È uscito il n° 125-126
Gennaio-Febbraio 2003
dell'edizione cartacea de Il Club degli autori
è stata spedita ai soci del Club degli autori il giorno 26 febbraio 2003
 
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I grandi Poeti del Novecento:
Giuseppe Ungaretti Perennemente per riedificare l'Uomo di Massimo Barile
Con queste pagine ripercorreremo in una obbligata sintesi l'itinerario poetico e la vicenda umana di Giuseppe Ungaretti: uomo del nostro tempo, poeta che fu unico fin dal suo esordio e, per tutta la vita, mantenne fede a quella espressione, direi quasi filosofia, dell'uomo di pena. Attraverso le varie fasi del suo percorso Ungaretti riuscirà sempre ad inserire sulla sua lingua poetica, popolare e parlata, i sensi di cui si accresceva come Uomo, man mano che la sua esistenza si dipanava, rimanendo sempre fedele a quella urgenza d'altronde già presente fin dai tempi del Porto Sepolto e poi dell'Allegria: la necessità umana che la storia della sua poesia non sarebbe stato altro che un diario e la storia della propria vita un'autobiografia scritta appunto per necessità umana.
Non a caso Ungaretti scriveva in ogni luogo e in ogni momento: sulla circolare che dall'Università lo riportava a casa dopo le sue lezioni, in casa, in guerra sul Carso, nel soggiorno parigino. Scriveva d'impeto anche in trincea, sdraiato sul fango, con un lapis segnava i versi sul suo quadernetto: Un'intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato... nel mio silenzio/ho scritto /lettere piene d'amore./Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita. (23 dicembre 1915).
E' doveroso ricordare che, prima di essere chiamato alle armi e mandato sul Carso, Ungaretti scrive alcune poesie (pubblicate per la prima volta su Lacerba) sollecitato da Papini, Soffici e Palazzeschi che dirigevano appunto Lacerba. Alcune di queste prime poesie Il paesaggio d'Alessandria d'Egitto, Cresima, Le suppliche, Sbadiglio, ad esempio, saranno definite dalla critica palazzeschiane ma è ancor più importante sottolineare come Ungaretti le riprenderà utilizzando alcune strofe, spunti, stimoli dettati da quelle lontane poesie anche nell'ultimo periodo della sua attività poetica. Di queste prime poesie Ungaretti osserverà più tardi che "...erano poesie scritte come dovevano essere scritte" e cioè tentando di rappresentare ciò che in quell'ambiente lo circondava, il sentimento di quel momento con le sue variazioni e cercando di fissarlo nel modo più laconico possibile: "Quelle mie poesie sono ciò che saranno tutte le mie poesie che verranno dopo, cioé poesie che hanno fondamento in uno stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia: non conosco sognare poetico che non sia fondato sulla mia esperienza diretta".
Non v'è nessun dubbio che sarà così: tutta la sua poesia nascerà e si fonderà sulla esperienza diretta, umanamente vissuta, dolorosamente sofferta.
E proprio i versi della sua prima raccolta Il Porto Sepolto pubblicata poi nel 1916 sono iniziati in quei primi giorni della sua vita in trincea, nel periodo di Natale del 1915, sul Monte San Michele nel Carso: "...ho passato quella notte coricato nel fango, di faccia al nemico che stava più in alto di noi ed era cento volte armato meglio di noi. Nelle trincee... per un anno si svolsero i combattimenti. Il Porto Sepolto racchiude l'esperienza di quell'anno. Ero in presenza della morte, ero un uomo che faceva la guerra e non l'idea di uccidere o di essere ucciso mi tormentava: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l'assoluto, l'assoluto che era rappresentato dalla morte, non dal pericolo, che era rappresentato da quella tragedia che portava l'uomo a incontrarsi nel massacro. Nella mia poesia non c'è traccia d'odio per il nemico, nè per nessuno: c'è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell'estrema precarietà della loro condizione. Ne Il Porto Sepolto c'è quell'esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell'appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte. Non amo la guerra. Sono anzi un uomo della pace... ma pareva che la guerra s'imponesse per eliminare finalmente la guerra. Erano bubbole, ma gli uomini a volte si illudono e si mettono in fila dietro alle bubbole".
Questa è la parola di Giuseppe Ungaretti.
Un poeta che scriveva in ogni situazione, prendeva appunti su qualsiasi frammento gli capitasse sotto mano ed Il Porto Sepolto (stampato ad Udine nel 1916 in edizione di ottanta esemplari a cura di Ettore Serra) nasce da quei foglietti: cartoline in franchigia, margini di vecchi giornali, spazi bianchi di care lettere ricevute "...sui quali da due anni andavo facendo giorno per giorno il mio esame di coscienza, ficcandoli poi alla rinfusa nel tascapane, portandoli a vivere con me nel fango della trincea o facendomene capezzale nei rari riposi, non erano destinati ad un pubblico... non avevo partecipato alla guerra per riscuotere applausi, avevo un rispetto tale d'un così grande sacrifizio com'è la guerra per un popolo, che ogni atto di vanità in simili circostanza mi sarebbe sembrato una profanazione. Questo era l'animo del soldato ... che non avevo altro ristoro se non di cercarmi e di trovarmi in qualche parola, ch'era il mio modo di progredire umanamente".
Questo è l'animo del poeta.
 
L'Allegria
Insieme alle poche poesie sparse che apparvero su Lacerba nel febbraio del 1915, anche Il Porto Sepolto del 1916 è confluito poi nell'Allegria di Naufragi del 1919 pubblicata da Vallecchi a Firenze, dove è già visibile quel carattere di unicità che sigla subito il suo esordio. L'Allegria di Naufragi è la presa di coscienza di sé, è la scoperta che tutto è naufragio, tutto può essere travolto, soffocato, consumato dal tempo; è l'esultanza che l' attimo offre proprio perchè fuggitivo, quell'attimo che soltanto amore può strappare al tempo, quell'allegria che non avrà mai se non il sentimento della presenza della morte da scongiurare. E' una esperienza concreta, vissuta sulla propria pelle, fin dall'infanzia passata ad Alessandria d'Egitto e che poi la guerra del 1914-1918 non fa altro che fomentare ed approfondire.
Quella presa di coscienza di sè che culmina con il canto I fiumi scritto in piena guerra in trincea dove sono enumerate le quattro fonti, il Nilo, il Serchio, l'Isonzo, la Senna: i fiumi che mescolano le loro acque con il sangue del poeta, i quattro fiumi il cui moto dettò i canti del poeta. Non a caso I fiumi è una poesia esemplarmente lunga perchè in quel periodo la poesia è breve, spesso brevissima, laconica: "bastavano alcuni vocaboli deposti nel silenzio come un lampo nella notte, un gruppo fulmineo d'immagini per evocare il paesaggio sorgente d'improvviso o ad incontrarne altri nella memoria" così ricorderà Ungaretti.
Ungaretti affida a questa lirica quello che fu, fino ad allora, un bilancio esistenziale ricostruito attraverso una serie di immagini di notevole suggestione.
"Mi tengo a quest'albero mutilato / abbandonato in questa dolina": è l'uomo che dispiega il suo sforzo per mantenersi in equilibrio nella precaria condizione della guerra, come un acrobata sull'acqua il poeta cammina con prudenza sui sassi scivolosi del fiume della vita con la sua precarietà... "Mi sono accoccolato / vicino ai miei panni/ sudici di guerra e /come un beduino/ mi sono chinato a ricevere /il sole" e questa figura diventa il simbolo di una umanità genuina e semplice, primordiale e naturale: una predisposizione del poeta a raggiungere un intimo e profondo rapporto con la natura. Ecco allora che il poeta rivive i momenti che lo hanno portato ad essere quello che è, a prendere coscienza di se stesso e passare poi in rassegna i fiumi che ha conosciuto: Questo è il Nilo il fiume che bagna Alessandria d'Egitto dove il poeta è nato, il fiume della sua infanzia e dell'adolescenza, denso di tutta l'inesperienza e l'inconsapevolezza di quell'età. Infatti Ungaretti passò in Egitto gli anni dalla nascita (8 febbraio anche se denunciato all'anagrafe solo il 10 febbraio 1888) fino a quel giorno del 1914 quando a bordo di un piroscafo venne in Italia. E quegli anni passati in Egitto sono pur sempre anni formativi e quel paesaggio, quella malinconia dolcissima espressa nella cantilena del beduino, quel crepuscolo ondeggiante come per sempre sulla sabbia, quel deserto in cui si muove da ragazzo è comunque pur sempre un deserto pieno di oasi, di luoghi di speranza. In seguito a quel paesaggio si contrappone il paesaggio italico ricco di vegetazione e colmo d'arte, dove la mano dell'uomo si fa presenza storica, e infine con la Terra promessa, la poesia che chiude il Taccuino del Vecchio, ritornerà al deserto: "Poi mostrerà il beduino/ Dalla sabbia scoprendolo/Frugando col bastone/ Un ossame bianchissimo".
 
Questo è il Serchio il fiume che scorre vicino a Lucca, la città originaria dei suoi genitori, il fiume degli avi del poeta, il fiume dove affondano le sue radici di uomo legato alla terra, alla sua gente campagnola. Il padre di Ungaretti è emigrato per lavorare al canale di Suez ma muore per una malattia contratta sul lavoro e il piccolo Ungaretti che ha solo due anni resta accanto alla madre caritatevole e forte... una statua davanti all'Eterno e poi nella poesia Lucca: "A casa mia, in Egitto, dopo cena... mia madre ci parlava di questi posti/ La mia infanzia ne fu tutta meravigliata".
 
Questa è la Senna che bagna Parigi dove il poeta visse parte della giovinezza, il fiume che fu testimone della sua formazione culturale e della sua maturazione morale: nella complessità delle esperienze e degli stimoli, confusi e pieni di contraddizioni di quel periodo, il poeta ha cominciato a conoscere se stesso. V'è da dire che durante il soggiorno parigino vi furono le letture e le lezioni di Baudelaire, Rimbaud, Mallarmè fino all'amicizia con Apollinaire al quale Ungaretti inviò una copia fresca di stampa de Il Porto Sepolto. Da quel momento i loro rapporti divennero fraterni. Scriverà: "Fra Apollinaire e me era avvenuto un avvicinamento insolito. Sentivamo in noi il medesimo carattere composito e quella difficoltà che l'animo nostro aveva di trovare la via di assomigliare a se stesso, di costituire la propria unità. Quell'unità non l'avremmo mai trovata altrove se non ricorrendo alla poesia. Era la ricerca, era il ritrovamento di un linguaggio liberatore se riusciva a manifestare l'angosciosa ricerca di sé".
Quando il reggimento di Ungaretti viene mandato in Francia per aggregarsi al Corpo d'Armata, durante le brevi licenze di cui poteva usufruire, si recava a trovare Apollinaire a casa sua e quei periodi rimarranno ricordi indelebili, fonte di stimoli per la sua vita e la sua poesia. Alcuni giorni prima dell' Armistizio, Ungaretti viene inviato a Parigi per collaborare ad un giornale destinato ai soldati ed è grande il suo dolore quando trova Apollinaire morto "con la faccia coperta da un panno nero" e al suo fianco la moglie piangente.
Nel 1919 Giuseppe Ungaretti sposa Jeanne Dupoix ed abita in rue Campagne Premiére dove nella solita trattoria incontra quasi ogni giorno Modigliani sempre accompagnato dalla sua giovane donna. Modigliani non mangiava quasi nulla... non smetteva di disegnare la gente... e lasciava sulla tavola quei disegni...
Poco tempo dopo seppe che Modigliani era morto non per alcoolismo ma per la febbre spagnola malattia che infieriva allora: il giorno stesso della sua morte la sua donna che era incinta si getterà dal balcone.
Ma gli incontri a Parigi furono numerosi sia in quel periodo che nel dopoguerra con Soffici e Palazzeschi, con Boccioni, con Carrà, con Marinetti; e poi con Braque e Picasso, con Delaunay, con Sorel, con Bergson. Furono tutti incontri che hanno avuto una decisiva importanza nella sua formazione e nella sua poesia. Dopo la guerra Ungaretti conobbe anche Giorgio de Chirico e fu tra i primi a conoscere direttamente le sue Piazze scoperte da Apollinaire al Salon des Indépendents e poi così osannate. Subito dopo la guerra Ungaretti recuperò dalla casa dove abitava con sua moglie alcune opere raffiguranti le Piazze e le vendette inviando l'importo a de Chirico in quel momento nella miseria.
In quegli anni tra il '19 e il '20 si trasferisce in Italia e in quel periodo vive duramente tenendo conferenze all'estero in Francia, in Spagna, in Olanda, in Belgio e pubblica sui giornali articoli di viaggio parlando di letteratura e di pittura. In una piccola casa a Marino, nelle vicinanze di Roma, (dove nascerà nel 1930 il figlio Antonietto), il poeta ricorda che nello studio il tetto sfondato "cascava sulla testa e pioveva dentro". Quel periodo di vita assai dura e faticosa, nella mancanza totale di agi fu invece per la sua poesia uno dei momenti più felici, il momento nel quale si forma il Sentimento del Tempo dal 1919 al 1935. La sua esperienza di poeta e la sua poesia raggiunsero le qualità espressive dalle quali ha poi proseguito per tutta la vita. Fu un periodo fecondo per la poesia anche se non facile dal punto di vista esistenziale.
Ma la sua vita non fu mai facile.
 
A tutti gli effetti, l'ambiente letterario non influisce poi più di tanto sulla sua formazione anche perchè in Ungaretti è sempre presente un rifiuto di eleganza di emozioni colte musicalmente e il poeta non cerca mai la suggestione raffinata o le soluzioni di linguaggi simili ad altri e nella sua poetica nemmeno si rivolge al recupero culturale di antiche civiltà. Lo stesso Paul Valery con la sua elaborazione tutta razionale, con la sua grande dote inventiva, costruisce e propone con rigore ed eleganza ineguagliabile la sua poesia ed è assai distante da quella di Ungaretti affidata ai movimenti del sangue e della natura.
In quegli anni Parigi più che altro fu la scoperta di un sentimento nuovo, e forse, come scriverà lo stesso Ungaretti, di un colore nuovo, il grigio, con le sfumature infinite che può assumere: gli oggetti, il cielo, gli alberi e le stesse persone potevano graduarsi nelle delicatezze di un colore. E quel perdersi, quello spegnersi e quell'accendersi dei grigi, mai malinconici, furono come un risveglio perenne e "l'innamorarsi, da un'agonia dolcissima".
 
Anche la lettura delle poesie francesi di Ungaretti rende chiaro come l'operazione compiuta dal poeta sia riuscita a proporre una lingua poetica italiana non somigliante ad alcun'altra, popolare tanto da poter resistere al tempo e lingua parlata, ieri come oggi, perchè nata semplice e spontanea. Fu un ripartire da zero per costruire un nuovo canto. La sua metrica spezzata sgombrò il campo dalle accademie o dalle manie e la sua voce si erse solitaria, la voce ungarettiana fu forte ed unica, la sua parola sentita a misura umana. Ungaretti si muoveva soltanto per quel dettato che sentiva dentro, misteriosamente, forse, senza neppure saperne o conoscerne pienamente e coscientemente il perché. La metrica distrutta nei versicoli sembrava proporre un discorso poetico nuovo, colloquiale e popolare, ed in quella drammatica situazione umana della guerra, gli eroi dei suoi versi erano proprio gli uomini, i fanti, la gente del popolo: unica strada per tornare a ridare nella tradizione poetica italiana il canto.
 
Questo è l'Isonzo nelle cui acque come uomo si è liberato dalle tossine della guerra ed ha provato la sensazione di far parte della vita universale e si sente una docile fibra/dell'universo mentre le acque del fiume penetrano nel suo corpo e lo fanno sentire in armonia con l'universo. In questo recupero memoriale delle diverse fasi della sua vita, ognuna delle quali porta con sè e fa avvertire un senso di nostalgia, il poeta chiude la sua meditazione con una immagine che ripropone il motivo della solitudine dell'uomo, immerso nelle tenebre del mistero e del dolore: la sua vita di uomo in questa tragica realtà della guerra appare chiusa adesso in un mondo di ombre.
Ma Ungaretti non è poeta dal tono nostalgico: "Non sono il poeta dell'abbandono alle delizie del sentimento, sono uno abituato a lottare, e devo confessarlo - gli anni vi hanno portato qualche rimedio - sono un violento: sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte". Nelle poesie di quel primo periodo si scopre e si identifica, dentro gli orrori e le tragedie della guerra, nell'uomo di pena, e confesserà il poeta: "come tale, Ungaretti, uomo di pena, mi parrà di dovermi anche in seguito, sempre, identificare".
 
E' importante sottolineare come la poesia di Ungaretti nasce in un clima di rapporti letterari e culturali fuori dalle dispute, quasi appartato, lontano dalle polemiche, dalle diatribe e sopratutto dalla necessità di una presa di posizione netta all'interno del panorama letterario italiano.
E' indubbio che già nel 1919 con Allegria di Naufragi i caratteri del poeta sono ben saldi come ben definita è già la tematica di fondo della sua continua ricerca, quel costante rinnovare dall'interno l'espressione poetica: la poesia del Porto Sepolto nasce dal deserto dell'Egitto ed è subito orientata verso la Terra Promessa.
E' forse per questo motivo, come è stato acutamente sottolineato dalla critica, che la sua formazione e l'inizio poetico devono pur sempre rendere omaggio a quegli anni passati in Alessandria d'Egitto: fu una fase preparatoria della fulminante unicità della sua poetica. Fortunatamente in quei luoghi non dovette fare i conti con l'oratoria dannunziana, con l'accademia carducciana, col pascolismo di maniera, con la stagione crepuscolare: Ungaretti non fu obbligato a compiere scelte di parte, a fare i conti e confrontarsi con le differenti esperienze poetiche per trovare poi una propria esemplarità come Campana, Saba o Montale. L'identità poetica cresce e si sviluppa in Ungaretti senza le pressioni e i martellanti lavori ai fianchi che potevano influenzarlo o convogliarlo verso altre strade: ne è dimostrazione il fatto che appena sbarcato in Italia si trova subito in mezzo alla mischia e, in seguito all'entrata in guerra dell'Italia, decide di essere interventista. E' chiamato alle armi e mandato sul Carso come soldato semplice del 19° Reggimento di Fanteria. E proprio in trincea inizierà a scrivere i versi della sua prima raccolta Il Porto Sepolto confluita poi nell'Allegria dove troviamo la lirica I fiumi.
 
Il sentimento del tempo
Questo superamento della propria definita e circoscritta condizione per arrivare ad un emblema della condizione di tutti gli uomini avviene con la seconda raccolta Sentimento del Tempo pubblicata nel 1933: l'uomo di pena è ora l'Uomo, la poesia aspira a dar voce a conflitti eterni, al mistero, a ricercare certezze ed approdi: sentire il tempo, l'effimero in relazione con l'eterno come dirà il poeta, la tensione esistenziale, il doloroso cammino per superare la dimensione terrestre.
"Quando mi posi al lavoro del Sentimento del Tempo, due poeti erano i miei favoriti: ancora il Leopardi e Petrarca. Che cosa potevano rappresentare quei due poeti per me? Leopardi nella sua poesia ha manifestato con disperazione il sentimento della decadenza, ha sentito che la civiltà alla quale si sentiva legato era giunta ad una trasformazione che la interessava tutta, da cima a fondo. Una lingua assumeva coscienza del proprio invecchiamento. Il Petrarca s'era trovato di fronte ad una letteratura antica che occorreva inserire nelle lingue vive... semplicemente fondare una lingua nuova su basi provate. Petrarca si trovava in presenza di rovine e la memoria di quell'antica esperienza non gli offriva che rovine, che aspetti mutilati. Quando Leopardi acquista il sentimento della decadenza ciò che ha davanti non fa che perdere gradualmente energia. Dunque da una parte una poesia effetto di mutilazione, dall'altra parte una poesia effetto della consapevolezzza che il rinnovamento dovuto a quella mutilazione era stato autentico ma destinato a perdere energia ed avviarsi a morte".
Negli anni nei quali Ungaretti scrive il Sentimento del Tempo si trova a Roma, dove ancora oggi si può vivere quel sentimento dell'eterno ed essere pervasi da quel sentimento del vuoto che tanto lo influenzarono. La poesia di Ungaretti trova forma osservando il paesaggio, osservando Roma o la campagna romana nel mutamento delle stagioni. Quasi tutte le poesie della prima parte del Sentimento descrivono paesaggi d'estate, dove l'aria è pura ed il poeta afferra la natura solo quando è in preda al sole: il Sentimento del Tempo è dunque, nella prima parte, la pienezza implacabile del sole, la stagione di violenza e, nello stesso tempo, nel secondo momento del libro, la clausura dell'Uomo dentro la propria fralezza.
Come in ogni altro momento della sua poesia così anche nel Sentimento v'è l'uomo che il poeta è, prigioniero della propria libertà, poichè come ogni altro essere vivente è colpito dall'espiazione d'una oscura colpa, non ha potuto non far sorgere la presenza d'un sogno d'innocenza, quella dell'universo prima dell'uomo.
Nel Sentimento c'è anche un ricorso alla mitologia che non poteva esistere nell'Allegria: "Vivendo a Roma come non potevano non diventarmi familiari gli antichi miti? Erano presenti ovunque e li vedevo in continuazione e rappresentavano i miei stati d'animo con naturalezza".
Ma ritroviamo soprattutto quella pienezza di una stagione straordinaria, di una natura con i suoi eterni paesaggi: quel paesaggio che si alterna tra Roma, Tivoli e il lago di Albano. La nascita dell'aurora, il declivio dell'aurora, il sole che pare esitare (Esiti, sole?) e poi l'estate. Arso tutto ha l'estate nella poesia Sereno: ...Estate... Risvegli ceneri nei colossei... nella poesia D'Agosto; L'ora d'estate che disamina: ...è l'estate e nei secoli / con i suoi occhi calcinanti / va della terra spogliando lo scheletro; e poi ancora... L'ultimo caldo se ne andrà a momenti / E vagherai indistinto nella poesia Ombre ed infine L'uva è matura, il campo arato, / si stacca il monte dalle nuvole nella poesia Quiete.
Il sentimento della precarietà della propria condizione, la costante tragica e dolorosa della vita che è creazione e distruzione, vita e morte. Che cosa poteva essere la poesia se non la "ricerca inesausta e mai approdata a soluzione del motivo di tutto ciò? Insomma la mia poesia inclinava a porsi il problema religioso".
E' per questo che il Sentimento può dividersi in due momenti. La prima parte è la presa di possesso di una città che il poeta doveva fare sua perchè la città natale era straniera e Roma diventerà familiare agli occhi del poeta e al sentimento mediante il passaggio delle stagioni e la prepotenza delle sue estati. In un secondo momento c'è sempre Roma al centro delle meditazioni, ma diventa nella sua poesia quella città dove l'esperienza religiosa si ritrova con un carattere inatteso di iniziazione. E' comunque indubbio che Ungaretti, lungo tutto l'arco della sua esperienza poetica, ha sempre meditato sui problemi dell'uomo e del suo rapporto con l'eterno, come sul problema dell'effimero e sul problema della storia ed è quindi normale che anche in seguito, proseguendo la sua strada già ben definita fin dall'esordio, tornerà a meditare su tali problematiche sempre con maggiore profondità.
Lo stesso Ungaretti richiamerà l'attenzione sulla divisione in capitoli sia dell'Allegria che del Sentimento scrivendo che ogni diversa parte di questi due libri forma un canto, nella sua organica complessità, - con i suoi dialoghi, i suoi drammi, i suoi cori - unico e indivisibile.
E' lo stesso Ungaretti che ha indicato la portata del recupero della tradizione e della lezione dei classici, in quella dimensione europea e in quel clima culturale nel quale si accingeva con la ricerca del Sentimento del Tempo, a riproporre per la nostra poesia un canto accordato in chiave d'oggi... e reso così di nuovo a noi familiare. E' facile cogliere il senso della sua ricerca, di un'àncora di salvezza solo nel canto quando dichiara: "Ma in quegli anni da noi non c'era chi non negasse che fosse ancora possibile, nel nostro mondo moderno, una poesia in versi. Si voleva prosa: poesia in prosa. La memoria a me pareva, invece, indicasse un'ancora di salvezza solo nel canto, e rileggevo umilmente i poeti, i poeti che cantano. Non cercavo il verso di Jacopone o quello di Dante, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi: cercavo il loro canto. Non era l'endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che cercavo; era l'endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli, attraverso voci così numerose e così diverse di timbro e così gelose della propria novità e così singolari ciascuna nell'esprimere pensieri e sentimenti: era il battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei maggiori di una terra disperatamente amata".
E poi più avanti sempre in quello scritto del 1930 sulla Gazzetta del Popolo affermare ancora: "La Jeune Parque di Paul Valéry stupisce per la musica verbale che da miracoli di metrica si innalza in pura architettura... Picasso scopre Pompei, Raffaello e Ingres e si converte a classiche eleganze. Carrà, superato il futurismo e alleatosi, per un attimo all'avventura metafisica di de Chirico, oramai ricerca in Giotto i valori della sua pittura".
Era sentirsi in armonia con gli uomini che facevano la storia dell'arte: immergersi nella continua ricerca.
E' curioso ed interessante al contempo ricordare che la prima edizione del Sentimento del Tempo fu accolta da grandi discussioni e alcuni periodici attaccarono duramente la poesia di Ungaretti con centinaia di saggi, attacchi, biasimi anche se non mancarono le lodi. Ecco cosa scrisse il poeta: "La statistica è la scienza dei nostri tempi e può servire, anche nel nostro campo, a qualche utile considerazione. Il 50% delle critiche, in bene o in male, erano fatte d'osservazioni e di giudizi messi insieme a vanvera che non dimostravano nei loro autori, se non mancanza totale di logica, oppure ignoranza completa del libro... esaminato. In altri, tutto è motivo per ridurre a questioni di lana caprina gli eterni problemi dell'arte: contenuto e forma, sentimento e intelletto, eccetera. Non è stata per me una piccola mortificazione vedere anche il mio libro preso a pretesto da simili perdigiorno. Ma il 10% delle critiche m'hanno aiutato a correggermi di tanti difetti, a vedere più chiaramente in me, a sentire meglio le mie possibilità di sviluppo e i miei limiti".
 
Il dolore
Il sentimento del tempo e del costante rapporto tra il contingente e l'eterno, l'intera esperienza meditativa di un uomo che sostiene solidamente ed umanamente la poesia del Sentimento saranno ancor più presenti e ancor più dense di una esperienza autobiografica (nella quale non mancheranno ancora una volta pene e dolori strazianti) nella raccolta Il Dolore pubblicata nel 1947 comprendente liriche scritte dal 1937 al 1946. Come ben sottolineato forse è questo il lavoro più ardito della maturità, la poesia che per immediatezza più tocca e più affonda nella capacità di sentire il Dolore. E' fondamentale osservare come già dalla nascita questa raccolta non è frutto di un progetto voluto con premeditazione né con un precedente studio o pianificazione ma nasce da un impulso, da una urgenza dovuta dagli avvenimenti esterni che spingono il poeta ad agire con immediatezza, con spontaneità al di fuori di ogni meditazione.
In primo luogo ritroviamo le liriche del soggiorno di Ungaretti in Brasile dove ha accettato la cattedra di lingua e letteratura italiana offertagli dall'Università di San Paolo del Brasile dove resterà dal 1936 al 1942: inizialmente è un periodo che possiamo definire felice anche se la sensazione è pur sempre quella dell'esilio. Poi nel 1937 muore il fratello a cui dedica la sezione Tutto ho perduto e nel 1939 v'è la morte del figlioletto Antonietto, di appena nove anni a cui dedica Giorno per giorno e Il tempo è muto; e poi ancora in Roma occupata e I ricordi la guerra, il ritorno nella patria, la resistenza, l'occupazione. Saranno avvenimenti tragici e dolorosi che spingeranno il poeta a oltrepassare in anticipo la strada che si era prefissa e offrire con uno slancio poetico dei più alti la poesia del Dolore.
Scriverà Ungaretti: "Mi si è fatto osservare che che in un modo all'estremo brutale, perdendo un bimbo che aveva nove anni, devo sapere che la morte è la morte. Fu la cosa più tremenda della mia vita. So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il Dolore è il libro che di più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi parrebbe d'essere impudico. Quel dolore non finirà più di straziarmi".
E' proprio in una delle sue poesie più alte che Ungaretti ha lasciato un ardito accostamento tra la pura capacità d'invenzione per fantasia e per strazio di commozione seppur legato sempre al terribile dolore per la scomparsa del figlio, come nella lirica Amaro accordo: "...I cavalli dei Dioscuri,/alle cui zampe estatico/s'era fermato un bimbo,/ sopra i flutti spiccavano/(Per un amaro accordo dei ricordi/ Verso ombre di banani/E di giagnti erranti/ Tratarughe entro blocchi/ D'enormi acque impassibili/ Sotto altro ordine d'astri/ Tra insoliti gabbiani". E poi: "Ma la morte è incolore e senza sensi/ E, ignara d'ogni legge, come sempre,/Già lo sfiorava/ coi denti impudichi".
La rievocazione del bimbo morente, il costante ricordo nella memoria "In cielo cerco il tuo felice volto", l'affetto eterno e il dolore che il tempo non potrà lenire "e t'amo, t'amo ed è continuo schianto!"; l'abbandono senza più forza (Non più furori reca a me l'estate...); lo strazio che consuma e la speranza d'arrivare presto alla morte (Passa la rondine e con essa estate,/E anch'io, mi dico, passerò...) (Ed i miei occhi in me null'altro vedano/ Quando anch'essi vorrà chiudere Iddio...); il grido di dolore non può placarsi e subentra un rimpianto accorato per la mancanza del figlio al proprio fianco "Mi porteranno gli anni /Chissà quali altri orrori/ Ma ti sentivo accanto/ M'avresti consolato". E' una sequenza inaudita di stati d'animo intrisi di una profonda disperazione vissuta sulla propria pelle ma come d'incanto nell'ultimo frammento, composto già a distanza di anni, ecco scendere quasi improvvisa una rasserenazione, una quiete ritrovata, una serenità nella consapevolezza della luce abbagliante del ricordo del figlio che si fa guida e sostegno per gli anni da vivere ancora: "Fa dolce e forse qui vicino passi..."
 
Dopo il doloroso e doveroso ricordo del figlioletto, nella sezione Roma occupata il tema della guerra è il canto del dolore ancora cocente, è la tragica e orrorifica vicenda che non si può fare a meno di cantare fino alla preghiera che si elevi fino al cielo affinchè possa essere liberatrice delle sofferenze umane come nella lirica Mio fiume anche tu: "Cristo, pensoso palpito,/ Astro incarnato nell'umane tenebre/Fratello che t'immoli/ Perennemente per riedificare/ Umanamente l'uomo,/ Santo, Santo che soffri.../Per liberare dalla morte i morti/E sorreggere noi infelici vivi,/ D'un pianto solo mio non piango più,/Ecco, Ti chiamo, Santo,/ Santo, Santo che soffri".
"La somma del dolore/ che va spargendo sulla terra l'uomo" è motivo di drammatico scoramento universale e al contempo la bruciante esperienza per la perdita del figlio è disperatamente personale ma questi due momenti di dolore sono legati da un filo che li pone in stretto rapporto tra loro perchè il dolore individuale e la tragedia collettiva non diventano altro che due momenti di un destino umano di sofferenza.
 
I sentimenti e i richiami che la tragedia della guerra hanno suscitato in lui portano il poeta a scrivere "Quanto un uomo può patire imparo" ed in effetti Il Dolore rivela, fra angoscia e speranza, tutta la sofferenza delle cose perdute, dell'inferno che lo circonda, dei ricordi che sono ancora vivi, dell'estrema fragilità dell'esistenza: il dolore del nostro tempo trova qui l'essenzialità. Le parti che compongono la raccolta da Tutto ho perduto del 1937 a I ricordi del 1946 accompagnano e seguono l'uomo da vicino con le esperienze personali ed universali e le svelano fedelmente in una biografia scarna , raccolta ed intima, tesa a quel rapporto tra l'Uomo e Dio che il poeta stesso confessò di voler ristabilire nella sua lirica e proprio per questa tensione religiosa la sua poesia risulta al contempo tremendamente pulsante.
Sono infatti gli anni in cui Ungaretti dal Brasile torna in Italia (nel 1942) per reggere la cattedra di letteratura italiana contemporanea presso l'Università di Roma, nominato "per chiara fama". Spagnoletti scrisse: "Non appena rimise piede, là sui marciapiedi romani e si sentì attorniato dai giovani, riprese a parlare di Leopardi, di Petrarca, come una volta. Ma era tanto il suo dolore, se appena lo si sentiva parlare d'altro".
Quindi dopo I fiumi del 1916 con la spoglia rimeditazione dell'esperienza fino ad allora vissuta dal poeta e confrontata nella guerra combattuta nel fango della trincea; dopo la Pietà del 1928 che anticipava le sorti verso cui il mondo s'avviava con Roma occupata del 1943/1944 si assiste ad una ennesima ricapitolazione di una terribile esperienza storica che rende appieno la sensazione di fragilità dell'uomo.
 
La terra promessa
La prima idea della Terra Promessa Ungaretti la ebbe nel 1935 subito dopo la composizione di Auguri per il proprio compleanno che uscì nel Sentimento del tempo. Il poeta raccolse altri lavori e nel 1950 fu pubblicato Terra promessa che raccoglie tutti i frammenti sparsi in una sorta di divenire della poesia. E' interessante sottolineare e ricordare che nel 1942 Mondadori inizia la pubblicazione di tutta l'opera di Ungaretti e La Terra Promessa era annunciata nei volantini editoriali con il nome di Penultima Stagione e cioè l'autunno che il poeta intendeva cantare nel poema, "l'autunno ormai inoltrato dal quale si distacchi per sempre l'ultimo segno di giovinezza terrena, l'ultimo appetito carnale".
Esaurita l'esperienza sensuale è quel varcare la soglia di un'altra esperienza ed inoltrarsi in essa. La Canzone s'è formata a seguito del trasferimento dei motivi d'ispirazione dalla sfera della realtà dei sensi alla sfera della realtà intellettiva.
Subito dopo il Sentimento incomincia questo lavoro protrattosi per lunghi anni, varie volte interrotto e ripreso, e poi finalmente compiuto con la ricomposizione dei frammenti intitolati La Terra Promessa.
E' un libro scritto con lentezza e continuamente interrotto anche soprattutto da altra poesia come quella del Dolore perchè si assisteva ad una tragedia nel mondo e il poeta era stato colpito anche negli affetti più intimi: andava da sé che la ricerca di pura poesia doveva laciare il posto alle pene, alle sofferenze ed ai tormenti di quegli anni. L'opera è quindi inevitabilmente frammentaria anche se nel complesso offre l'idea di ciò che il poeta aveva in animo di fare.
Nel Sentimento del Tempo, come osserverà lo stesso Ungaretti, vi sono tre temi principali: il tema dell'aurora non edenica, non come perfetta felicità; il tema del desiderio a un ritorno allo stato edenico; il tema della morte e del nulla. La Canzone della Terra Promessa non fa altro che sviluppare quegli stessi temi già presenti anni prima e quindi non è altro che una tessitura su motivi già disegnati subito dopo il Sentimento: la poesia dell'uomo che stà per lasciare la giovinezza ed entrare nella maturità. Ma non era previsto il viaggio in Brasile durato sei anni, non era prevista la seconda guerra mondiale con i suoi orrori, non erano previste le tragedie personali che tutte insieme convoglieranno il poeta verso il componimento del Dolore.
Ecco allora che l'esperienza della Terra Promessa fu proseguita quando l'uomo era già passato nella vecchiaia e quindi in modo differente da come era stata immaginata: da poesia dell'autunno era diventata la poesia dell'inverno. Era una stagione diversa ma non si poteva fare altrimenti.
Nella Canzone come del resto nel Sentimento del Tempo v'è lo stesso senso del nulla, del nascere dell'aurora, il desiderio di arrivare all'immagine dell'edenica purezza. Identica osservazione si può fare con riguardo al alcune poesie come Leda, Eco, Caino, Sogno, La morte meditata dove come nel Sentimento si tende a suscitare una realtà mitica.
Nella Canzone ritroviamo il poeta stesso, il poeta con la sua fedeltà, con il suo ricordo. L'uomo E' sceso nel Lete, nell'apparente oblìo, ha lasciato i dolori e le gioie della vita ed ha raggiunto un luogo dove la veglia e il sonno non hanno più tempo. Le cose del passato e le memorie che sembrano disperse però risorgono infine ed il poeta ricapitola tutte le sue esperienze mentali e sensoriali: proprio in questa sua ultima avventura ritorna il senso della precarietà della vita, il senso dell'illusorietà dell'immortalità dell'uomo. In alcune note sparse dello stesso Ungaretti leggiamo: "...c'è il senso della morte, ma c'è la mente che la riscatta... conoscermi momento per momento... e sentirmi impietrito in questa morte... riflessioni del risorgere... ciò che è stato, è stato per sempre, è divenuto patrimonio della mente".
 
V'è da dire che ogni nuova raccolta poetica di Ungaretti porta un nuovo atteggiamento umano anche se sempre fedele ad una linea di costante coerenza morale: risiede forse in tale propensione la forza di un poeta che non si ferma mai su una formula o su facili suggestioni ma cerca sempre di cogliere il significato più alto di una vita sofferta.
Con Terra Promessa e Taccuino del Vecchio Ungaretti, nell'ultima sua stagione, riprende il paesaggio del deserto e la nuda pietra, ma delle esperienze di una vita nulla si perde, anzi tutto viene convogliato nella sua poetica: la metrica, la scelta del vocabolario, la meditazione continua su se stesso, i fatti della vita, i dolori, i sentimenti. E' il tempo che passa che muove la sua poesia, è la memoria, è il pensiero della morte e sono le persone amate che tornano a fare compagnia al poeta.
La ricerca continua attraverso il lungo impegno e le riflessioni di tutta una vita, sembrano arrivare ad una quieta accettazione seppur sempre nella dimensione del dubbio. Ma come un fulmine ecco nel 1966-1969 nuove poesie d'amore quando Ungaretti si avvicina ai suoi ottant'anni in una esplosione di canto seppur affievolita dall'età quasi a farsi stagione conclusiva, felice e drammatica allo stesso tempo, e pur sempre serena accettazione dell'ultimo canto dopo un lungo silenzio: "Sei comparsa al portone/In un vestito rosso/Per dirmi che sei fuoco/ Che consuma e riaccende...; Ascolta, su, l'innamorata tua/ Per vincere la morte, cuore inquieto;... Davi allora sollecita/Quella quiete infinita/Che dopo amare assale/ Chi ne godé la furia". E poi ancora: "Il mio amore per te/ Fa miracoli, Amore,/ E, quando credi d'essermi sfuggita,/ Ti scopro che t'inganni, Amore mio,/ A illuminarmi gli occhi/ Tornando la purezza".
 
Considerazioni finali
La voce di Ungaretti nasce da una unicità di espressione, non è uguale a nessuno, e la sua folgorante capacità di illuminazione lo accompagnerà sempre: le visioni di paesaggi qualunque essi siano, i versi dal fronte, le meditazioni sul dubbio e sulla speranza del Porto Sepolto, la prepotenza delle estati romane, le cantiche d'amore.
Dal momento stesso in cui nasce, dai primi versi giovanili del 1914 e poi all'Allegria di Naufragi e al Dolore, la sua poesia è sempre viva, non è mai adagiata o chiusa in formule, non è mai limitata da imitazioni tanto facili e così poco faticose ma al contrario è sempre tesa a svelare qualche lato di sé non ancora dichiarato, non ancora studiato, non ancora scandagliato o approfondito completamente. Ungaretti è sempre presente a mostrare una dimensione unitaria del tempo, quel rapporto tra la vita che passa e la parola, sempre scrutando e appuntando le vicende umane di tutta una esistenza con i suoi cambiamenti, i suoi viaggi, le sue terre nuove, le tragedie umane, gli uomini con la loro vita ma sempre fissando nei versi come perenni la costante dei sentimenti: del dolore, dell'amore, della fratellanza.
La sua poesia nasce forte, le sue radici sono profonde, la sua parola e la sua poesia sono rivolte alla ricerca di se stesso, a svelare i segreti del vivere e dell'essere: questo scandaglio talvolta anche complicato nascerà sempre da una ispirazione poetica vera, autentica, meditata. La sua parola poetica sarà sempre sentita a misura umana, nella drammaticità della guerra, nell'estasi davanti alla natura, nello smarrimento, nella sofferenza e nel dolore straziante, nella propria definita condizione umana come emblema della condizione di tutti gli uomini.
La progressione della ricerca poetica ungarettiana inizia dal deserto dell'Egitto con il suo abbagliante annientamento dove il poeta nasce e dove muove i primi passi; continua con il paesaggio della propria terra, della Terra Promessa, sospesa solo momentaneamente dal Dolore. Dopo il sangue dei compagni sul Carso ecco le nuove esperienze nel soggiorno parigino con i delicati "grigi", le nuove emozioni con il sentimento ed il canto che sembrano fondersi nei nuovi paesaggi fino alla dolorosa esperienza durante il soggiorno in Brasile e poi alla riscoperta di Roma nel sentimento dell'eterno vivendo le sue stagioni; ed infine il ritorno alla Terra Promessa al Taccuino del Vecchio, con l'avanzare dell'età, inoltrato ormai nella stagione dell'autunno della carne, nella meditazione che copre ogni cosa ricollocando tutto il proprio sentire, il proprio soffrire ed amare proprio nel deserto dal quale era partito ma ormai senza neanche più le speranze di un oasi dove attingere acqua o rinfrescarsi in vista di un nuovo cammino.
 
Dalle poesie del Porto Sepolto e dell'Allegria al Sentimento del Tempo e ancor più con il Dolore e poi con l'ultima ricerca ungarettiana dei Cori e dei Nuovi Cori, l'ultima ispirazione d'amore: Ungaretti non si chiude mai in sè, non si allontana dalla sua strada anzi con l'avanzare dell'età aggiunge esperienze ad esperienze, aperture e disponibilità a nuove ricerche:
"Io credo che nelle poesie della vecchiaia non ci sia più la freschezza, l'illusione della gioventù, ma credo ci sia una somma tale d'esperienza che se si arriva - e non s'arriva sempre - a trovare la parola necessaria ad esprimerla sia la poesia più alta da lasciare".
Sarà proprio lo studio delle continue e numerose varianti e delle rielaborazioni che oltre ad offrire la testimonianza di una acuta e macerante ricerca dell'espressione, oltre a far toccare con mano il progressivo alleggerimento del mezzo dell'espressione ci dà la possibilità di vedere la nascita della parola poetica: lenta, meditata, ricercata. Ma v'è di più. Dalla parola poetica così lungamente inseguita, cercata e conquistata ormai nuda ed essenziale ecco che si genera il ritmo. Se esaminiamo le numerose varianti apportate alle poesie possiamo facilmente osservare quale fatica costò ad Ungaretti tale parola.
Ungaretti scriveva sempre, prendeva appunti in ogni luogo e in ogni momento della vita, apportava modifiche in continuazione, rileggeva, rimaneggiava, rivedeva dopo anni, parlava da solo fino a catturare il verso che poi attraverso un processo continuo, attraverso mille correzioni e varianti arrivava finalmente a parola compiuta. Sembrava perdersi come fagocitato dall'ispirazione in un altro tempo. Fino all'ultimo manterrà fede a questa sua coerente linea di ricerca: incessante e mai sazia.
Dagli stessi racconti del poeta sappiamo che, a volte, anche di sera se d'improvviso il "demone della poesia" si impossessava di lui, poteva dire addio al sonno, si agitava, camminava per tutta la casa come un'anima in pena fino a trovare carta e penna per scrivere poesia. Questo continuo lavoro di scavo e di ricerca sarà il modo di partecipazione alla vita di Ungaretti e raggiungerà i risultati più significativi della poesia del Novecento: la sua voce sarà sempre intensa e si lancerà con entusiasmo e con amore nelle cose da fare sempre disposto a soffrire e a pagare di persona oltrepassando le tragedie umane e i dolori della vita fino ad affermare all'età di ottant'anni: "Non so che poeta io sia stato in tutti questi anni. Ma so di essere stato un uomo: perchè ho molto amato, ho molto sofferto, ho anche errato cercando poi di riparare al mio errore, come potevo, e non ho odiato mai. Proprio quello che un uomo deve fare: amare molto, anche errare, molto soffire, e non odiare mai".
Il testamento di un uomo. La parola e il canto di un poeta.
 

Massimo Barile

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