Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Rodolfo Antoniono
Con questo racconto ha vinto il dodicesimo premio del concorso Marguerite Yourcenar 2003, sezione narrativa

La vendetta
Ancora pochi giorni e sarebbe uscito.
Da quanto aspettava quel momento?
Andò ancora una volta in camera da letto. Ancora una volta con la chiave che teneva sempre in tasca aprì il terzo cassetto della vecchia scrivania. Frugò in fondo, tra buste e carta da lettera. E sentì il freddo rassicurante del metallo. Gli bastò quello. Non aveva bisogno di tirarla fuori. Lei era sempre lì: fedele, pronta a compiere il suo dovere.
 
Dopo le superiori Tommaso si era iscritto, più che altro per l'insistenza della madre, a medicina. Laureato, non aveva faticato troppo a inserirsi come medico di famiglia. Erano tempi, quelli, nei quali non ci si strappava ancora i mutuati con i denti.
Un lavoro tranquillo, senza alti e bassi. Noioso. Un matrimonio tranquillo. D'amore? Sì, all'inizio. Poi era subentrata l'abitudine, l'affetto, il mutuo soccorso.
A settantacinque anni, solo, in quella casa più grande del necessario, trascinava le sue giornate con quel pensiero fisso nella mente.
SEMPRE-SOLO-QUELLO.
Guardò di sfuggita il calendario: lunedì 8 febbraio.
Di lì a una settimana sarebbe stato il gran giorno. Aveva avuto anni per prepararsi a quell'evento: non se lo sarebbe lasciato sfuggire per nessun motivo.
 
L'idea gli era balenata improvvisa, come un lampo.
Ricordava molto bene il momento.
Stava impietrito con Teresa al braccio guardando in trance la bara. Era una bastarda giornata di luglio di venticinque anni prima e in quella bara era rinchiusa Marta. La loro unica figlia. Violentata e strangolata da un animale che, in preda all'alcool, l'aveva bloccata sotto casa alle undici di sera, mentre rincasava da un'amica.
E in quell'istante, mentre la spingevano a braccia nella bocca nera del loculo, si era sentito lo stridìo, causato da un sassolino o da un grumo di cemento contro il quale il legno aveva strisciato. Quel rumore fastidioso l'aveva strappato dal vuoto dei suoi pensieri. E, chissà per quale insondabile associazione di idee, gli era apparsa all'improvviso quella scena che avrebbe vissuto nella realtà di lì a pochi giorni.
"Perché no? PERCHÉ NO?!?" si era chiesto.
La condanna, trent'anni di galera, gli era sembrata eccessiva. In quel momento si era augurato di vivere a sufficienza per realizzare l'idea che stava germogliando dentro di lui. Allora non aveva ancora un preciso piano d'azione.
Ma il tempo per metterlo a punto non gli sarebbe mancato.
No. Non gli sarebbe proprio mancato.
 
I suoi ultimi venticinque anni erano stati venticinque faticosissimi anni.
I primi tre scanditi da un dolore lancinante vissuto assieme Teresa. Poi da solo. Teresa se n'era andata così, in silenzio: una mattina non si era più svegliata. Lei, del resto, non aveva più alcun motivo per vivere. E lui non l'avrebbe mai messa a parte dei suoi progetti. Ultimamente erano diventati due estranei: il dolore, anziché avvicinarli, li aveva progressivamente allontanati.
Rimasto definitivamente solo, quel pensiero l'aveva tenuto occupato. Lui l'aveva curato, nutrito, arricchito di dettagli. Era divenuto il fedele compagno delle sue giornate piene di vuoto.
L'unica ragione di una esistenza inutile.
Da poco meno di dieci anni aveva lasciato lo studio e da allora la sua vita era ancora più monotona rispetto a prima.
Sveglia alle sette. Il giornale. Un salto alla trattoria sotto casa per il pranzo. Per cena si accontentava di un bicchiere di latte o di una minestrina.
Il pomeriggio, dopo un sonnellino, il tram 36 e cinque minuti a piedi. E la panchina, che ormai considerava praticamente di sua proprietà.
Gli capitava raramente di trovarla occupata: d'altra parte, con tutto il verde pubblico a disposizione, chi avrebbe potuto essere interessato a sostare in quel giardinetto spelacchiato, con vista sul portone del carcere mandamentale?
Per lui invece era il posto ideale di meditazione.
Sapeva bene che l'animale non sarebbe uscito tanto presto dalla gabbia. Ma lui preferiva essere lì, puntuale, ogni giorno, a custodirlo.
___
Quando si parla di combinazioni.
Al termine di una delle prime udienze del processo, un lungagnone alto e secco gli si era avvicinato, stendendogli timidamente la mano. Non l'aveva riconosciuto.
- Ciao. Ti ricordi di me? Sono Garberoglio
La mente intorpidita dai tranquillanti aveva tuttavia messo a punto rapidamente la figura.
- Garberoglio?!...sì. Certo che mi ricordo. Cosa fai da queste parti?
- Ci lavoro... sai, ho letto di quello che ti è capitato. Una cosa terribile. Volevo farti le mie condoglianze.
- Grazie. Grazie. - aveva risposto svogliato.
A guardarlo bene non era poi tanto cambiato dal ragazzino foruncoloso e ingobbito, particolarmente apprezzato a suo tempo per le versioni di greco e latino.
Povero vecchio Garby, con le mani secche, nodose e sempre stranamente sudate: la media del nove alla maturità non gli aveva garantito altrettanto successo nella vita. Non aveva trovato una donna per la quale valesse la pena barattare la vecchia madre. E anche nel lavoro le cose non erano andate meglio. Aveva fatto giurisprudenza. La madre confidava tanto in un figlio avvocato.
Dopo la laurea, aveva tentato il concorso in magistratura. Una, due, tre volte. Non ce l'aveva fatta. Incredibile! Garby non ce l'aveva fatta!Alla fine si era ridotto, con un po' di tristezza, a fare il cancelliere.
Fortuna che Camilli, uno dei compagni di liceo che lo avevano maggiormente assediato per le versioni e che era diventato un penalista di grido, aveva fatto carriera politica e si era trasferito a Roma: era stato un bel fastidio vederselo scodinzolare davanti, ogni giorno, circondato da una costellazione di praticanti leccaculo...
Tutto ciò Tommaso lo aveva appreso poco alla volta. Il processo andava per le lunghe e ormai era diventata una consuetudine: i giorni di udienza, nell'intervallo, andavano a mangiare un boccone in una trattoria poco lontano. E lì, davanti a una bistecca e a un bicchiere di vino ognuno, più per sé che per l'altro, riprendeva e riannodava i fili pendenti della propria esistenza faticosa.
Finito il processo, fatalmente, si erano nuovamente allontanati. Ma non del tutto. Qualche volta entrambi, ognuno vedovo a modo suo, si trovavano la domenica a pranzo. Era stato proprio in una di quelle occasioni che, con noncuranza, aveva lanciato l'esca.
- Chissà quando uscirà di galera. Mi piacerebbe vederlo, parlargli...
L'altro non si era stupito della cosa. Era passato tanto tempo. E così, una parola qua una là, quasi con naturalezza, era arrivata l'informazione che cercava.
___
Lunedì 15 febbraio.
La sera della domenica precedente non riusciva a prender sonno.
Steso sul letto, gli occhi aperti verso il buio del soffitto, ripassava mentalmente ogni fotogramma della giornata successiva. Si alzò ancora una volta e aprì il solito cassetto della scrivania. Al buio allungò la mano, la prese e la appoggiò sul comodino: anche per lei era giunta ormai l'ora di uscire allo scoperto.
 
Quel mattino si svegliò prestissimo.
Il cielo era ancora buio. Quando cercò di accendere l'abat-jour la mano urtò contro il metallo freddo e la sua mente ancora intorpidita cozzò contro la consapevolezza che il momento tanto agognato ma tanto temuto era alle porte. Non c'era più via di scampo.
Tommaso ripeté meccanicamente i gesti di ogni mattina. Accese il gas e pochi minuti dopo la moka iniziò a gorgogliare mentre nella stanza si spandeva un gradevole odore di caffè.
Mentre lo sorseggiava, caldissimo e amaro, un'idea improvvisa gli attraversò la mente: "Potrebbe essere l'ultima volta che ho dormito in casa. E se domani a quest'ora fossi in galera?". Il pensiero non lo infastidì più di tanto. Perché preoccuparsi? Cosa aveva da perdere?
E poi non c'era troppo tempo per pensare. Se l'informazione era giusta l'animale sarebbe uscito in mattinata. Meglio essere lì in anticipo. Guardò l'ora: le sette e quarantacinque. Tre, quattro ore al massimo e tutto sarebbe finito.
Il tempo quel mattino aveva voluto fare le cose in grande: il livore delle giornate precedenti aveva lasciato il posto a un bellissimo, gelido sole. Il cielo era terso e la natura sembrava in festa. Tra poche settimane sarebbe iniziata la primavera. Il 36 non si fece aspettare. Alle nove e un quarto Tommaso era già alla sua panchina, in agguato.
 
Verso le undici cominciò a preoccuparsi. Della data era certo. Non si era sbagliato. Che ci fosse stato qualche contrattempo?
Ormai guardava l'orologio continuamente. Strano! Erano passati come un lampo venticinque anni, e adesso il tempo sembrava essersi fermato. Alle dodici, quando aveva ormai perso la speranza, gli parve di vedere qualcosa in corrispondenza alla piccola porta metallica, a lato del portone principale. Era un'impressione o si muoveva davvero?
Sì. No. Sì. SI! La porta si stava aprendo.
Piano. Al rallentatore, ma si apriva.
Rimase così, socchiusa per pochi istanti: un'eternità. Poi, sempre al rallentatore, una figura scura si sporse verso l'esterno. Un passo breve. Un altro. Un altro ancora. Come di chi non fosse abituato a spazi aperti. La porta si richiuse alle sue spalle.
Era lui.
Cristo!
ERA LUI!!
Tommaso era impietrito. Il respiro bloccato.
Da venticinque anni aspettava quel momento. E adesso che era arrivato non gli sembrava possibile. A meno di duecento metri da lui l'animale. Libero di muoversi. Di azzannare ancora.
Lo guardò guardarsi attorno. Smarrito. Poi muovere qualche passo nella sua direzione. Passi lenti, stentati.
Lo vide avvicinarsi mentre la sua mano nella tasca del cappotto cercava febbrilmente il metallo. In qualsiasi direzione avesse voluto andare sarebbe stato costretto a passare di lì.
Tommaso voleva controllarlo bene. Da vicino.
L'altro si avvicinava. Lentamente. Passarono non più di due lunghissimi minuti ed eccolo lì, a cinquanta metri. Poi venti. Poi dieci. Tommaso lo vide finalmente dappresso e rimase esterrefatto: un vecchio.
Un vecchio!
Dov'erano gli occhi torvi che aveva odiato nell'aula del tribunale venticinque anni prima? Dove la bestia che aveva urlato la sua ribellione alla lettura della sentenza? Ecco cosa ne era rimasto: un vecchio rudere che trascinava passi pesanti dentro un cappotto non suo, con una borsa sportiva che penzolava dalla spalla sdrucita.
Non si accorse di nulla. Gli passò davanti e proseguì con passo incerto. Lui lasciò che fosse a una certa distanza. Poi si alzò e lentamente gli si incamminò dietro.
Ora si sentiva un po' più rilassato. In fondo tutto stava andando come doveva. Di lì a poco la storia avrebbe visto la sua conclusione.
L'altro proseguiva stancamente, senza guardarsi attorno. Tommaso sapeva già dove sarebbe andato e quale strada avrebbe percorso. Aveva previsto tutto. Camminava tranquillo tenendosi a una trentina di metri di distanza. Tranquillo?
In realtà ripassava meccanicamente tutta la scena che di lì a poco sarebbe seguita. La conosceva a memoria, come un pianista in grado di suonare un pezzo a occhi bendati.
Aveva riflettuto molto su come la cosa avrebbe dovuto svolgersi.
Non voleva che l'altro partisse senza conoscerne il motivo. Si era preparato bene in proposito. Niente enfasi. Niente grandi discorsi. Solo poche parole. "Ti ricordi di Marta? Ci pensi qualche volta? Io non ho mai smesso in tutti questi anni. Volevo solo che lo sapessi prima di andartene". In quella parte deserta di città nessuno avrebbe fatto caso a un paio di colpi di calibro 22.
Così. Semplice. Chirurgico.
Per andare nella direzione prescelta si doveva attraversare una zona semi disabitata, costellata qua e là da magazzini e piccole fabbriche. L'unico momento di animazione in quella zona era al mattino presto e la sera all'ora di uscita. Per il resto non girava anima viva. Si stava avvicinando l'ora di pranzo e gli operai si avviavano alla mensa a prelevare la pietanziera portata al mattino che le inservienti avevano messo a scaldare.
Le pochissime auto che passavano contenevano forse qualche coppia irregolare che, ad onta dell'ora, si era appartata in qualche viuzza deserta. Nessuno avrebbe fatto caso a due vecchi.
Affrettò il passo.
Ormai era una questione di qualche minuto, poi tutto si sarebbe concluso. Gli venne alla mente il "tutto è compiuto" di Cristo sul Golgota. Quale strano Golgota era mai quella periferia abbandonata! E chi tra loro due era Cristo e chi il suo carnefice?
Tommaso impugnò il metallo gelido nella tasca del cappotto.
L'animale era a non più di quindici metri davanti a lui.
Ormai era cosa fatta.
Una sirena. Lontana.
Ambulanza, pompieri? Forse no. Piuttosto poteva trattarsi di una delle piccole fabbriche che sorgevano lì attorno. Segnava l'ora del pranzo oppure quella di riprendere il lavoro.
Tommaso esitò. Quel suono l'aveva distolto per un momento dal progetto di morte per il quale, lento ma inesorabile, si era programmato.
In un attimo gli balenò davanti agli occhi quanto sarebbe accaduto di lì a qualche istante. Qualche parola. Un colpo, forse due, persi in quel deserto metropolitano. Lui che si allontanava dal mucchietto di stracci, con calma. Non c'era bisogno di correre. E poi?
E POI?!?
Cosa avrebbe fatto quella sera e il giorno dopo e quello successivo?
Come avrebbe passato i giorni e soprattutto le interminabili notti senza quella voglia di vendetta che aveva accudito con amore perverso? Di che cosa avrebbe nutrito le proprie fantasie se quella, l'unica che l'aveva mantenuto in vita, fosse venuta a mancare?
Gli passò davanti, in un baleno, la lunghissima strada che aveva percorso: scuola, università, lavoro, matrimonio, Marta. Poi la tragedia e l'attesa, lunga e inutile, della vendetta. Ne era valsa la pena?
"Che cosa ne ho fatto della vita!?" fu per un attimo il pensiero sconfortato.
Era stato tutto scontato e ineluttabile o qualcosa avrebbe potuto essere diverso se solo lui l'avesse voluto?
Era troppo tardi ormai per cambiare qualcosa?
Per la prima volta, dopo tanti anni, le cose cominciavano ad apparirgli sotto una luce diversa.
Allentò la presa sul metallo.
L'animale si trascinava avanti, a fatica. Erano ricomparse le prime costruzioni abitate: di lì a poco sarebbe arrivato a casa. Un casermone di barriera, frequentato ormai soprattutto da neri, dove nessuno si sarebbe ricordato di lui, chi era, da dove veniva. Il posto ideale per riprendere un aborto di vita.
Sostò a lungo davanti alla rastrelliera dei campanelli quasi volesse decifrare, uno ad uno, i graffiti che la deturpavano. Poi alzò una mano incerta e premette un pulsante. Dopo diversi secondi si sentì lo scatto. Esitante spinse il portoncino ed entrò.
Tommaso lo guardò salire i primi gradini mentre il battente, lentamente, si richiudeva.
Alle sue spalle un piccolo spiazzo che, in altri tempi, doveva essere stato un giardinetto. Ora sembrava più una discarica. In un angolo, malandata, una panchina. Sedette cautamente, nel timore che non reggesse il suo peso. Nessun problema: era ancora solida.
Bene: l'altro era di nuovo sotto il suo controllo.
Nel frattempo lui avrebbe potuto riflettere.
Non era più così sicuro sul da farsi. Sapeva però che qualche cosa avrebbe fatto. Senz'altro. Doveva solo pensarci prima molto bene. Con calma.
Il tempo non gli sarebbe mancato.
No. Non gli sarebbe proprio mancato.

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