Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Matteo Galdi
Con questo racconto ha vinto il terzo premio all'edizione 2004 del Premio Angela Starace.

Il sassofonista
 

"I bambini sono la risposta di Dio alla Storia"

Andrew Klavan

 
Sabina Cahan parcheggiò l'auto proprio nei pressi del luogo prestabilito.
Tremava, di sicuro non a causa del primo, timido scirocco stagionale.
Quel posto non le apparteneva, il peso dell'aria sembrava insostenibile.
Tutt'altra cosa Gaza, la sua Gaza, quella in cui aveva sempre vissuto, quella della sua amata università, quella di solito ignorata dai telegiornali.
L'aria di quel posto aveva qualcosa dell'altra Gaza, la più tragica e famosa, quella che una volta affacciava sulla "striscia".
Una volta...
Il solo pensiero della concretezza di quelle tre sillabe cancellava qualsiasi brutta sensazione.
<< ...Piazza Grande, davanti al mare, lì dovrai farlo>> le aveva quasi imposto per telefono.
Smontò dall'auto, attraversò la strada e raggiunse la piazza.
Si fermò a un metro dalla balaustra.
I meravigliosi albori del crepuscolo rapirono per un attimo il suo sguardo, poi, con gli occhi rivolti sulle piatte acque del Mediterraneo, s'accinse finalmente ad aprire la lettera.
 
Cara Sabina,
prima che le nostre strade s'incrociassero, la mia vita era simile a una nave sempre sul punto di sprofondare nel passato. Quando un sabato di circa un anno fa, finito di suonare in un locale di New York, scoprii quanto grande potesse rivelarsi in certi casi lasciare comunicare i tuoi pensieri da un computer, la nave fu attraccata definitivamente al molo.
Durante le nostre iniziali e lunghe chiacchierate via rete ci siamo aperti come due libri desiderosi di farsi leggere, raccontato le nostre avventure universitarie, le nostre abitudini, i nostri primi amori, insomma, abbiamo imparato a conoscerci. Anche se a malincuore, però, ci sono state alcune pagine che ti ho nascosto.
A dir la verità avevo paura di fartele leggere... paura di perderti, paura di non poter vedere con i miei occhi l'incantevole viso tante volte ammirato in misere fotografie, di non poter udire con le mie orecchie la tenera voce sentita solo attraverso un cavo telefonico. Paura del latente rancore interiore che fino a poco tempo fa ci divideva. Sì, fino a poco tempo fa, perché se hai rispettato gli accordi, adesso ti dovresti trovare a Tel Aviv, "libera" di passeggiare serenamente sul suolo israeliano nonostante tu sia palestinese.
Mia dolce Sabina, chi ti scrive non è l'americano Howard Stanton.
In realtà, per tutto questo tempo, tu hai chattato e parlato in inglese con Natan Sbimoni, un emigrante israeliano trasferitosi col padre negli Stati Uniti all'incirca quindici anni fa, quando aveva appena 11 anni.
Morì mia madre quell'anno e, in tutta sincerità, la rivelazione sulla mia vera identità e il racconto riportato di seguito, rappresentano gli unici motivi di questa lettera. Né voce umana, né tantomeno quella di un computer, potevano essere più efficaci del potere della parola scritta.
Non posso prevedere la tua reazione, forse in questo momento stai già stracciando i fogli, però ho bisogno di andare avanti. I segreti della tragedia di quella mattina me li porto dentro da troppo tempo e cominciano a pesare, a spingere, vogliono uscire fuori, essere liberati. Nessuno sa del sassofonista, neanche mio padre. Nessuno può immaginare cosa si provi ad essere coscienti di tenere stretto nella tua il moncone della mano di tua madre, mentre lui emette le sue vibranti note melodiose fra l'odore di carne bruciata...
 
Sabina alzò gli occhi sgranati dal foglio, il cuore in tumulto. Un misto di confusione le stava inondando la testa. Era letteralmente inorridita.
Il traffico delle barche, i passanti sulla banchina, le prime splendenti luci dello stellare "Monumental Park" in lontananza, l'innesco degli spettacolosi e affascinanti fari sull'acqua: tutti componenti di una visione estranea.
Si era completamente isolata dal mondo circostante.
Gettò uno sguardo incosciente sulle acque azzurre del Mediterraneo, infine, col vento che le accarezzava il viso, quasi senza rendersene conto, ritornò a incollare gli occhi sulla lettera.
 
...Doveva essere un giorno stupendo quel sabato, ero felice come può esserlo soltanto un bambino al termine dell'anno scolastico e in procinto di fare una gita organizzata nel parco divertimenti più grande dello Stato.
Se ricordo bene, ormai sono passati tanti anni, da dove ti trovi si dovrebbe scorgere la cima della ruota panoramica, sempre se c'è ancora naturalmente. Da lì dovrebbe distare solo pochi minuti di cammino.
Quella mattina, io e mia madre arrivammo prima del solito alla "David School". Ci attendeva il pullman bianco-azzurro, quello riservato alle gite di fine anno. Per l'autobus giallino, impiegato ogni giorno per il trasporto a scuola, era iniziato il periodo di letargo. Dopo i convenevoli saluti di rito fra genitori, salimmo tutti sul pullman in attesa della partenza.
Fremevo.
Ricordo l'ansia di quei momenti come se fosse ieri.
La delizia dell'attesa per noi adulti rappresentava un aperitivo da gustare fino in fondo, ma per un bambino equivale ad un gelato dispettoso che non vuole saperne di sciogliersi in bocca.
I miei amici non erano da meno. Le risate, le pacche sulle spalle, le prese in giro, erano tutti trucchi per ingannare l'attesa.
La verità, crescente come una bolla in ognuno di noi, risultava semplice: non vedevamo l'ora di posare i piedi sul mitico suolo del "Monumental Park" e salire sulla fantastica ruota panoramica.
La frenesia era un nemico invincibile.
<<Si parte!>> esclamò dopo attimi interminabili l'autista e parte di quella frenesia si trasformò subito in adrenalina.
Iniziammo a cantare e sai cosa intonavamo? Dei stupidi motivetti infantili che solo i genitori conoscono e che per un motivo o l'altro i figli le rendono proprie.
Superammo un semaforo, due, una lunga strada provinciale, una curva, due, altre strade, fin quando non giungemmo all'incrocio, quello alle tue spalle, sempre se esiste ancora naturalmente. Il semaforo era rosso, io stavo scherzando con mia madre su una di quelle filastrocche assurde usate come esche per addormentarmi da piccolo. Lei mi prese per mano e poi arrivò l'inferno.
Feci appena in tempo a vedere la cima della ruota panoramica (fu la mia ultima volta), il pullman aveva percorso qualche metro da quando era scattato il verde. Probabilmente, ricoprivamo più o meno la tua attuale angolazione visiva.
Un'improvvisa ondata di calore mi avvampò il corpicino strappandomi letteralmente dal sedile.
Dapprincipio non udii niente di niente, poi, qualche istante dopo, cominciai ad origliare spenti lamenti di sofferenza e... la musica.
Si trattava di una soffice melodia jazz cascante a tratti in un triste blues. Era la più bella che avessi mai ascoltato fino ad allora. Suonavo il sax già da due anni a quei tempi, avevo ereditato la passione da mio padre. Ma credimi se ti dico che quelle note crescenti, le improvvise scosse, le ondulanti cadute, le energiche riprese e l'estasiante allaccio al ritornello melodico, rappresentavano davvero qualcosa di stupefacente.
Il corpo indolenzito mi impediva qualsiasi movimento, mentre l'odore di zolfo, unito a quello nauseante di carne bruciata, mi rubava l'ossigeno. Quella musica, però, mi vibrava dentro a ogni passaggio di nota.
"Sto morendo", ricordo di aver pensato. "Questa musica è la voce della morte", e infine, riuscendo a levare le palpebre, lo vidi.
Inizialmente scrutai soltanto due piedi nudi carbonastri calpestare gambe tranciate, corpi martoriati e poltigliose chiazze rossastre. In seguito, quando mi fu davanti, alzai di quel tanto il capo da riuscire a esaminarlo.
Un lungo cardigan nero, rammagliato nel basso ventre, gli scivolava sul corpo fino a sfiorare le caviglie. Il capo calvo, su cui fioriva una vegetazione di pustole, sovrastava un repellente viso butterato nascosto per metà dietro un grosso paio d'occhiali scuri. Due labbra carnose serravano il sassofono quasi volessero morderlo. Ma non lo stavano mordendo. In realtà, erano contratte in un ghigno. Allungò una mano sugli occhiali e con un gesto repentino se li tolse.
Due occhi rossi e guizzanti, in cui ardeva il fuoco dell'inferno, mi fissarono riluttanti. La musica, intanto, continuava ad avvolgermi nelle sue spire ipnotiche.
Non riuscivo più a staccare gli occhi da quell'essere, poi gli ultimi bricioli di coscienza mi ricordarono che stringevo qualcosa in una mano. Vi puntai lo sguardo: era la mano di mia madre.
Persi i sensi.
I successivi sette giorni li trascorsi in una camera di terapia intensiva. Caddi in coma, i medici dissero a mio padre che lo shock e le ustioni erano risultate fatali. Tuttora non riesco a ricordare nulla di quello stato, tranne le reminiscenze vaghe sulla presenza di mia madre. In quella sorta di sogno eravamo riusciti ad entrare nel "Monumental Park" e, tra una giostra e l'altra, continuava a sorridere tenendomi per mano.
Quando la sera del settimo giorno mio padre entrò nella camera di rianimazione con un disco di Billie Holiday, io e mia madre ci trovavamo nel punto più alto della ruota panoramica.
<<Finirà>>, mi stava dicendo: <<Finirà...>> ripeteva stringendomi forte a sé.
Fu l'ultima volta che avvertii realmente il suo calore, poi la musica mi penetrò i timpani. Il mitico Billie s'era messo all'opera e non potevo mancare.
I giorni dopo il risveglio furono i più brutti della mia vita. Un irritante esercito di giornalisti cominciò la sua personale battaglia per cercare d'intervistare l'unico superstite della prima strage rivendicata dal gruppo Hamas. Dicevano che quella era storia, che io ero il simbolo della resistenza israeliana, ma non sono mai stato d'accordo. Sono morti diciannove bambini e ventitré adulti in quel pullman, vite umane innocenti. I loro parenti non mi avrebbero mai visto come un'icona di resistenza.
Avvenne in seguito a quell'autentico assedio il nostro definitivo trasferimento negli Stati Uniti.
Ed eccomi qua, senza veli, povero di alcuni segreti nascosti perfino a mio padre. L'incontro avvenuto quel giorno col sassofonista (ancora oggi mi chiedo se non sia stato uno scherzo dell'immaginazione) è stato l'unico della mia esistenza, neanche in sogno è venuto a trovarmi.
Quella melodia, però, mi ha accompagnato ogni giorno, ogni istante, l'ho proposta come pezzo di chiusura in ogni locale in cui sono stato a suonare. E, a chiunque mi chiedesse il titolo, ho sempre risposto che non c'era, non poteva avere titolo.
L'ho cancellata dal mio repertorio solo circa due mesi fa, quando è stata raggiunta la pace tra Israele e Palestina, i leader del gruppo Hamas catturati, il muro di divisione abbattuto e i territori equamente spartiti.
Non era più tempo per quella melodia, come non è più tempo per gli odiosi pregiudizi interiori fino a poco fa insormontabili.
 
N.B.: Se ho avuto la fortuna di essere riuscito a legarti fino al termine di questa lettera, ti prego chiamami. Tra due settimane sarò a Tel Aviv e la prima persona che vorrei incontrare sei tu.
 
New York, 30 Giugno 2005

 

P.S. Con affetto

NATAN SBIMONI

 
Il primo pensiero di Sabina Cahan fu di prendere il cellulare dalla borsa, ma fu frenata da un improvviso attimo d'indecisione.
Le luci intermittenti della ruota panoramica in lontananza avevano attirato senza volere la sua attenzione.
Rifletté giusto un istante, infine si convinse.
Sì, doveva chiamarlo da lassù, sul punto più alto, libera nell'aria come il gabbiano in quel momento perso nei meravigliosi colori del crepuscolo.
 

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 Ins. 07-02-2005