Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Piera Ariotti
Con questo racconto ha vinto il secondo premio all'edizione 2006 del Premio Città di Melegnano.



STORIA DI CHIARA




II piccolo elefante rosa di gesso con la proboscide scheggiata in punta era l'ultimo a salutarla, la sera, prima che lei si addormentasse. Si affacciava timido dal cassettone di fianco al lettino e le pareva mortificato per quella ferita bianchiccia che aveva spezzato il suo fiero urlo di battaglia. Ma forse tutte le cose sembrano mortificate la sera, prima di dormire, come deluse di non essere guardate da nessuno - o forse invece hanno una loro vita segreta nella mezza luce del lumino da notte e aspettano solo che tutti dormano. Chiara voleva sapere cosa succedeva quando lei scivolava nel buio a poco a poco senza accorgersene, ogni sera stava lì zitta e buona per vedere, gli occhi socchiusi; e con il pensiero intanto andava su e giù per il fianco della mamma, come una collinetta nel letto della camera accanto, quando sono grande me la metto anch'io quella roba sulla faccia, papà russa e fa tanti rumori con la bocca mentre dorme, la mamma no, io non devo far rumore con la bocca quando mangio, che cosa vorrà dire "midollo"? Alzava la testa piano piano, ma l'elefante era sempre là con la proboscide ritta come un dito puntato che teneva fermo il buio, poi gli angioletti grassi appesi alla parete incominciavano a tremare, a muoversi, ecco ecco ci siamo ho ragione io, si facevano grandi, scendevano giù, vanno e vengono, vanno e vengono... Ma il sole del mattino li illuminava al loro solito posto e Chiara proprio non ricordava più dove fossero andati, la sera. Chiara aveva sempre tante cose da fare, nessuno si rendeva ben conto di tutto quello che poteva succedere se lei ogni giorno non fosse scesa a compiere il suo giro nell'orto e nel giardino, dalla cuccia di Ras, dalle galline pettegole che avevano sempre da raccontare tante cose mostrandole i pulcini nuovi, l'aveva spiegato soltanto a Marta e Marta aveva detto di sì che era proprio indispensabile che lei ci fosse. Tirava su col naso, Marta, lei non ci riusciva mai così bene, e aveva i capelli ritti sulla testa come la bambola e le dava sempre da leccare il cucchiaio in cucina quando faceva il dolce, mangia povera santa - diceva - tanto chissà... E la mamma aveva pianto anche sulla spalla di Marta un giorno che era venuto il dottore, ecco qua la nostra Chiara, con quella barba che le faceva il solletico e le spazzolava la schiena e la pancia e lei doveva tossire e respirare forte e le sembrava di essere come la bambola, che l'aveva tutta fasciata perché era stata sotto l'automobile, ma per finta si capisce. Poi ogni tanto la portavano in un grande palazzo bianco, con lunghi corridoi e tante porte e un odore strano che pizzicava il naso, e un altro dottore, ma più giovane e simpatico, le infilava nel braccio un ago attaccato a una boccetta di vetro che diventava rossa ed era inutile piangere, ma quel rosso le faceva proprio paura sapere che era suo e che ce l'aveva dentro.
Tante volte la mamma aveva gli occhi umidi e un po' gonfi, e la prendeva sulle ginocchia e la stringeva forte e le diceva bambina mia bambina mia con la sua voce morbida, la mia mamma bella come la luna, Chiara l'abbracciava fino a soffocare e le veniva voglia di piangere e non sapeva il perché, ha un odore così buono la mia mamma e la pelle più liscia delle mie tazzine di porcellana per la bambola; e poi veniva Marta, tirava su col naso, non faccia così non faccia, signora, povera signora. Chiara lo sapeva perché mamma e papà avevano così sovente gli occhi rossi e perché Marta diceva «tanto chissà...» con la bocca stretta e scuotendo la testa con tutti quei capelli crespi che andavano avanti e indietro; era stata la bambina del giardiniere quella volta del pezzo di canna che lei l'aveva rivoluto a tutti i costi perché era suo e serviva alla bambola zoppa, una bambina grassa lunga e con le trecce rosse, «tanto bisogna dartele vinte perché devi morire - aveva detto - lo sanno tutti» e lei aveva tirato fuori la lingua più che poteva e poi l'aveva raccontato alla mamma e la mamma era diventata bianca come la sua camicetta, mammina bella non lo faccio più te lo prometto, e papà il giorno dopo le aveva portato un orso di stoffa pelosa, che faceva uh uh che era una bellezza e metteva proprio una paura vera. Ma che cosa è "morire"? Qualcuno un giorno le aveva detto che è un lungo viaggio fra le stelle: dunque gli astronauti muoiono? Ma perché loro ritornano e tanti altri no? Uno dei soliti misteri dei grandi, lei comunque pensava che doveva essere una cosa dei vecchi, perché si annoiano a far niente, e succedeva quando il corridoio era pieno di gente nera col rosario fra le mani come quando era morta la vecchia in casa del vicino, e quell'odore di chiesa e intorno buio, ma era perché la vecchia non aveva niente da fare, stava tutto il giorno seduta sulla poltrona e diceva sì sì con la testa e tremava che sembrava sempre inverno, con quegli occhi che frugavano in tutti gli angoli della cucina, e la notte gridava, e così non si può mica più andare avanti, diceva sua nuora. Chiara invece non poteva morire, lei ne era sicura anche se a loro non lo diceva perché non le avrebbero creduto, i grandi sanno sempre tutto loro - ma quando non sarò morta e diranno come mai, glielo spiegherò che l'ho sempre saputo, io, che non posso andare via perché ho tante cose da fare, c'è la gatta che le arrivano i gattini, me lo ha detto Marta, e bisogna che decida io i loro nomi, e devo guardare il melo in fondo all'orto, se vai a guardarlo bene ogni giorno le mele diventeranno grosse così, dice Marta, e se non ci andava lei a guardare come avrebbero fatto a crescere le mele? Qualche volta provava a morire nell'aiola di trifoglio rosso, chiudeva gli occhi, stava ferma sdraiata con le mani intrecciate sullo stomaco come la vecchia del vicino, ma dentro gli occhi nel buio si accendevano meravigliose girandole d'oro e fuochi d'artificio, e le testine curiose del trifoglio le facevano il solletico sulle guance, e qua, siamo qua gridavano le papere dandosi delle arie - impossibile morire. Il giardino non le piaceva poi tanto, così preciso e squadrato come i disegni di una tovaglia, e non toccare qui e non andare là, e le rose che pungevano con il naso in su e le dalie piene d'importanza e le ortensie impacciate con tutta quella roba indosso e il giardiniere che portava via le foglie gialle e rosse che stanno così bene sul prato e non crede che sono il manto rattoppato dell'Estate. D'inverno, poi, così tutto bianco e nero il giardino faceva tristezza, sembrava un noioso disegno a matita, senza colori, che dopo un po' ti arrabbi perché non sai far capire dove finisce il prato e incomincia il cielo. Invece nel pollaio c'era da raccogliere l'uovo caldo caldo che tremano le mani e viene una gran voglia di romperlo per vedere come fa a starci tutto lì dentro, e nell'orto c'erano i bruchi da spiare sulle foglie dei cavoli, andavano su piano piano col fiato grosso, forse, come Marta quando va in solaio, così grassi molli, mi piacerebbe vederli di sotto, la pancia per aria, ma non aveva il coraggio di toccarli. E tra i filari dei pomodori, alti che la nascondevano tutta, pareva d'essere in un bosco misterioso, cammina cammina, che freddo che paura sono così stanca, un'ape la inseguiva chiamandola, è un aeroplano che mi cerca - poi veniva Marta con la merenda e guastava tutto. Ogni tanto il dottore ritornava, ecco qua la nostra Chiara, brutto che vuoi farmi morire e lascia piangere la mia mamma, forse è colpa della barba se non sa ridere, e portava dei fogli e quelle grandi fotografie trasparenti dalle strane macchie, che le avevano fatto sul lettino nel palazzo bianco, non respirare, respira. Ma non è vero che muoio e poi il cancello è chiuso e non la lascio entrare tutta quella gente col rosario e un giorno o l'altro glielo avrebbe detto alla mamma che lei non aveva tempo per morire, ma è difficile spiegarsi con i grandi, di solito non capiscono niente dell'orto e vanno in giardino solo per stare seduti e farsi vento e quando raccolgono le rose non si accorgono nemmeno che i piccolini delle rose tremano tremano perché hanno paura di restare soli. Anche lei aveva paura di restare sola, tante volte mentre cullava la bambola, rannicchiandosi in qualche angolo per parlarle senza orecchie curiose intorno, la casa rimaneva ferma d'improvviso in un silenzio sospeso, non sisentiva al di là della porta nessun passo nessuna voce, tutti immobili inghiottiti da un vuoto senza ritorno, forse morire è questo, le cose che guardano minacciose pronte a venirti addosso, ti schiacciano, e chi si cura di te, sono qui dimenticata, potrebbero chiudermi qui dentro senza nemmeno vedermi - ma bastava un suono di piatti in cucina o il ciabattare di Marta o il rastrello sgranava la ghiaia fuori e tutto ritornava come prima, le cose la riconoscevano, si riavvicinavano tranquille. Invece nell'orto e nel giardino non si sentiva mai sola, c'era sempre qualche fruscio misterioso ma consueto, e ronzio di insetti e voci dalla strada e dalla casa e Ras le leccava la faccia tutte le volte che poteva e gli alberi si inchinavano per salutarla districando le dita deirami più alti da qualche nuvoletta che pareva farlo apposta, per gioco, ad impigliarsi. Ma quando verso sera anche il giardino taceva e il sole scivolava giù di mala voglia dietro il muro imbronciato e le rose dormivano con le manine verdi sugli occhi e nella vasca una goccia piangeva cado piangeva cado e tremava e i grilli uscivano ad accordare il violino e il ragno spegneva tutti i raggi d'oro alla sua tela e tristi uccelli silenziosi passavano su e giù a raccogliere le briciole di sole, Chiara sentiva chissà perché voglia di piangere, che qualcuno l'abbracciasse forte, il buon odore della mia mamma, e il salotto caldo con i cuscini che ci si affonda, e le chiudeva la gola uno sgomento sottile come se avesse tanto cammino da compiere alla ricerca di non sapeva che cosa, e voleva quella bambola senza braccia di tanto tempo fa e l'orso non faceva uh uh nemmeno a schiacciargli la pancia con tutte le sue forze, perché la mia mamma non viene a prendermi?, anche il vento non è più quello di prima, brontola piange. Se la chiamavano stava zitta improvvisamente felice, mi cercano sono in pena per me, poi correva di slancio, eccomi qui mamma, mammina mia. Ma la gioia segreta di Chiara erano le porte chiuse, aprirle piano piano con il fiato sospeso, attenta, la lingua fra i denti, forse adesso si può vedere che cosa fanno le cose quando non ci siamo, deve essere bello camminare sul prato fiorito di quella signora del salotto con tutti quei veli; sul limitare della porta di casa il sole l'abbracciava improvviso festoso, lei si fermava sul gradino un momento ad occhi chiusi, dentro come ci si scalda intanto, e tutte le cose sono una cosa sola d'oro che quasi manca il respiro. Poi per il compleanno della mamma, Chiara volle proprio dirglielo che non piangesse più, che non avesse paura, che lei non poteva morire, chiudiamo l'uscio mammina noi due stiamo qui, non me ne vado mica fra le stelle, io, non ho tempo, sono sbocciati anche i fiori del mandorlo nuovi, sembra tutto di pizzo come il tuo vestito quando vai a teatro, non posso andarmene proprio adesso, la mamma avrebbe capito di sicuro. Dietro la porta si fermò un attimo col cuore che le batteva forte, era bello fare lungo quel momento di attesa, come lasciare la torta in ultimo che dura di più il buono, aprire piano piano e la mamma è lì sorridente nella vestaglia rosa, bambina mia, mia gioia, ecco adesso piano piano... Allora sentì la voce di papà, bassa calda morbida, sembra quando mi prende sulle ginocchia per raccontare le avventure di Alice o di Pinocchio, ma è perfino più divertente quando lui fa la voce del Gatto Silvestre e io sono Titti. «Dunque ne sei proprio sicura» stava dicendo papà. «Ne sono sicura» una pausa, la voce della mamma era ancora più bassa, poi si fece roca, piangeva la mamma, certo ha la testa sulla spalla di papà, fanno sempre così loro « e forse, forse Chiara non ci sarà già più, non ci sarà più Chiara quando verrà l'altro». Chiara lasciò andare la maniglia, dietro l'uscio, si chiuse la bocca con la mani perché le pareva che qualcosa urlasse dentro e che tutti dovessero sentire e affacciarsi a vedere chi urlava così, quando verrà l'altro, allora era questo dunque, allora bisognava partire per le stelle perché viene un altro, chi sarà quell'altro, perché non ci sarò più io, è questo morire, perché viene l'altro non voglio, bambina mia bambina mia, ma io ho tante cose da fare io. Corse alla porta d'entrata, il sole l'aspettava paziente sui gradini, la vestì di calore improvviso, ora non posso, dunque non sanno tenermi, ho paura ho paura non voglio, correva fra le aiuole, il vento, aveva da dire tante cose con tutto quel frusciare di foglie, gioca anche tu gioca anche tu, e le dalie la guardavano meravigliate e le ortensie si tiravano indietro spaurite che non si spiegazzasse la loro gonna rigonfia e gli alberi si pettinavano lassù fra loro, dove corri dove corri, gioca anche tu. Si aggrappò al cancello chiuso con le mani sudate e il respiro che le stringeva la gola, l'altro l'altro l'altro, attenta alla strada bianca deserta che non venisse, quell'altro, cosa crede? sono forte io, non lo lascio entrare. D'un tratto incominciò a piangere in silenzio desolatamente, sgomenta - e se l'altro era più grande e più grosso di lei?


Piera Ariotti


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