Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Giovanni Bottaro
Con questo racconto è risultato segnalato dalla Giuria del Premio Vittorio Tolasi - Orzinuovi, sezione narrativa
Mia madre
 

Ricorderai d'avermi atteso tanto,

e avrai negli occhi un rapido sospiro.

 

Giuseppe Ungaretti

 
Mia madre ha vissuto per quasi novanta anni. Vive tuttora, abituata al giorno e alla notte, distaccata, compressa nel suo essere fragile, indurita dalle ore trascorse al freddo o al caldo, che hanno segnato la sua stagione lunga.
 
Di marzo giungeva, puntuale nel tempo andato (ora tutto è cambiato e anche le stagioni sembrano alterate), il tepore che, in letargo, aveva trascorso l'inverno al riparo nelle grotte. Diventava adulto, nutrendosi di germogli, divenendo sempre più forte, accaldandosi per l'entusiasmo, e, quando ormai scarseggiavano le verdi risorse, chiamava in soccorso, rassegnato, il vento pungente, affinché lo tenesse fra le sue braccia e di nuovo lo accompagnasse nel suo giaciglio di sassi. Aveva un patto d'amicizia col sole il quale, ciclicamente, lo salutava allontanandosi, per poi riavvicinarsi, con una stretta di mano, a svegliarlo. Il tepore e il sole erano sempre d'accordo: imbiondivano il grano, davano sapore ai frutti, corroboravano gli uomini, dando loro la pazienza di esistere, in attesa del gelo dell'inverno. Il quale, serenamente, aspettava l'ora per il suo ritorno, per dare un riposo gioioso, dopo il lavoro, alla terra, dissetandola con le sue piogge, riscaldandola con una bianca coperta. E l'uomo indossava uno sdrucito cappotto.
 
Non so se mia madre patisca, e se rammenti le stagioni passate, con i suoi opachi occhi, nell'ambiente grigio del suo essere, tra le quattro sue pareti domestiche. Sul suo volto, le sole iridi verdi, ancora lucenti, hanno combattuto a lungo, sconfiggendo il tempo, che ha invece intessuto un nido di stecchi tra i suoi capelli, un po' spettinati, bianchi, come il ghiaccio. Il suo viso non è scarno, non è avvizzita la pelle, com'è di solito, quello dei vecchi. Le guance paffute e rosee non sono incise da solchi, come se il vomere affilato dei giorni non avesse avuto forze sufficienti, e tanta riverenza verso la terra, e gli attimi avessero accarezzato, scusandosi, la sua epidermide antica di donna. Anche la fronte, appena più pallida, trasparente, è uno spazio per rughe finissime, su cui si sono cristallizzati i suoi sogni, forse svaniti nel nulla. La serenità si specchia, di frequente, sui lineamenti di chi aspetta la fine senza rimpianti, quando è sera e non resta che un dormire forzato, senza tempo.
 
Mia madre teneva in un cassetto, chissà se lo ricorda, una fotografia, in una cornice di legno scuro, molto lucido, con qualche irregolare venatura nera. Una fotografia in bianco e nero, poi colorata con i pastelli, che un fotografo all'antica le aveva scattata, quando era giovane e sana e che mostra i suoi capelli ondulati e biondi, un viso dolce e grandi orecchini ad anello di oro giallo. Mia madre mostrava alle sue amiche questa immagine vetusta, rimpiangendo gli innumerevoli giri impressi alla ruota del molino dal ruscello e la troppa acqua del Reno, verde di foglie, trascorsa tra i monti nella valle, in cui aveva passato la sua giovinezza e incontrato per caso mio padre, quasi di passaggio.
 
Le mani di mia madre somigliano alla carta velina, su cui si sia soffermata, bizzarra, giocando, una penna con l'inchiostro bluastro; una biro che talora dimentica macchie di vario grado e misura, tra l'azzurro profondo e il rossastro, come fosse un pennarello che avesse cambiato scherzosamente l'interno. Quella carta velina assorbe lenta i grumetti sanguigni: occorrono giorni; poi la penna perde l'inchiostro da un'altra parte. Le dita non sono deformi. Le falangi spiccano dritte, attaccate al palmo, con cui hanno fatto amicizia da tempo. Le braccia hanno perso vigore e i muscoli non si lasciano più comandare come mia madre vorrebbe, chiedendo un po' di riposo, dopo una fatica enorme.
Le gambe sono pressoché ferme. Riposano statiche su una sorta di sedia a dondolo, con due ruote, come una bicicletta. Ci sono, eventualmente, anche i freni, ma non possono trattenere la corsa, il continuo altalenare del pendolo, talora impazzito ed asincrono.
 
L'anno scorso, quando gli alberi delle Piagge non erano ancora stati umiliati dalle roncole, mia madre deambulava a fatica. Le stavo accanto, sulla ciclabile ombrosa, indicandole sul selciato il punto più liscio da calcare, evitando le buche. Ero, con mia madre, in una penombra senza uscita: poca luce filtrava tra le fronde. Mia madre allontanava col bastone, col suo passo insicuro, indebolito e curvo, un rametto secco, abbattuto da un improvviso refolo. Qualche vecchio accennava alla caducità della vita, se piombava sull'asfalto, avvitandosi su se stessa, una foglia secca da un platano alto.
 
Ora per mia madre, la carrozzella è uno strumento di tortura, ma necessario. Ho aggiunto sul sedile un guanciale morbido, posizionando successivamente nel migliore dei modi lo schienale, alzando, o abbassando, le leve con cui si possono regolare le inclinazioni di certi tubi di ferro, su cui poggiano le sue gambe vogliose di riposare. Anche il suo corpo non trova pace. Mia madre si abbottona e riabbottona il vestito, spostandone e riadattandone i bottoni (qualche asola rimane vuota), a seconda della sua posizione, purtroppo quasi statica. Guarda fuori dalla finestra un autobus che passa e si allerta - appena - allo strombazzare di una motoretta. Non ci sono pericoli a quasi novanta anni e si accetta, con gratitudine, ogni ulteriore battito di un cuore smarrito.
 
L'anno scorso trovavo mia madre sempre pronta, pettinata, nel pomeriggio, verso le quattro. Mi aspettava, per la breve passeggiata delle Piagge o per un'occhiata al mare di Tirrenia. Immaginava di tuffarsi in quelle onde calme, che scandiscono i tratti della vita, con la bonaccia dopo la tempesta. Qualche tronco marcio, sbattuto sulla spiaggia, attirava la sua attenzione, prima dell'invasione ciarliera dei bagnanti, di giugno. Mia madre aveva un gesto di comprensione, appena spazientito, se ero in ritardo di qualche minuto. Poi era sempre lieta di lasciare per un paio d'ore il supplizio della poltrona, con le ruote eguali a quelle di una bicicletta.
 
Alle quattro, trovo mia madre sempre a letto. Si corica subito dopo aver "buttato giù", contro voglia, un po' di pasta asciutta e qualche farmaco a mezzogiorno. Poi attende la notte, placidamente. Una notte che si prospetta infinita. Cerco di farla uscire di pomeriggio, ma il suo respiro, frequentissimo e poco profondo, non sembra darle sufficienti forze. Declina gentilmente l'invito, osservandomi, e un brivido corre sulle sue iridi verdi, quando scorge le casseruole nel cucinotto, la madia o il frigorifero, le sue cose, abbandonate da tempo. Io le dico che ho un'automobile nuova, comoda. Vorrei la vedesse e la provasse, che sarebbe una gioia per me "andare a fare un giro".
Sbircia allora malinconicamente i fornelli.
 
Mia madre, al mattino, si alzava presto. Sentivo il suo morbido passo nel corridoio. Chiudeva delicatamente la porta della mia camera, per non disturbarmi. Percepivo, nell'ultimo sonno, forse il più leggero e dolce, quel fruscio lievissimo sul pavimento, quel sommesso turbamento dell'aria addolcita della notte. La cucina era piena di odori. L'odore del soffritto, ed un profumo di geranio dalle finestre aperte, intridevano la casa e persistevano, frammisti a quello del battuto di aglio e rosmarino, per rendere più appetitoso l'arrosto. Era svanito il sapore bruciato del pane biscottato nel forno, tuffato, per colazione, nel caffelatte. Mia madre badava al risparmio. Già il coniglio, allevato nelle gabbie ai bordi dell'orto, con la semola, le bucce di patata e delle mele e gli scarti della cucina, arrostiva, sfrigolando, in un allungato tegame di alluminio, annerito dall'uso. Si cuoceva sul fornello, sventolando la brace del carbone di legna, prima dell'incontro per il pranzo, a mezzogiorno. Ritrovarsi, dopo il lavoro del mattino, diveniva un momento per pensare, per farsi coraggio, per scambiarsi una confidenza ed anche un urlaccio: in mano un bicchiere di vino schietto e un po' d'acqua presa dal rubinetto.
 
Mia madre sembra, come stremata, acquietarsi pian piano. Rammenta, tra sé, bisbigliando, il passato, la casa lungamente abitata a Molino, l'astio per la cognata, che aveva soggiogato il fratello, un sentiero, i gradini di sasso sulla mulattiera. Non piange, disincantata. E ritorna, appena abbuiata, alla sua trascorsa vita, alla pergola, all'uva "rubata" dalla nuova venuta. <Quella era la mia casa!> dice sconsolata <non questa, dove ora vivo. Sarebbe meglio morire, anche se da qui nessuno mi manda via!>.
E di nuovo allude alla cognata.
Le scorre davanti il suo passato. Una storia tanto ingarbugliata che, per un tratto, anch'io ho vissuto. Finisce, ahimè, il nostro cammino tra i platani, tra i rametti secchi, tra le foglie cadute. Le ombre si vanno infittendo, in fondo al nostro viale, indifferente e calmo.
Cerco di calmare mia madre con i miei palpiti stanchi. Mi dice: <Ecco il mio uomo!> mi guardo come impietrito e, tristemente attendo.
Ho anch'io quasi sessant'anni.
Sento che mia madre si abbandona ogni giorno di più alla terra, ad un mare piatto, senza onde. Né autobus, né luce la aletteranno: siamo cose che si sfanno, oltre la patina di questo affascinante nulla. Io chino il capo. Così volge quella che chiamano vita.
 
Non mi resta, al di là di queste ombre, il suo, per ora tangibile, palmo.
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Premio Vittorio Tolasi Orzinuovi 2002
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Agg. 14-04-2003