Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Umberto Li Gioi
Con questo racconto ha vintol'ottavo premio al concorso
Città di Melegnano 2003, sezione narrativa

QUANDO FINISCE LA STRADA
 
Era un viandante e come fosse giunto fin lì non lo sapeva. Non si chiedeva mai dove portasse la strada. Era uno che camminava anche la notte, uno che faceva della sua emarginazione una ragione di vita, uno di quelli per i quali tra un posto e l'altro non c'era mai stata troppa differenza. Camminava lungo i binari dei treni perché erano una via già tracciata che portava sempre da qualche parte. Così facendo, pensava, non si sarebbe mai perso e non avrebbe neanche avuto la necessità di orientarsi con le stelle o con strumenti da viaggiatori.
La ferrovia era un'immensa linea retta che partiva sempre da una città per arrivare in un'altra, vicina o lontana che fosse. C'erano solo due possibilità: andare avanti o tornare indietro. E lui non aveva mai ricalcato i suoi passi.
Vagando nella notte senza fine di quel labirinto che era stata la guerra, era riuscito, con la sua vita fatta di percorsi e rifugi, a passare quegli anni crudeli nel dimenticatoio. La tempesta delle follie umane, placatasi solo da pochi mesi, non lo aveva travolto. Per lui il tempo non aveva rintocchi e tutto quello che succedeva ed era successo sembrava appartenere soltanto al resto dell'umanità. Bastava soltanto che lui avesse un binario di fianco per non dimenticare che il mondo andava avanti, sempre avanti, proprio come i suoi piedi.
Così quando sul far di una sera qualunque di un'estate qualsiasi la ferrovia si arrestò davanti ai suoi passi,come inghiottita dal suolo,ebbe l'impressione che il
suo cuore stesso avesse deciso di fermare i suoi battiti.
In quel momento si sentì sconfitto e provò una sensazione di estremo disagio. Era come se gli avessero amputato le gambe, o come se avessero tolto d'improvviso la strada da sotto le suole logore delle sue scarpe. Si sedette per terra e guardò il tramonto, uno dei tanti, in un luogo a lui sconosciuto.
Gli ultimi fuochi si agitavano sotto la cenere che ne soffocava gli ansimanti respiri, e i loro bagliori disperati morivano contro la luna sorgente, che inebetita da tanto scempio si nascondeva, preferendo scomparire dietro le rade nubi di passaggio che le occultavano la vista, proprio come fino a poco tempo prima avevano fatto le dense colonne di fumo nero che si avvolgevano verso il cielo in immense spirali. Sui camini incrinati delle case le cicogne erano tornate a impagliare i loro nidi: non ne costruivano più da cinque anni, da quando l'inferno aveva spalancato le sue porte e sviscerato le sue mefitiche esalazioni di zolfo e carne bruciata.
Erano tornate su tutti i camini meno che su quelli alti, sagome nell'oscurità davanti a i suoi occhi, dove il laido fetore della morte era rimasto mescolato alla spessa fuliggine appiccicata tra i mattoni.
Mute di cani sbandati continuavano a rincorrersi azzannandosi sul collo e tra le costole che la fame scolpiva sui loro scarni corpi, quasi cercassero ancor più di indebolirsi a vicenda, lacerando sottili ferite sotto la pelle. La notte e il silenzio arrivavano sotto braccio - evanescenti, spettrali, anguste figure senza movimento proprio - ritagli d'ombra inanimati tra le ombre - lucciole o fuochi fatui ? - qui era sempre notte da un pezzo - notte per la memoria davanti agli occhi sperduti, smarriti, del viandante sconfitto che aveva trascinato i suoi passi lungo quel binario morto sommerso da sterpi che andava dritto contro i cancelli spalancati dell'abisso e che tornava sottoterra mentre le anime e i corpi, leggeri e inconsistenti, erano passati, fluttuando nel vento, dalle fiamme degli inferi al profumo delle nuvole, come quei fiocchi di neve a Natale - ultima
illusione - ma il calore del pianto che irrigava le pietre scioglieva in lacrime le gelide speranze.
Tutto qui era intriso di odori, e il pugno di terra che lui si allungò a stringere nella sua mano indurita grondava di sangue, di fumo, di uomini.
Ogni zolla era una conchiglia che ululava il suo mare in tempesta, prigioniero tra piccole mura avvelenate e graffiate di disperazione che era divenuta rassegnata preghiera - ogni zolla calpestata e appiattita dalla paura e dal furore, da mille marce forzate, concimata dalla ricaduta di ceneri erranti - lontane, per miglia e miglia.
Le bolge svuotate dall'orrore dell'odio restavano inerti ma urlavano, imploravano, ammonivano - tremavano, vibravano - respiravano.
Silenzio. Fu la vita a uccidere, non la morte.
La vita aveva distrutto sé stessa, ammassata, ammucchiata, svilita, abietta - ricacciata tra i fuochi di Neanderthal - rinchiusa in caverne senza uscita alla mercè delle esalazioni maligne di cristalli assassini.
Guardarsi in faccia, sentirsi colpevoli di essere nati, odiare le proprie radici, trascinarsi tra gli ultimi echi di una dignità che muore, aspettare la morte, agognare quell'ultima fuga.
Il viandante attese l'alba, immobile, raggomitolato su sé stesso, gli occhi spalancati verso quell'orizzonte da dove uno stanco sole dell'est, inorridito, stava adesso risvegliando le sventure umane in una notte senza fine.
Era arrivato vagando nell'oblìo perenne nel quale aveva deciso di affondare, come se tutto l'orrore di cui il mondo era capace potesse riecheggiare lontano - lampi, colpi di cannone ovattati come tuoni di un temporale lontano - come se vagando ai bordi del male tutto quello che ne faceva parte potesse soltanto sfiorarlo.
I colori infuocati dell'alba sembrarono riaccendere per un momento le fosche luci della spianata. Attorno a lui era giugno e alti fasci d'erba selvaggia fremevano alla brezza del mattino.
Si alzò volgendosi attorno, cercando di fissare dei punti di riferimento spazio-temporali tra quelle macerie che la luna aveva tramutato in ombre durante la notte.
Un senso d'angoscia aveva appesantito il suo dormiveglia divenuto opprimente, come se vaghe presenze avessero insistentemente bussato ai suoi sogni, in cerca di risposte che lui non avrebbe potuto mai trovare. Quel suo vivere ai margini lo manteneva in un equilibrio precario, che si divincolava tra gli oscuri precipizi della coscienza e gli illusori paradisi dell'innocenza.
Adesso cominciava a rendersi conto di ciò che poteva essere successo lì, se ne rese conto quando si trovò davanti a interminabili recinti di filo spinato che correvano uno accanto all'altro in una doppia fila parallela.
La sua mano era ancora sporca di terra, di quella terra che aveva stretto tra le dita poche ore prima, ricavandone strane sensazioni di paura.
I suoi passi pesanti avanzarono lentamente: alle sue spalle era rimasto l'immenso arco d'ingresso che aveva varcato senza rendersene conto seguendo i riflessi del sole morente contro il metallo sfregato delle rotaie.
Poi l'odore repellente che giunse al suo olfatto lo avvertì che la morte era stata là, e che vi si era fermata per molto tempo, prima di andar via con la lama della sua falce ormai logorata da tante mietiture.
- Guarda le cicogne, sono tornate molto presto - si voltò di scatto. Non vide nessuno.
- Lassù, vedi? Volano basse - Un ragazzo avvolto da una coperta di tela, come quelle che si usano nelle caserme,o ancor peggio nelle prigioni, con l'indice della
mano destra allungato verso l'orizzonte, gli mostrava alcuni uccelli che con volo tranquillo si dirigevano verso il villaggio.
- Quanti anni hai, ragazzo?- fu stupito di incontrare qualcuno - Parecchi signore, ormai ognuno pesa almeno quanto tre dei tuoi -
In effetti il suo aspetto sembrava tradire una vecchiaia precoce, accelerata da eventi che lo avevano fatto precipitare in una voragine senza scampo spalancatasi sotto di lui tra le crepe del tempo.
- Hai fame? - il senso di pietà fu spontaneo
- No, signore, questa parola per me non ha più senso -
Il viandante sentì passarsi un altro brivido addosso, anche stavolta senza comprenderne il motivo.
Si avvicinò al ragazzo. La sua pelle era martoriata da graffi e cicatrici sul volto e sulle mani. Cercò di scrutare i suoi piedi ma non potè farlo perché erano coperti dall'erba
- Cosa ci fai qui? Perché non vai a casa? - l'incalzare delle domande manifestava uno strano stato d'ansia che andava crescendo.
- Aspetto i treni - gli rispose convinto il ragazzo
- I treni? Quali treni? -
- Loro arrivano sempre di notte, credo che siano in ritardo: deve essere successo qualcosa -
- Li hai visti arrivare? - continuava a non capire. Il binario era morto e ormai chiaramente fuori uso.
- No, signore, la notte è buia anche se c'è la luna. Io li sento, sono pieni di gente, tanta gente. I treni si fermano e loro scendono. Hanno paura. -
- Dove abiti, ragazzo? - pensò che forse i suoi genitori lo stessero cercando.
- Abitavo in un villaggio vicino, adesso lì non c'è più nulla - questa risposta lo terrorizzò. - I tuoi sono morti? - chiese tremando per la replica quasi scontata.
- Non li ricordo più, credo di averli persi -
Pensò che stesse delirando, che fosse in preda a qualche forma di febbre. Istintivamente si chinò a toccargli la fronte. Ritrasse la mano inorridito. Era gelata.
Il ragazzo lo guardò stupito
- Cosa speri di trovare all'inferno? Anche i demoni si sono stancati del fuoco. Sono tornati dove i dannati ardono in eterno. Gli innocenti invece bruciano subito, diventano cenere, si dissolvono nel vento - quelle parole, pronunciate senza toni, sprizzarono un senso apocalittico.
Il viandante lo osservò scivolare lungo un fianco, stremato da quei discorsi.
Era come se la morte si divertisse a giocare con lui, a tirar fuori la sua anima per poi lasciarla sfuggire di nuovo dentro al corpo, come un elastico.
Il sole si stava alzando verso mezzogiorno. La sua luce metallica plasmava quell'immensa fortezza. Decise di porgergli l'ultima domanda
- Che posto è questo, ragazzo? -
- Si chiamava Oswiecim, signore, ma tutti qui adesso lo chiamano Auschwitz - poi tornò a scrutare il binario - Il treno è ancora in ritardo - scosse la testa - Si, dev'essere successo qualcosa -
Il viandante si voltò e guardò alle sue spalle, verso l'orizzonte da dove era venuto. Per la prima volta era costretto a tornare indietro, ma almeno il suo cuore aveva ripreso a battere.
- Vai incontro ai treni? - lo interrogò con affanno il ragazzo.
- Si è meglio - rispose con rassegnazione - Credo proprio che si siano fermati per sempre -.

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Città di Melegnano 2003

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