Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Stefania Miravalle
Con questo racconto ha vinto il quinto premio all'edizione 2007 del Premio Il Club dei Poeti.



«Bonaccia»


Non c'è vento a favore per il marinaio che non sa dove andare Maze guardò fuori ancora una volta, volgendosi di scatto verso la grande finestra che le era accanto, fissò il vetro appannato a lungo, sforzandosi di fingere a sé stessa di stare solo tentando di distinguere le luci dei lampioni fissi in strada dal buio del mare che si distendeva dietro di loro; come nel gioco di una bambina, sì, come se quello fosse semplicemente il gioco di una bambina...
Socchiuse gli occhi per concentrarsi meglio, no, lei non stava pensando, no, lei non era ferma, immobile, paralizzata nel suo letto, schiacciata, no, lei non sentiva le sue mani vuote, i suoi occhi aridi, le sue spalle... le sue spalle... piegate... no, lei non si rendeva conto che... NO. Lei stava solo disegnando leggere pennellate d'acquerello sui vetri, giocava, con la luce giallastra dei lampioni; a lei nulla faceva paura, non le sue pesanti, serie mani, nemmeno i suoi occhi e la sua pelle spessa, lei non era vecchia, no lei stava semplicemente giocando, perché lei era piccola, piccola e pulita...
Spinse gli occhi verso il muro adiacente.
Si chiuse nella sua robusta conchiglia.
Inerzialmente inalò la nebbia che le si stendeva intorno palpabile ed afosa.
Un sobbalzante respiro la scosse.
Restò immobile, gli occhi fissi nella penombra della stanza. Un secondo respiro la scoprì stanca e debole, poi un terzo, a sbiadire... Fu interrotta di colpo dallo scatto della porta in corridoio, dallo strusciare di passi verso di lei, passi di piedi nudi sul marmo freddo, placidi, inerti, senza strappi - monotoni - pensò, inspirò ancora una volta e, quasi senza accorgersene, parlò.
Svelò una voce grave ma sottile, come di una donna più vecchia, come di una donna più disperata, tremendamente più stanca... un basso sussurro cadenzato:
«Siamo tutti solo alla ricerca di una svolta»... e poi, lasciandosi andare tra le lenzuola, scivolò sul cuscino mentre mormorava: «Ma io non so se riuscirò a credere alla mia di svolta... se... mai... arriverà...». Lui apparve sulla soglia, la osservò senza parlare, ma lei sapeva che i suoi occhi chiedevano perché, perché restava lì, assorbita dalla nebbia, ancora lì, ferma al suo posto, davanti ad imbocchi di strade che avrebbe potuto percorrere tutte se solo ne avesse avuto il coraggio. Sapeva che lui avrebbe voluto chiederle perché non poteva scegliere anche lei una strada, semplicemente, come fanno tutti nella propria vita, senza lasciarsi bloccare dalla paura della menzogna, dell'illusione, della troppa necessità di striminzite risposte a sporcale le mani, perché avesse bisogno di così tanta convinzione per incamminarsi, di tanta energia, fede... «Nel tempo si cambia» le avrebbe volentieri detto «ma questo non può rubarti ogni possibilità di essere, ora, e poi, qualcuno» incalzando: «Il fatto che tu ora non riesca più a crederci così come vorresti non significa che tu non ci abbia creduto una volta, che tu abbia ingannato te stessa e noi, che tu non ci possa credere ancora... non significa che tu non possa avere più fede in nulla ma, soprattutto non significa che tu ora non abbia abbastanza fede, o forza, o interesse e tanto meno energia per uscire, per riprendere a camminare... tu hai tutto ancora in te, tutto, solo in modo diverso; il tempo ci cambia, sì, ma non è sempre detto che sappia solo renderci peggiori». Questo le avrebbe voluto dire ma non osò aprire bocca e così restò timoroso in disparte a fissarla in silenzio, a scoprirla troppo simile ad uno schizzo a carboncino immobilizzato su quelle lenzuola tiepide; continuava a chiedersi perché proprio lei dovesse lasciarsi cancellare così lentamente, lasciare così lentamente sfumare la sua forma, perché non potesse trovare la propria via per vivere, o perlomeno sopravvivere...
Perché restare sempre solo accoccolata a guardare, analizzare, agognare per poi distruggere ed in definitiva non sperimentare mai? Continuava a chiedersi perché dovesse precludersi ogni possibile percorso prima ancora di aver mosso un passo verso qualche strada, perché non potesse provare ancora una volta ad uscire da quella maledetta nebbia in quella maledetta stanza, resistere al crack di risveglio del suo legno, superare l'ennesimo aprile della sua vita, anziché rigettarsi nella sua conchiglia che si culla nel limbo del mare scuotersi, barricarsi nei tagli della propria corteccia, contenere la propria paura (del Sole?) sino all'arrivo di giugno e del suo calore; si trattava di resistere soltanto più due mesi e cos'erano due mesi in fondo? Solo più pochi passi, perché non poteva reggere?!
L'avrebbe dovuto fare, almeno in nome dell'amore che lui le portava, giorno dopo giorno, appoggiandosi alle sue dure pareti, subendo di nascosto i suoi pianti sommessi, i suoi faticosi respiri...
Avrebbe voluto saltarle addosso di scatto, afferrarla per entrambe le spalle e scuoterla, scuoterla urlandole in faccia «Tu me lo devi capito?? Tu me lo devi!!! Per tutto quello che sei stata e sei ancora per me, tu me lo devi, per il tuo sorriso che hai osato mostrarmi un tempo, per il tuo sguardo che non hai voluto celarmi allora, per le tue risa che ho conservato una ad una nella mia carne, tu me lo devi! Perché mi hai incatenato a te ed ora io non posso sfilar via la cucitura che ci tiene legati, me lo devi per tutta la vita che abbiamo toccato insieme, per tutto l'amore che ci siamo dati, perché - senza pudore - tu mi hai reso felice, mi hai fatto scoprire tutto, tutto, capisci? Tu me lo devi, tu me lo devi... Io non posso più andare avanti così, no, non posso continuare a guardarti mentre... No, non io, io che... Io che vorrei ricostruirti pezzo dopo pezzo, io... no, io... Io voglio rivederti e riconoscerti, non restare solo impotente qui, costretto a vederti sparire, capisci? Io...». Thready si morse le labbra di nascosto mentre la pelle s'intirizziva sulle sue braccia, spostò gli occhi su un quadro appeso alla parete di fronte, restò ad ammirarlo qualche secondo senza vederlo e quando ritornò su di lei lo fece con uno sguardo lieve e soffice che s'immergeva con prudenza nei suoi occhi e scrutava con lanosa attenzione il corpo risucchiato da quell'ampio letto; si chiese se lei sarebbe mai potuta essere veramente felice, se sarebbe riuscito a vederla libera e leggera una volta passato questo gelido Aprile, questo lunghissimo gelido aprile... Si mosse: si sedette anche lui sul letto, lentamente si distese, lei si rivoltò supina, ripiegando lo sguardo su di lui disse: «Siamo tutti alla ricerca di una svolta, di qualcosa più forte di noi stessi che ci trasformi, che ci trasporti via dalla nostra vita incollanata e non ci permetta più di essere gli stessi, qualcosa che dia un senso alla nostra vita, una vera e propria metamorfosi senza ritorno: tutto viene stravolto e basta, non ci si guarda più indietro, un istante e scopriamo chi siamo e chi sempre continueremo ad essere, perché non si vuol più tornare indietro ora, come si può abbandonare la retta via dopo aver capito? Come si può ancora dubitare?... ma... Anch'io resto qui ad aspettare la mia svolta e giorno dopo giorno apro gli occhi e mi dico che questa volta arriverà, sì, arriverà ed io mi farò travolgere, sì, reggerò fino in fondo il suo movimento, mi lascerò condurre a riva, questa volta avrò abbastanza forza per giungere finalmente a me stessa, sì... sì... SÌ.
Ma poi... Passa un giorno e ne passa un altro ed ancora uno ed io continuo a voltare il viso in avanti per rivoltarlo indietro, a spingere un piede in avanti per incagliarmi nel tentativo di fare un passo ed ora, ad essere sinceri, comincio a credere che la mia svolta ci sia già stata, credo anche di averla tenuta in mano più volte, di continuare a sfiorarla e capisco che ciò non sia abbastanza per cambiare, che in assenza di me, senza convinzione, nulla può accadermi, nulla può bastare».
Con una smorfia a contrarre il viso si rigirò, di scatto, si arrestò prona: le lunghe braccia ripiegate a sostenere il capo, le gambe affilate, spiegate e tese, si muovevano ancora, impercettibili, agitando nascostamente le punte dei piedi nell'aria. Ricordava una falena che si era strappata le ali in una rete ed ora, stanca di lamentarsi, aveva smesso di tentare di dimenarle ma ancora non riusciva ad accettare il suo non riuscire più a volare ed ancora meno il suo non desiderare più farlo; così restava a mezz'aria, tra la sua colpa, ed il suo dolore.
Thready ne contemplava il viso con attenzione, la vide invecchiata, di colpo, come se non l'avesse mai vista in tutti quegli anni, come se avesse solo ricordato, giorno dopo giorno e solo ora sapesse coraggiosamente guardare, capì che tutto quel tempo, tutto quel silenzio avevano rapinato anche il suo volto, era così stanco... Senza alcuna aspettativa, senza desideri, senza fantasticherie, dove potevano andare? Si accomodò meglio sul soffice materasso, spiò le labbra di lei socchiudersi cautamente, come a non voler disturbare, lasciò il suo denso respiro investirlo ed origliò lo scavato suono delle sue parole «È che sono stanca... stanca di credere ai cambiamenti, stanca di preparare ogni volta le valigie per una vita nuova e poi restare conficcata qui, ferma, dopo essere stata solo attraversata da una folata di vento; sono stanca di vedere cambiare tutto perché tutto resti in fondo lo stesso (non puoi immaginare quanto vorrei...) ...È che ora comincio a credere che ogni via d'uscita in realtà sia una strada chiusa - più che altro lo sia per me che non so reggermi in piedi fino a raggiungerne il fondo - e che ad un energico slancio nell'aria possa succedere solo un fiacco tonfo a capofitto nella sabbia che ingabbia. È che non riesco più a credere che possa arrivare qualunque avvenimento a rendermi diversa.
Non riesco a dimenticare, a cancellare ed essere nuova, posso anche esserlo per un attimo, un giorno, un mese, ma poi il mio riflesso allo specchio torna ad essere quello di sempre, piano piano la risacca mi ruba l'onda e resto naufraga su questo letto a guardare la vita passare... No, mi dispiace amore, questa volta desisto e lascio la mia vita scorrere da sé, ne guarderò le ombre succedersi sulla superficie di questo soffitto, come se non fosse mia, come se non m'interessasse vederla andare a catafascio, strozzarsi con le sue mani, lasciarsi morire di fame... No amore, io non me la sento più di farti promesse, mi dispiace te lo giuro, ma non posso fare altrimenti visto che sono solo capace di non portarle a termine, cerca di capire, sono stanca di deludere tutti, soprattutto te, e sono stanca di deludere me stessa. Preferisco non sapere, tornare a non sentire e vedere, ritrovarmi ancora con i miei rami congelati, anestetizzati, probabilmente tornare anche a credere che sia facile riprendere a germogliare.
Perché non si riesce mai a dimenticare? Non mi odiare per favore, non mi odiare, non restare a guardarmi così, scivola lontano da queste lenzuola che ti blandiscono, scivola tra quei lampioni là fuori, nella loro pallida luce, scivola tra il rumore delle onde che scrosciano sugli scogli, tra gli sbuffi di vento che ti sbeffeggiano, tra le ragnatele di vie che però a qualche casa conducono, scivola nella vita, nel sentirti vivo, nel bene, nel male, vissuto in te, con te. Qui tutto è senza voce, qui tutto è sordo. Qui tutto è corrotto, qui tutto è bugia. Qui non c'è più una verità, non c'è più una via d'uscita non l'hai ancora capito? Il portone d'entrata è ampio e spazioso - ed anche affascinante, come un frutto proibito - ma per uscire ti ritrovi a frugare tra le siepi ed è facile impigliarsi e ferirsi tra i rami... scappa via di qua ora che vedi ancora, perché quando comincerai a fare a pezzi i tuoi occhi sarai come me, sembra nulla cominciare a dubitare, a distruggere false verità, a mettere in crisi... E poi non vi è più scappatoia perché non vi è tragitto che tu possa credere in grado di condurti in qualunque luogo. Ora tu cerchi ancora la tua ben individuabile strada che ti porta a casa, poi ti renderai conto che non esiste una strada ma milioni di sentieri e non esiste una casa ma milioni di luoghi che potrebbero esserlo. E tu non puoi più muoverti. E tu non puoi più arrivare fino in fondo, solo a metà. Non hai più luogo dove andare ed allora capisci che tra il muoversi ed il restare fermi non vi è poi tanta differenza, così preferisci rimanere immobile qui, almeno ormai conosci a memoria la disposizione dei mobili nella stanza e non rischi sempre di farti male battendo la testa alla cieca. Conosci a malapena te stessa e qualcosa che ti è subito intorno, ma questo ti basta. Resti qui, protetta, al sicuro, e scopri che non ti manca niente in fondo. Eccetto la felicità, la gioia e la vita, naturalmente. L'affetto e l'amore. Uno scopo ed una destinazione.
Il dolore. Conosci la stasi e la noia, conosci il rimorso che si sazia di te giorno dopo giorno. E vorresti essere ma non puoi essere. Puoi solo lasciarti vivere a metà, un giorno, un mese, un anno, una vita intera. E ti scopri così stanca del velo d'ovatta che ricopre tutto, tutto, tutto non permettendoti di toccare, che vorresti saltare via, ma non riesci a ricordarti come si fa, e vorresti correre lontano: ma come puoi farlo con gambe e piedi congelati? Così rimani e ti senti condannata. Allora rischi: andare più giù ti riaprirà gli occhi, t'insegnerà di nuovo a volare; ma sotto vi è solo ovatta sempre più spessa che ti toglie anche il respiro. E sali, piano, piano, ti arrampichi con le unghie e coi denti, scivoli più volte sui tuoi passi, centimetro dopo centimetro e quando, sanguinante, conquisti il fioco Sole di Aprile, la sua luce pallida, che scalda appena ed a tratti, basta a bruciare le tue ferite aperte. Ed ora conosci il tempo e lo spazio e la portata del tuo movimento, ed hai paura di non farcela. Ora conosci il tempo e lo spazio e la portata del tuo movimento e sai di non potercela fare. Sai di non aver una destinazione verso cui dirigere i tuoi passi. Qui tutto è nulla e nulla è tutto, capisci?
Vattene di qui per favore, vattene dal pericoloso limbo di queste lenzuola... Tu hai ancora sentimenti in te, capisci quanto questo sia importante? Ed hai ancora una fede, dei sogni, un progetto...
Io potrei solo rovinare tutto lo sai, sgretolarti tutto nelle mani, lasciarti logoro e vecchio, come me. Per favore esci da qui, fallo, dimenticati che io sia esistita, scorda ogni mia parola, vattene, vattene, vattene!!...Vattene... per favore...
...E gli stringeva la mano, sempre più forte, quasi a fargli male, a rapirgli pietà, a sfregiarlo con le sue lacrime secche «Just don't leave, don't leave...».
Lui le rispose con uno sguardo fisso fisso, sviscerante, e fu lieto di riconoscere gli occhi che per primi aveva amato: azzurri, limpidi, vividi e tremendamente sinceri; le sorrise, lei gli fece specchio con un timido sorriso accennato, colpevole, lui fu comunque felice, superbamente felice. Lei era ancora lì sotto e ci sarebbe stata sempre più, giugno sarebbe arrivato, con i suoi succosi frutti, ora lo sapeva, era solo questione di aspettare e lui aveva voglia di aspettarla... la strinse a sé, forte, fino a sentire tutto il suo calore versarsi nel corpo di Maze, lei fece finta di non sorridere, con un suono ed un movimento trattenuto che alle orecchie di lui arrivarono come simili ad un sogghigno, un consapevole sogghigno. Quasi soddisfatto Thready guardò fuori verso la finestra, sentì il tempo passato come infinito e pressante, si chiese quanto erano rimasti a parlare... ma non voleva più pensare ora, voleva solo dormire un po', rovesciò il mento sulla spalla di lei, respirò sonoramente sul suo collo e chiuse lentamente gli occhi.
Fuori, intanto, i lampioni si spegnevano uno ad uno mentre, senza dolore, il cielo cominciava a schiarirsi.

Stefania Miravalle


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 Ins. 18-09-2008