Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Laura Ferrante
Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Marguerite Yourcenar 2003, sezione narrativa

LA BALLERINA
 
Era una coda interminabile, io ero tra le ultime. La coda si affacciava in un'enorme sala d'attesa, dove mi ritrovai ad aspettare con ansia, insieme ad almeno altre cento ragazze, che quella porticina, là in fondo alla sala, si aprisse. Oltre quella porta ci sarebbe stato il mio tanto agognato futuro. Era il provino per ottenere un posto come ballerina al corpo di ballo della scala. C'era una distesa di tutù rosa, di bianche e striminzite gambette che ondeggiavano nervose in rigoroso silenzio. Quante volte guardai quelle buffe scarpette di raso rosa, con quella ridicola bombatura delle punte. Le mie erano rovinate da anni e anni di studio. Anni e anni di pianti, di cadute, di storte alle caviglie. L'emozione era tale che sentivo il battito del mio cuore provenire direttamente dalla gola, avevo le mani sudate e non riuscivo a star ferma. Ripassavo mentalmente il pezzo che avevo preparato, due passi a sinistra, volteggio in aria, un salto carpiato, una lieve passeggiata sulle punte. Ogni volta che la porta si spalancava il mio cuore trasaliva, tornando quasi alla sua originaria posizione solo dopo che la porta veniva richiusa. Allora tutte ci guardavamo. I nostri occhi erano pieni di speranza, i nostri volti pallidi e tirati. Come i nostri corpi. Tanti piccoli fantasmini di pelle e nervi. Nessuna di noi parlava, in fondo eravamo tutte nemiche. Chiunque di noi avrebbe potuto sottrarre il posto alle altre. La tensione era tale che ogni volta che qualcuna usciva nessuna di noi osava chiederle come fosse andata. A volte non sarebbe stato comunque necessario, in quanto molte fanciulle uscivano correndo e le loro mani reggevano lacrime di sconfitta. Allora i nostri volti si contraevano in smorfie di dolore. Qualcuna alzava gli occhi al cielo, altre pregavano. Io pensavo a mia nonna, fu lei ad incoraggiarmi. Ricorderò sempre la sua voce che con dolcezza mi esortava a non arrendermi. "La vita di una ballerina è dura" mi disse una volta "ma l'applauso dopo il balletto è una ricompensa talmente grande che non ti resta addosso neanche il minimo segno della fatica". Mia nonna era stata una ballerina, era l'unica in famiglia che poteva veramente capirmi. Per quello ero sola al provino. Mia madre non era con me.
Attesi per ore, ormai il trucco mi si era praticamente sciolto. I capelli che avevo raccolto con tanta cura alla mattina ormai avevano preso un'altra forma. Finalmente la porticina si aprì per me. Quando sentii il mio nome scattai subito in piedi e mi diressi quasi correndo verso la persona che aveva pronunciato il mio nome. "Calma" mi disse la signora "risparmia le fatiche per dopo". Il suo tono era autorevole ma il sorriso che ne seguì era confortante. Entrai in un salone immenso, almeno così mi parve. Il legno del parquet era scuro e tirato a lucido, tre lati della sala erano completamente ricoperti di specchi. Vidi la mia immagine riflessa decine di volte e mi agitai. Una voce mi ricondusse alla realtà "Da questa parte signorina". Mi voltai. Dietro ad un lungo tavolo pieno di fogli e di bottiglie d'acqua, erano sedute delle signore piuttosto anziane. Avevano anche loro il volto di chi aveva provato, molti anni prima, la mia stessa tensione. Per ultimo c'era un uomo, teneva un sigaro spento tra i denti. Mi fissavano tutti quanti. Una di loro prese la parola. Mi fece una breve introduzione, ero così agitata che non capii nulla di quello che mi disse. Riconobbi solo le parole che mi chiedevano che pezzo avessi portato. Con la voce un po' rauca risposi. Mi fece cenno con le sue mani affusolate, quasi completamente rivestite di gioielli, di accomodarmi al centro della sala e di dare il via alla pianista non appena mi fossi sentita pronta a cominciare. Cominciai. All'inizio sentivo le mie gambe pesanti, come se la forza di gravità si fosse triplicata. Poi la musica mi rapì. Non ero più lì. Mi trovavo in volo e potevo toccare le nuvole, sentire la carezza del vento. Potevo planare e la leggerezza del volo mi permetteva di muovere tutto il mio corpo in armonia. Sorvolavo città, fiumi, montagne. Non volevo più tornare giù. Ma dovevo tornare. Così finii il mio pezzo atterrando nella realtà. Feci un inchino e attesi un loro cenno. Rimasero in un silenzio che mi mozzò il fiato. Poi una disse "Bene, bene signorina". Mi ricomposi e potei così scorgere i loro volti. Si guardavano l'un l'altro annuendo. "Le faremo sapere qualcosa entro due settimane". Tentai di chiedere qualcosa, ma mi interruppero. "Può accomodarsi, prego". Uscii dalla stanza con attaccate alla gola tutte le domande. Come sono andata, vi sono piaciuta, ho qualche speranza?
Tornai nella sala d'attesa. Un'altra ragazza venne inghiottita dalla porta da cui uscivo. Ritrovai le mie cose. Mi cambiai e uscii dal palazzo. Fuori pioveva. Guardai la scalinata che mi separava dalla strada. Mi sembrava interminabile. Ero spossata. Raggiunsi casa lentamente. Come se tutto ad un tratto fossi in una pellicola girata al rallentatore. I piedi ancorati all'asfalto, sembravano sprofondarvi ad ogni passo. Quando richiusi alle mie spalle la porta di casa, mia madre mi fissò ma non pronunciò parola. Lei disapprovava il mio desiderio di fare la ballerina. Voleva che io studiassi per diventare medico, come papà. Io chinai il capo e sussurrai: "Sì mammina, è andato bene. Sento che mi chiameranno". Mi misi sul letto. Appoggiata sui gomiti guardavo fuori dalla finestra. Pioveva ancora.
Trascorse una settimana. I miei genitori partirono per un viaggio fuori stagione. Oramai ero grande e potevo stare da sola. Avevo già sedici anni. Non accolsi il fatto che mi lasciassero per la prima volta da sola né con gioia né con risentimento. Mi era del tutto indifferente, com'era indifferente ciò che mi trasmettevano anche quando loro erano presenti. Passai la maggior parte del mio tempo tra esercizi in palestra, la scuola e il letto della mia cameretta. Fuori la pioggia non dava tregua agli automobilisti, il traffico era perenne.
Immersa nei miei pensieri, sognavo la telefonata, la conferma e il mio primo ballo alla scala. Sognavo gli ammiratori che mi lanciavano rose sul palco, che mi mandavano mazzi profumatissimi di fiori nel camerino.
Tra i miei pensieri si fece spazio un rumore consueto, era lo squillo del telefono. Solitamente era mamma a rispondere, per cui lasciai squillare attendendo la sua voce che mi chiamava "Antonietta, al telefono!". Mi resi conto però che quel giorno avrei dovuto rispondere io. Il cuore mi si ribaltò. Saltai giù dal letto e col fiatone risposi. Era la signora con le mani ingioiellate che chiedeva di me. Mi disse che avevo superato la prima selezione e che insieme ad altre tre finaliste ero invitata a presentarmi il giorno dopo. Chiaramente accettai. Scappai in palestra per ripassare il mio pezzo.
Questa volta non c'era alcuna coda. La signora con i gioielli ci accolse e ci spiegò come sarebbero andate le cose. "Questa è la selezione finale. Verrete scelte in due. La prima entrerà nel corpo di ballo come ballerina effettiva, la seconda dovrà rimanere a disposizione per un'eventuale sostituzione. Bene, incominciamo".
Fui chiamata per ultima. Appena entrai la signora con le mani ingioiellate fece un cenno alla giuria. Dopodiché iniziò il mio volo. Ogni volta che partivo ero rapita, la passione per la danza mi divorava. Non pensavo ad altro che alla danza. Quando ebbi finito, i signori della giuria si guardarono compiaciuti. Mi fecero un applauso scambiandosi sguardi con la signora ingioiellata, la quale prese la parola: "Bene, bene signorina. La chiameremo al più presto entro questa settimana per darle una risposta definitiva."
Uscii dal palazzo, questa volta la scalinata mi sembrava un enorme distesa di panna montata sulla quale io saltellai senza sporcarmi. Tornata a casa piansi di gioia e di dolore, poiché non potevo raccontare alla nonna che cosa meravigliosa stesse per succedermi, io sarei diventata una ballerina! Mi chiusi in casa. Non andai neanche a scuola nell'ansia di non rispondere alla chiamata.
Due giorni dopo il telefono squillò. Mi feci il segno della croce prima di rispondere. Ma quella che mi rispose non era la voce calda della signora ingioiellata. Era la mamma. Cercai di liquidarla in un attimo dicendole che stavo bene e che non avrebbe dovuto preoccuparsi. Temevo che se avessimo tenuto il telefono occupato a lungo avrei perso l'unica chiamata che aspettavo. La mamma mi disse che sarebbero tornati presto e mi chiese di fare delle commissioni. Io mi irritai, poiché mamma sapeva che quasi tutti i pomeriggi io andavo a lezione di danza. Glielo ricordai facendole presente che quindi non avrei avuto tempo sufficiente. Lei si adirò, mi disse che avevo cose ben più importanti da fare che andare in quella stupida scuola. Mi disse che dovevo smetterla di illudermi, che non sarei mai stata una ballerina. Concluse minacciandomi una pesante punizione se non le avessi fatto trovare quanto mi richiedeva.
Ero disperata. Non avrei voluto lasciare casa neanche per un secondo. Ma io conoscevo le punizioni di mamma. Così guardai l'orologio. Era l'ora di pranzo. Calcolai che se avessi fatto una corsa avrei potuto sbrigare alcune faccende quel giorno e il resto il giorno successivo. Contavo sul fatto che per l'ora di pranzo nessuno avesse intenzione di telefonare.
Mi infilai il cappotto. Presi qualche spicciolo e mi precipitai giù per le scale, girai tutti i negozi, ma stavo perdendo tempo, non trovavo quanto mi aveva richiesto mamma. Capii che per trovare quello che cercavo avrei dovuto perdere tutto il pomeriggio. L'ansia mi prese il petto. Guardai la strada, i marciapiedi brulicavano di gente indaffarata e le auto sfrecciavano veloci suonando ai passanti che si azzardavano ad attraversare la strada. Accartocciai nella mano destra il foglio con l'elenco delle commissioni. Strinsi le labbra e decisi che forse era meglio una punizione di mamma piuttosto che perdermi la telefonata. Attraversai velocemente la strada per raggiungere l'autobus che stava arrivando sull'altro lato.
Questa volta un clacson suonò per me. La pioggia mi batteva forte in faccia, non amavo l'ombrello. Ebbi solo il tempo di sentire una fragorosa frenata e mi ritrovai in volo. Caddi a terra come una marionetta gettata sul palco. L'uomo scese dalla macchina ed un nugolo di persone si formò davanti a me. Un uomo si fece largo nella piccola folla. Mi guardò. Mi mise una mano sul polso e una sulla gola. Guardò gli altri scuotendo la testa e mi chiuse gli occhi. Una donna urlò. In attesa dell'ambulanza mi poggiarono su una poltrona, al riparo della pioggia. Ero spettatrice di un film in cui si parlava di me. E lì mi vidi per l'ultima volta.
Esanime giacevo sulla poltrona di vimini. Intorno, rispettosi, i viandanti abbassavano la voce.
I miei capelli sciolti, nascondevano il pallore del mio volto ma le mie membra, immobili, raccontavano di un corpo che non c'era più.
Intanto un telefono squillava in una casa vuota. Ad ogni squillo vibrava la cornetta, vibravano i vetri delle finestre e i piatti della credenza. Il suono vagava per le stanze cercando qualcuno. La mano ingioiellata che aveva composto il numero attese nervosamente che qualcuno all'altro capo rispondesse.
Non ci fu incanto, non ci fu danza. Ci fu solo silenzio ed esso si accaparrò, come una prima donna, la parte da protagonista.

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Premio Marguerite Yourcenar 2003

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Ins. 21-10-2003