Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Marco Bottoni
Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Marguerite Yourcenar 2003, sezione narrativa

Sullo stesso treno
 
Prima di aprire gli occhi, riguardò con la mente il volto di lei.
I capelli biondi, sottili, che le cadevano su metà fronte fino a coprirle quasi del tutto un occhio, il naso piccolo, ben disegnato, l'ovale perfetto del viso solo un poco turbato dagli zigomi forti e dall'angolo della mascella volitiva, decisa.
Era diventata un'abitudine quotidiana, oramai, questo ripasso del viso di lei, un rito mattutino che era nato nella stagione dell'innamoramento, in tempi lontanissimi, e al tramonto del quale, per qualche strano capriccio, o magia, era inspiegabilmente sopravvissuto.
Così che, ad amore già morto e sepolto da tempo immemorabile (così gli pareva che fosse) uno sguardo con gli occhi della mente al volto di lei era ancora il primo atto di ogni risveglio.
Anche di questo.
Perché, evidentemente, doveva essersi addormentato.
Quanto a lungo avesse dormito e quando, di preciso, gli fosse accaduto di scivolare nel sonno, non avrebbe saputo dire lui, giovane manager in brillante ascesa, partito finalmente per una mini-vacanza estiva con lei dopo l'ennesimo assurdo scambio di scaramucce: un duello elegante e corretto nella forma, ma saturo dell'astio e dei veleni che restano a due che stanno insieme oramai solo in virtù del passato e per la forza della consuetudine.
Non sapeva nemmeno con precisione perché si trovava lì, ora; non avrebbe saputo ricostruire, uno ad uno, i passaggi dello scontro all'arma bianca che lo aveva condotto, alla fine, su quel treno affollato e scomodo.
Si era deciso per la vacanza insieme (Il lavoro! Sempre il lavoro! Per l'ufficio il tempo lo trovi, ma tre giorni, dico tre giorni per me!!) e poiché lui chiaramente avrebbe preferito il Nord, le Alpi e il fresco, lei non aveva perso l'occasione di vendicarsi della (infelice) frase sfuggita a lui al momento della capitolazione (E va bene, andiamo in vacanza, ma sappi che lo faccio solo per te!). Un errore, si era reso conto, pagato subito (Se lo fai per me, almeno che sia un posto che piace a me, non ti pare?), e al caro prezzo dell'ultima destinazione alla quale avrebbe mai pensato: Lipari. Posto sperduto, caldo e soffocante già in questi giorni di inizio estate, e quel che più conta, malamente servito dalla rete di telefonia mobile.
E, visto che a causa di un altro suo scivolone strategico lei era riuscita ad indovinare quali erano i tre giorni più densi di impegni per lui, e quindi ad essere assolutamente intransigente sulla data di partenza, a lui non era rimasto che impuntarsi testardamente sul mezzo di trasporto, memore di una frase carpita al volo durante un dialogo tra amiche: "Il treno, quanto lo odio!"
Aveva perso su tutta la linea e quel viaggio in treno costituiva per lui, per così dire, il goal della bandiera.
Era emerso alla coscienza con nella mente il viso di lei, e dunque, doveva trattarsi di un risveglio. Già, ma quando si era addormentato?
Il treno sfrecciava via da ore nella campagna, rumoroso e scomodo, di tanto in tanto, nello sferragliare delle ruote sui binari, si avvertiva qualche scossone di scambio affrontato male, o il lento piegarsi della carrozza a una curva più lunga.
Forse l'aveva cullato proprio il dondolio, associato al ritmico sobbalzare delle ruote sulle congiunzioni dei binari.
Si sentiva bene.
Stranamente bene.
Prima di aprire del tutto gli occhi fece un rapido esame della sua condizione di benessere fisico. Anche questa era un'abitudine inveterata, quasi una mania innocente di fare, al risveglio, un veloce check-up dei suoi malesseri.
Lei si divertiva a prenderlo in giro per questo, ridendo delle sue piccole idiosincrasie.
All'inizio, almeno.
Dopo un po' di tempo avevano smesso di ridere insieme dei suoi "mille milioni di malanni", più o meno quando per lei erano diventati "fisime assurde", indegne anche solo di costituire argomento di conversazione.
E così, la saltuaria cervicalgia (ce l'hanno tutti!), il dolore trafittivo al petto (non è ancora ora di avere un infarto!), la tosse stizzosa (però ci fumi su!), i piccoli dolori crampiformi ai più svariati quadranti dell'addome (somatizzi!) erano stati banditi come indesiderati e noiosi: roba della quale non parlare più, capitolo chiuso.
Così se li ripassava mentalmente da solo, i suoi mali, rassicurandosi del fatto di riuscire a tenere più o meno a bada l'intensità dei sintomi e, contemporaneamente, di ritrovarli sempre tutti quanti i suoi malini, senza che ne fosse andato perduto, o dimenticato, neppure uno.
Ora, però, si sentiva bene.
Non aveva male al collo, né senso di tosse imminente, né crampettini sparsi qua e là per la pancia. Soprattutto gli era completamente passato il dolore al petto, quello che gli aveva fatto più fedelmente compagnia nelle ultime settimane e che aveva costituito, fra le altre cose, l'ultimo e più notevole fra gli innumerevoli motivi di litigio con lei.
"Noto, dico noto, che ultimamente il tuo infartino settimanale sta raggiungendo lo status di forma di vita evoluta! Non dico che sappia parlare e ragionare, ma certo è che comincia a capire le situazioni! Ti arriva giusto giusto quando devi portarmi a ballare, o se ti chiedo di aiutarmi a spostare un mobile. Non ti ho mai visto rientrare in anticipo dallo stadio, o abbandonare una riunione in Ufficio per causa sua: si vede che conosce i tuoi gusti, e li rispetta!"
 
Era davvero passato, il dolore.
Se ne era andato così, senza lasciare traccia.
E pensare che proprio alla partenza del treno, proprio mentre caricava i bagagli nel caldo soffocante del pomeriggio estivo (E come no! State insieme da tre anni, tu e il tuo attacco cardiaco, figuriamoci se non ti viene in aiuto proprio ora che è il momento di farmi "gentilmente" notare che le mie valigie sono pesanti perché ho portato via troppa roba! Piuttosto che darti la soddisfazione di morire davanti al folto pubblico del Binario 3, me le carico io, le valigie!), alla terza valigia lo aveva colto una fitta violenta, come una morsa che si stringe dentro il petto, forte da rendergli difficile il respiro, lunga da farlo sudare freddo.
Ora, non sentiva più niente.
Aprendo gli occhi, gli sarebbe piaciuto girare il viso verso di lei, vedere nel suo sguardo la domanda più dolce e più attesa: "Come stai?", e risponderle, pieno di amore, "Bene, grazie, è tutto passato".
Ma non la vide.
Al suo posto, (Di fronte a te, no, poi allunghi le gambe e mi disturbi, alla tua destra no, c'è il finestrino; non vorrai che mi metta vicino alla porta dello scompartimento, vero? Vabbè, mettiti un po' dove ti pare!), al suo posto lei non c'era.
Faceva fatica a distinguere i contorni dello scompartimento perché, (chissà perché?) si era fatto, attorno, come un semibuio (già notte era impossibile che fosse, forse una galleria) al quale i suoi occhi si adattavano molto lentamente.
Più con il senso emotivo che con la vista, avvertì che lei non c'era.
Lei, se ne era andata.
Appena se ne rese conto, andò alla ricerca della sottile ansia consueta, del piccolo star male di quando lei lo piantava in asso per qualche futile motivo, del senso di colpa che gli lasciava da gestire quando riusciva a far girare le cose in modo che lui credesse che era stato un suo sbaglio a farla andare via, a farla allontanare anche per poco, anche solo per andare a pisciare.
Non trovò nulla.
Stava bene.
Lei non c'era, eppure stava bene.
Se ne era andata quasi certamente in seguito a una mancanza sua (grave come avere tirato la tenda del finestrino o lieve come non avere tirato la tenda, non importa) e ciò nonostante, lui si sentiva bene.
Era, forse, la prima volta che gli accadeva di sentirsi così.
Nel semibuio che regnava dentro lo scompartimento gli parve di intravedere delle ombre, come di figure umane, sedute.
Più che vederle (ché non riusciva a distinguere chiaramente le immagini, per quanti sforzi facesse, gli era quasi impossibile mettere a fuoco lo sguardo; tutto ciò che percepiva era sfumato e confuso, come accade in certi sogni, quando si è mangiato o bevuto troppo, la sera prima), più che vederle ne avvertiva la presenza.
Né sapeva dire con certezza quanti fossero, i suoi nuovi compagni di scompartimento (tre, forse quattro, sicuramente più di uno): l'unica certezza era costituita dal fatto che lei, lì, non c'era.
E che lui, forse anche per questo (temerlo o sperarlo? Sei sempre il solito, incapace di prendere una posizione che sia una, anche nelle piccole cose! Cambi sempre idea, anche sui dubbi. Una volta tanto, prendi una "indecisione", e che sia quella!!) comunque fosse, lui stava bene.
Nel senso che nulla più gli dava fastidio: l'assillo delle grane sul lavoro, il ricordo dei litigi con lei, la paura di avere un brutto male in qualche organo al minimo sintomo o, in mancanza di sintomi, di averne uno peggiore, subdolo, in forma asintomatica.
Non ne era certo, (figuriamoci!) perché non l'aveva mai sperimentato prima, ma se avesse dovuto descriverla a qualcuno, avrebbe definito quella sua nuova sensazione come: Pace. Non era troppo presto, né tardi, non faceva caldo, né umido, né freddo, l'aria non era troppo stagnante né c'era troppo vento, e questo meraviglioso coesistere di circostanze favorevoli gli parve fosse un fatto reale, immanente, proprio del momento e non dovuto solamente alla mancanza del giudizio negativo che, della situazione, avrebbe comunque dato lei, se ci fosse stata.
Anche, e soprattutto, gli piaceva, di quella situazione incantata, il silenzio (Ma a te non dà fastidio 'sto silenzio? Almeno dì qualcosa! E non parlare solo per l'imbarazzo di tacere! Se non hai niente da dire, meglio che tu te ne stia zitto, a volte!), già l'assenza della voce fredda e tagliente di lei contribuiva a rendere magica l'atmosfera, ma era qualcosa di più profondo, di più intenso ciò che lui, nel silenzio assoluto dello scompartimento, coglieva.
Come un'immobilità sospesa, come se tutto il treno non toccasse più i binari, né sobbalzasse sugli scambi, né subisse l'attrito dell'aria, né si inclinasse nelle curve più lunghe.
Silenzio.
E, nel silenzio, gli parve che i suoi pensieri fossero quasi udibili, che, pur senza che avesse detto una sola parola loro, gli ospiti nuovi dello scompartimento (alla partenza c'erano solo loro due, lo ricordava benissimo. A lui non sarebbe dispiaciuto cercarne uno più affollato, si sa com'è il bello del treno, quattro chiacchiere, una barzelletta, il tempo passa prima, ma lei no, meglio da soli così possiamo tenere accesa la luce anche di notte, e alzare il condizionamento come vogliamo noi, col caldo che fa, dài spegni la luce, uffa, fa anche troppo fresco qua dentro!) che loro, i compagni di viaggio, lo stessero quasi ascoltando.
Avvertiva questa attenzione, questa placida compartecipazione ai suoi sentimenti; era come se anche loro, indistinti nel buio, gli facessero sentire con la loro pacifica presenza, i loro singoli pensieri.
Da quanto tempo si era svegliato?
Anche questo, non avrebbe saputo dire.
Certo, un bel po' ormai, visti i pensieri che nel frattempo avevano fatto in tempo a frullargli per la testa; ma non di certo ore (non poteva essere già notte) e forse nemmeno troppi minuti: è logico, se no, visto che ancora dura il buio, quanto sarebbe lunga questa galleria?
E il treno, come fa il treno a muoversi così, senza rumore, si direbbe quasi senza incontrare attrito, senza un sobbalzo, un piegamento, uno scossone?
E lei, dov'è?
Non fuma, non gliene frega niente del paesaggio, non si ferma a parlare con gli estranei, non ha libri da leggere e in galleria non si può telefonare: possibile ci stia mettendo tanto tempo per pisciare? Non aveva detto una parola, ma evidentemente il turbine dei suoi pensieri aveva preso una foga tale da colmare la lacuna del silenzio fisico, e giungere alla coscienza dei suoi compagni di viaggio (due o tre? Chissà, forse di più, forse decine tutti lì, quasi invisibili, forse infiniti) perché avvertì, come in risposta, un flusso di pensiero provenire dalle figure mute e avvolgerlo pian piano, con dolcezza, fino ad andargli dentro lentamente, e giungere al suo stato di coscienza.
 
"Non c'è luce, ma non perché è di notte, ché non ci sono più la notte e il giorno, qui, per noi.
Non è una galleria che sta attraversando il treno; ed è per questo che non c'è rumore, né attrito, né l'ombra di un sobbalzo: perché, qui, non c'è più nemmeno il treno.
Non senti più i dolori del risveglio perché tu non ti sei svegliato.
Lei, non è andata via un minuto, o un'ora, per poi tornare, perché qui nessuno va, da nessuna parte. Non senti più quel tuo male di petto perché non ci sei più tu per avvertirlo.
E non stare a chiederti se è giusto per te andare, o non andare, a cercarla.
Qui, nessuno, in nessun luogo, và.
Qui, solo e per sempre, si sta.
Noi per primi e tu, casualmente, per ultimo, siamo destinati rimanere sempre, qui, quello che siamo. D'infarto, di giorni o di malinconia, tutti Morti."

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Premio Marguerite Yourcenar 2003

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Ins. 21-10-2003