzioni definite da alcuni sperimentalistiche ma forse, più coerentemente, ci troviamo di fronte solo a componimenti che sono una fedele espressione di questa sua disposizione al divertimento.
Come è stato più volte evidenziato, il famoso incontro di Palazzeschi con Marinetti non ha i caratteri di una conversione o di un adeguamento ai dettami futuristi ma la breve, turbolenta e contrastata militanza futurista, offrì a Palazzeschi la possibilità di acquisire una sorta di legittimazione del proprio mondo poetico, una maggiore libertà di sperimentazione ed azzardo espressivo: e questa opportunità sarà utilizzata nel miglior modo possibile creando un più ampio spazio di "agibilità poetica" anche grazie alla spregiudicata promozione marinettiana fino alla dissacrazione della società borghese contemporanea culminante con il manifesto del Controdolore uscito su Lacerba nel gennaio del 1914.
La composizione cruciale di questa intenzione eversiva e dissacrante è appunto E lasciatemi divertire posta a chiusa finale della prima parte del libro. Per capire il senso di questa canzonetta con tutta la sua "strafottenza parodica" si deve tralasciare quel gioco quasi infantile e monellesco delle ripetizioni e delle vocali allungate a mò di sberleffo ma più che altro si deve far attenzione al commento di un ipotetico ascoltatore scandalizzato, a quella voce in controcanto del poeta, a quella sorta di intermediario che riprendono il discorso all'interno del testo della poesia vera e propria.
Tra un Bilobilobilobilobilo e un Cuccuccurucù! a formare una sorta di filastrocca senza senso quasi impronunciabile Palazzeschi trova modo di inserire le sue intenzioni/dichiarazioni e nonostante il gioco, lo scherzo e lo sberleffo vi sono delle determinazioni che riportano all'Incendiario «...non è la vostra una posa/di voler con così poco/tenere alimentato/un sì gran foco?». Dietro al divertimento delle piccole corbellerie c'è la coscienza dell'assoluta gratuità e libertà dell'arte ed il funambolico lasciatemi divertire sembra opporsi al gozzaniano «lasciatemi sognare» ed ancor più v'è l'ironia di chi accompagna la parola futurista fino al paradosso quasi ad annientarne ogni validità se non quella della risata antiaccademica: non a caso i professori origliano scandalizzati alla porta nel sentire queste indecenze, queste strofe bisbetiche. È forte la presa in giro dei benpensanti, di chi si atteggia a saputo solo ad udire un suono inedito d'oltre confine con quel falso internazionalismo di provincia, personaggi ancora legati all'immagine classica e tradizionale della poesia: ora si devono fare i conti con la "spazzatura delle altre poesie", con gli avanzi, con un processo di disinfestazione e desublimazione del linguaggio poetico anche perché tali parole rifiutate non sono poi da buttare via e qualcosa voglion dire: è sufficiente la mano ironica e l'invenzione per ridarle un significato e a Palazzeschi bastan due sillabe ripetute o una vocale per "divertire".
La sua ilarità e la sua abilità da poeta giocoliere non possono che condurlo ad utilizzare per la sua denuncia la figura del paradosso per dimostrare che l'unica forma di poesia che abbia un senso è quella priva di senso: è inevitabile la conseguente necessità di ripartire da zero, dal candore primitivo, dall'istinto e dall'ingenuità fanciullesca.
 
Nella raccolta de L'incendiario vi sono alcuni componimenti che denotano una più evidente novità sul piano dei motivi poetici e per quanto riguarda la prima parte si possono indicare due poesie che hanno conosciuto una buona fortuna critica come La fiera dei morti e Le Beghine. Nella prima poesia siamo davanti ad una beffarda apologia del culto dei morti visto come un intrattenimento mondano o una festa popolare con le bancarelle dei venditori, i saltimbanchi, il via vai festoso, le grida e i rumori in vista dello spettacolo della giornata consistente nella messa all'asta dei teschi e, alla fine della festa, «ogni buon diavolaccio/se ne viene col suo teschio sotto il braccio». Lo stravolgimento palazzeschiano dissacra il rito con una operazione derisoria ribaltandone il valore.
Per quanto riguarda poi la poesia Le Beghine assistiamo ad un exploit palazzeschiano con una ricerca inusuale del lessico tutta tesa ad esaltare l'intendimento comico e grottesco riservato alle figure di queste beghine quasi in un godimento sadico nel fissarne la bizzarria dell'abbigliamento con quelle penne di struzzo, penne di fagiano, velettine come ragnatele, mantiglie di vecchio pizzo e poi a farne delle autentiche maschere: le facce sono pugni di rughe, i colli sono come quelli delle tartarughe e i capelli tinti malamente, si muovono con mosse paralitiche del capo e stampellando per la gotta, piene di compunzione, con quell'aria di superiorità, con quella compassata serietà monacale: ma il poeta nonostante tutto ha ancora la forza di lanciare il suo beffardo grido «eppure siete ancora civette!».
Ma non è finita perché il buon Palazzeschi proprio ora sembra scatenarsi fino a livelli impensabili «Io penso a denudarvi/cavarvi i vecchi giacchetti sbiaditi/i sudici panciotti/che v'ammassate addosso/per la paura delle polmoniti./Spogliarvi, spogliarvi/di quel sudicio fasciume/e avervi nude dinanzi./Gobbe, torte, mostruose/farvi rinascere per un istante solo/un brivido del più orribile desiderio/vedervi balbettare dinanzi sconciamente/stampellare ridendo aizzate/le più vergini vorrei/magari quella/che non fu toccata mai/e darvi i miei vent'anni!/ Sentirvi sotto cigolare/stridere, cricchiolare/schiacciarvi/pestarvi/darvi la più orribile gioia/il più feroce martirio! ... Contaminarvi tutte/tutte, darvi odio, amore, scherno/perdervi, gettare in un sol pugno/al vento, tutte le vostre preghiere/e poi lasciarvi ridendo!/Via! Via! Via!...».
 
Altre poesie, riunite sotto il titolo Al mio bel castello, si avvicinano spesso al puro sberleffo e al lazzo seppur hanno il motto giocoso e buffonesco: da godersi in questo caso la poesia Ginnasia e Guglielmina. «Eccole, come corrono le mie pirine/le due ragazzine civette/come corrono le mie belle sculette!» e poi ancora «Oh! la gioia che provo/quando sento cococococococococodé! Hanno cacato l'ovo!... Chi mi tiene in me? Cocodé! Cocodé!». A suo tempo di sicuro versi assai irriverenti. Sulla stessa lunghezza d'onda ritroviamo Il pranzo: «Che cosa ci posso fare io/se la padrona di casa è una birichina?/Alle volte, perfino,/si mette col suo culo sul mio piatto/e non di rado su quello del vicino»: il tono pare assai significativo e non v'è certo la necessità di riportare altri passaggi ancor più irrispettosi.
 
Ecco allora che possiamo ben comprendere le difficoltà iniziali di Aldo Palazzeschi nel pubblicare le sue corbellerie e lo stesso autore confesserà che utilizzare il nome del suo gatto, Cesare Blanc, come primo editore non fu altro che un espediente per superare l'irriducibile avversione che gli editori mostravano nei riguardi delle sue poesie: «...mi prendevano a calci nel sedere se andavo ad offrire i miei libri. Quei pochi che se ne occupavano parlavano di pura pazzia. Bisogna pensare che cosa erano le mie poesie a quel tempo. Adesso sono diventate il gioco della tombola, le mettono nelle antologie per i bambini accanto alla Vispa Teresa. Ma allora, le cose avevano una piega ben diversa: la poesia era quella paludata di Carducci».
La vita non era certo facile ed i rapporti con gli editori ancor meno ed è superfluo ricordare che Palazzeschi provvide alla pubblicazione con i suoi mezzi, cioè stampò quelle prime raccolte a sue spese.
 
A questo punto credo sia opportuno ritornare al famoso manifesto del Controdolore per comprendere più profondamente il tono dissacrante che animava Palazzeschi in quegli anni infatti nel Controdolore, pubblicato nella raccolta dei Manifesti del futurismo, il paradosso della canzonetta de L'incendiario si fa rovesciamento ed inversione totale dei valori che l'uomo porta con sé.
Partendo dal presupposto che il riso costituisce la ragione della superiorità dell'uomo sugli animali e che l'uomo che piange e che muore costituisce la "massima sorgente d'allegria", il buon Palazzeschi propone il suo particolare sistema per educare l'umanità: ai bambini dovranno essere dati giocattoli zoppi, sbilenchi, orbi; i maestri che li educheranno dovranno essere infermi addirittura ripugnanti; la scuola sarà occasione di lugubri pagliacciate; la morte delle persone care sarà il "momento di gioia più ardente"; gli ospedali diventeranno i teatri e si riderà sulle sofferenze dei malati; i funerali saranno veri e propri cortei mascherati, fonti di giocondità e scherzi; i cimiteri saranno modernizzati e resi più confortevoli con bagni turchi, palestre e bar nonché vi si organizzeranno scampagnate diurne e balli mascherati; le più importanti istituzioni di questo nuovo ordine sociale saranno «i grandi istituti della laidezza e dello schifo, dove chi non ha la tigna naturale, si contenterà di procurarsela a regola d'arte, per non far brutta figura nella buona società, fra coloro che tali doni ebbero dalla natura».
Ma non è finita. Vengono annunciate nuove regole morali: «Riderai quando ne sentirai la voglia in faccia a chiunque e senza guardare in faccia a nessuno» e poi ancora «Riderai vedendo il tuo vicino che piange» che rendono l'idea del tono goliardico dello scritto, indubbiamente sulla linea futurista, anche se l'utilizzo della satira violenta non si addice alla sua inclinazione che è decisamente quella di un ilare umorismo.
Questi accenni ad una non congeniale partecipazione di Palazzeschi al futurismo, che sarà ben presto revocata con una lettera a La Voce, trovano conferma in ciò che scrive più avanti nel Controdolore: La terra «un campo diviso da una fittissima macchia di pruni e spine» non sarebbe che uno degli svariati passatempi di Dio che lo ha posto da un lato dicendogli: "Attraversa, di là è la gioia, la vita degli eletti, l'eterna felicità; vivrai fra i coraggiosi, che come te l'attraverseranno, rideranno con me del dolore dei poltroni, dei paurosi, dei vili, dei vinti, ti fonderai per sempre nella luce della mia beatitudine gioconda ed eterna". L'uomo che attraverserà coraggiosamente il dolore godrà lo spettacolo del Signore. Le esortazioni alla creazione di questa nuova società in cui dominerà il riso hanno dunque come condizione inderogabile l'attraversamento di questa zona irta di spine che rappresenta il dolore dell'esistenza: quindi non siamo di fronte alle suggestioni della violenza pura e irrazionale ma ad una pietosa considerazione della sofferenza umana e il preciso accenno al dolore è l'elemento che conferma tale osservazione.
 
Credo che se rileggessimo in blocco l'intera opera palazzeschiana ci accorgeremmo che, con esiti più o meno positivi, la linea seguita dallo scrittore non ha subito stravolgimenti o cedimenti di sorta ma con tenacia ed arguzia ha mantenuto inalterato il suo linguaggio, non ha mutato i temi ed ha sempre mantenuto una personale vivida fantasia: di certo viene ad affievolirsi la prorompenza del primo futurismo e inizia a fare i conti con la tradizione ma Palazzeschi continua a creare a getto continuo i personaggi a lui tanto cari per farli esplodere con il suo grottesco. Scriverà Montale: «Palazzeschi non è un critico della nostra società; i problemi lo lasciano indifferente ed anche il rimpianto delle buone cose di pessimo gusto in lui non è un omaggio a una moda letteraria che del resto stava tramontando. I suoi eroi grotteschi sono personaggi che amano la vita e la vivono diversamente da noi uomini normali, l'assurdo è per lui uno dei modi più positivi di sperimentare la vita. Donde, per questo autore che se ne infischia della storia, della società e di ogni sottile problematica, la necessità di non allontanarsi troppo dai margini del verosimile e il bisogno di ficcare lo sguardo nelle piccole vicende quotidiane che formano il tessuto della nostra vita».
Sempre accentuata fu la sua disponibilità verso le "cose strane" del mondo con quella libertà da qualsiasi preconcetto d'arte e quella attenzione verso le invenzioni e i paradossi della vita. La fantasia, i giochi e gli scherzi di Palazzeschi nascono da questa propensione ed hanno come sottofondo lo spettacolo multiforme e buffo del mondo che nasconde delle verità ben più consistenti delle nostre certezze che spesso si rivelano essere delle fragili illusioni. Ad ogni modo in alcune opere la sua bizzarria nel guardare le cose della vita sembra andare di pari passo con quella continua lotta contro le "cose serie" accompagnata da un sotterraneo tentativo di frantumare le regole, contrapporsi agli schemi prefissati utilizzando un personale repertorio tematico, scardinare l'ordine precostituito per operare una frattura nella convenzione: il suo motto è «anteporre l'assurdo al normale».
 
Quindi Palazzeschi conservò con tenacia una sua fisionomia, una particolarissima natura della sua arte, una dimensione di personale indipendenza. Come a valorizzare e ad autenticare questa dimensione personale ed unica v'è la famosa e grottesca autodefinizione dello stesso autore che è rivelatrice della natura e della dimensione della sua arte: «Chi sono? Il saltimbanco dell'anima mia».
Fu questo l'atteggiamento di Palazzeschi davanti alla realtà del mondo ed egli si pose appunto di fronte alla vita con quello stesso atteggiamento dello spettatore che seduto in poltrona intende godersi lo spettacolo offerto dagli uomini che incessantemente continuano a preoccuparsi, esageratamente persistono ad agitarsi nelle loro multiformi manifestazioni alienate ed alienanti. E lui, poeta e scrittore, ne avverte profondamente l'assurdità, ne percepisce indistintamente la forte componente ineliminabile del dolore, ne distingue una sorta di aridità ed ecco allora che arriva, decisa e convinta, la sua reazione con l'umorismo, con la monellesca impertinenza, con lo sberleffo, con il divertimento che lo portano in primis ad una deformazione caricaturale della realtà, poi all'adozione strumentale della favola fino ad esasperarla con un accentuato uso moralistico, poi all'accoglimento della realtà come materia di osservazione per i suoi racconti ed infine al recupero del lirismo negli ultimi anni grazie ad un ritorno alla giovanile vena poetica con le raccolte Cuore mio del 1968 e Vie delle cento stelle del 1972.
Vale la pena soffermarsi, sia pur brevemente, proprio su Cuore mio nel quale Palazzeschi riunisce le poesie che, dopo una interruzione di trenta anni, aveva ripreso a scrivere. La raccolta di poesie non permette di aggiungere niente di nuovo a quanto già abbiamo detto sulla produzione poetica giovanile anche se, in questo caso, assistiamo ad un tentativo di modernizzazione con schemi mutati che inesorabilmente lo portano ad essere soltanto prosastico e con una innegabile fragilità d'ispirazione e di tematica. Il riferimento a Cuore mio è interessante più che altro con riguardo a ciò che il poeta scrive nella Prefazione nella quale ci offre una significativa testimonianza del suo modo di concepire ciò che è pertinenza dell'arte. Dopo aver sostenuto che le poesie della raccolta vennero scritte «senza intenzione e senza regola» quasi «estranee nel modo più preciso al fenomeno della volontà», afferma: «Dovete considerare che io non sono lesto a capire, le cose le capisco sempre dopo quando non c'è più tempo, ma una volta entrate, sempre in ritardo, nessuno può riuscire a cavarmele dal cervello; per quello che ho potuto capire dunque e non già in virtù delle mie poesie ma in quanto detto dagli altri sul conto loro, due sono le vie che conducono all'arte: il puro istinto e la conoscenza, lo studio, l'amore per l'arte medesima. Non che il primo non abbia amore per l'arte quanto il secondo ma il suo amore è di natura diversa, che potrei definire fisico, spensierato di fronte all'altro meditato, misurato, essenzialmente intellettualistico. L'istintivo amò l'arte quando nulla sapeva, l'amò come si può amare una persona e allorquando tante cose saprà, ammesso che abbia voglia e interesse di conoscerle, può farne benissimo a meno, gli serviranno solo ad accorgersi di se stesso perché come i doni naturali non s'era accorto di averlo, e magari giocargli qualche tiro birbone se non sta attento, a minacciarglielo senza dubbio...» «L'artista istintivo, riuscito a crearsi una forma, senza grandi difficoltà, quando vi sia riuscito con naturalezza, la sua esistenza è tutta lì, rimanendo in certo modo prigioniero della propria personalità senza che nemmeno se ne accorga, di sé medesimo: non può fare quello che vuole, fa quello che può e pure, seguendo la propria traiettoria, sviluppandosi, maturandosi, affinandosi, non può cambiare i propri connotati...». Palazzeschi difende, insomma, la sua natura istintiva, quella istintività della fantasia e dell'estro che più volte abbiamo indicato come caratteri peculiari della dote più cospicua dello scrittore: «La poesia del Novecento nasce col verso libero e questo potrebbe essere il punto d'avvio... Miraggio giovanile eccessivamente ambizioso e temerario questo del verso libero in quell'ora, che sciogliendo la poesia dalle antiche pastoie pretendeva che ogni poeta realizzasse una propria inconfondibile musica: un ritmo, un accento, una cadenza capace con un solo verso di distinguerlo da qualsiasi altro...».
La sua dimensione e la sua indole di scrittore, la cifra stessa della sua produzione sono individuabili soprattutto nell'agilità inventiva che contraddistinse il giovane Palazzeschi, in quella disposizione al bizzarro, al gratuito, al grottesco, all'incongruente in cui si ritrovano i momenti più felici della sua opera. Il clima del divertimento fantastico fine a se stesso quasi in una sorta di orgasmo spettacolare alimentato dalle numerose invenzioni, dalle sprezzature sintattiche così criticate, dai lazzi e frizzi fino all'insolito ed all'irrazionale; e quel fanciullo palazzeschiano, più infantile ancora di tutti gli altri, ma anche più perverso e malizioso. La novità consiste nel coraggio di ascoltare sinceramente tutte le voci, senza disporle in un ordine prefissato, senza immedesimarsi con nessuna: un isolato, un indipendente dotato di una ironia sofferente e di un umorismo fiabesco che non dimentica la smorfia e la deformazione con una malizia grottesca e al contempo con una ingenuità infantile.
 
L'ilare dramma della vita, tra allegria e stupore, tra spazzatura e poesia. La "difficile musa" di un saltimbanco dell'anima dotato di una originalità inimitabile sempre alle prese con la sua personale parata delle esorbitanze in una sorta di apocalisse per scherzo; Re per gioco dell'incontrastato regno della poesia per ridere. Ogni giorno fu per lui un viaggio paradossale di un funambolo incosciente e quando sentiva gli amici lamentarsi perché in tarda età non gli si spegneva il sesso, rispondeva candidamente che a lui non gli si spegneva la fantasia e in una divertente intervista del 1971 affermava «La fantasia è il mio sesso».
Leggendaria era la sua riservatezza e non aveva il telefono: per essere ricevuti o poterlo intervistare occorreva scrivere ed attendere la risposta con la posta. Con tono divertito diceva «Sono fatto per la solitudine e non mi annoio. Mi manca sempre il tempo di non far nulla. Le mie giornate passano rapidissime. Arriva la sera e magari non ho fatto niente". Quando lavorava invece rimaneva al tavolino un paio d'ore ma "senza una regola... anzi la regola mi uccide... lavoro solo quando ne ho voglia. Per me scrivere è una questione fisiologica. Viene un momento che veramente ne ho voglia come se avessi voglia di mangiare o di dormire».
L'opera di Palazzeschi va quindi accettata per quello che è: non gli si può chiedere né qualcosa di più né qualcosa di diverso da quello che il poeta del divertimento in effetti è. Non è un caso che buona parte della feroce critica abbia parlato di «disabitudine nell'osservanza delle regole costruttive del periodo» e abbia sottolineato in varie occasioni che le sue poesie hanno tutta «l'apparenza di frammenti di filastrocche destinate a giornali e libri illustrati per ragazzi».
V'è chi ha enfatizzato sulla candida primitività, sull'ingenuità, sull'insistita bizzarria, sulle continue concessioni al lazzo e allo sberleffo di molte delle sue composizioni poetiche: e non sono meno violenti alcuni rilievi critici sulle opere in prosa e sui romanzi fino ad arrivare a parlare di estrema fragilità della tematica, di arbitri sintattici, di vere e proprie scorrettezze della sua prosa (del resto verificabili in diverse prime edizioni) o addirittura di uno speriodare come nell'uso inaccettabile del relativo che ricorre con frequenza, delle insistite iterazioni, delle espressioni approssimative, del capovolgersi dei soggetti in oggetti o della aggettivazione arbitraria e dell'irrazionalità narrativa.
Tanto rumore per nulla.
Prendiamo atto che il buon Palazzeschi non incarna certo il poeta sacrale divine inspiratus ma con il suo lasciatemi divertire è riuscito ad appropriarsi, e a fare suo, uno spazio lasciato vuoto da altri forse più consapevoli e valenti ma indubbiamente meno rapidi nel cogliere l'occasione al volo. Aldo Palazzeschi al contrario non ha perso tempo e con acutezza di spirito è riuscito a coinvolgere nella sua burla tutto e tutti: diamo a Palazzeschi ciò che è suo.
 

Massimo Barile


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