Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Francesco Brocchi
Con questo racconto ha vinto il primo premio all'edizione 2006 del Premio Città di Melegnano.



MANO D'ARTISTA



Padre, non so quando quel pennello iniziò a esser per me un'arma più tagliente dello stilo, un morbo più logorante della tisi. Non credo sia l'oggetto in sé che cattura la mia attenzione, forse lo sono più i movimenti del polso, la contrazione precisa della mano che lo impugna: mi sembra quasi di vedere, di sentir pulsare il sangue nelle sue vene d'artista, moti impercettibili che a me paiono unici rispetto a quelli delle altre creature. Vi è qualcosa, non mi stancherò mai di osservare, in quell'arcuarsi dei mille crini intinti di terre che tormenta il mio animo già provato da mille ambasce, che tiene il tempo del battito del mio cuore con il ritmo del suo moto sulla tela. Com'egli dipinge, credo nessuno sia in grado di fare in questa nostra epoca: non in Italia, forse nelle Fiandre v'è chi gli si potrebbe paragonare, ma resterebbe pur sempre uno straniero, privo del bagaglio d'un tormentato secolo e mezzo di bellezza ritrovata.
Quando presi i voti immaginavo che sarei diventato un giorno committente. L'arte ha dato un volto nuovo alla Roma che sta crescendo; stiamo ritornando, ora, ancor più in alto rispetto ai tempi del Sanzio che s'eran conclusi con la doppia violenza luterana. Maestri scalpellini, stuccatori, decoratori, allievi di scuole che affondano le radici negli anni della grande rinascita artistica si avvicendano per conferire nuova dignità a quei particolari austeri che sopravvivono dai tempi passati e per rivestire di marmo i vecchi edifici, per osare oltre i limiti massimi possibili di sopportazione dei gravi distruggendo i vecchi tetti di cotto e innalzando meravigliose cupole rampanti, punti di riferimento visibili, quali isole per i naviganti, da tutti i sette colli. E laddove il Signore ci pose salutari ostacoli in termini di spazi, l'umano intelletto, col beneplacito di Dio, ha creato a sua volta ingegnosi artifici per trarre l'ampiezza dall'angustia, da spazi geometrici e spigolosi linee e nervature.
L'uomo ricrea così, con la propria tecnica, un mostro naturale fatto di fittizi giochi metamorfici, e con la ragione ripropone nuovi modelli di natura, egli che, più vicino a Dio rispetto alla materia, meglio è in grado di ricostruire e riplasmare le cose della terra. Ma è bene che ritorni al nostro pittore. Ho come l'impressione che uno degli apostoli del dipinto somigli in tutto e per tutto al mio padre spirituale, pace a lui, che l'artista non ha mai conosciuto. Son consapevole che non ne uscirà quell'immagine a opera compiuta, che il pittore gli porrà sopra altre mani di pennello fintanto che la fisionomia dell'apostolo assumerà i tratti di un altro confratello: ma non è questo l'unico recesso della mia vita che mi pare venga svelato da quella mano. Il giovane che piange a ridosso della Vergine, ad esempio, non somiglia a nessuno della nostra curia, eppure la torsione del suo capo, la posizione della mano, i tendini e le vene gonfi per il rapido scorrere del sangue paiono esprimere molto di più di quanto il piccolo - ma centrale - spazio destinatogli sulla tela faccia supporre: io vedo anche gli spasmi del ventre generati dal cordoglio, per quanto egli si trovi chino, e sotto la frangia mossa e abbandonata a coprire il dorso della mano immagino due occhi che già vidi stretti in una morsa di dolore. Mi sembra di starmi osservando dall'esterno, adesso, allo stesso modo in cui l'apostolo nel quadro che ha invece le mie fattezze, con l'unico occhio visibile torvo e arcigno, guarda le spoglie della Vergine come se qualcosa fosse in parte sfuggito al suo controllo e il resto fosse soltanto inevitabile capriccio del destino, cui egli è causa nolente, o effetto. Prima di narrarvi quanto accaduto, voglio che non pregiudichiate me come abate, bensì soltanto come creatura di Dio, giacché sempre ritenni che la giustizia alberghi nell'animo dell'uomo e non nell'abito che indossa.
Quando la mia salute peggiorò ottenni di tenere una badante. Il suo nome, lo sapete, era Fiammetta: ma tanto auspico pace all'anima sua quanto alla mia, poiché con la sua morte persi il senno e il lume della ragione e presi a temere il buio, come se dall'oscurità e attraverso i bagliori che ci appaiono negli occhi dovessero mai estendersi, condotte da mani d'artista, sfumature di luce e chiaroscuri che ne ricordino il sudario. In mia presenza non rise mai, non so se per freddezza nei miei confronti o per connaturato formalismo e rigorosa educazione. Mantenne sempre il capo chino e la condotta riservata per diversi giorni, al che io pensai che avremmo sempre mantenuto le distanze: e badate bene, padre, che di mia iniziativa non avrei mai avanzato pretese o interessi nei confronti di una donna a servizio. Se non che, proprio nel momento in cui meno me lo sarei aspettato, familiarizzammo. Un giorno mi versò il caffè per sbaglio sulla tonaca: e mentre in altre circostanze avrei mosso rimproveri nei confronti della sua negligenza, in quel caso, per un balzo dell'istinto la cui natura ancor mi sfugge, reagii con un motto di spirito quanto mai giocoso, al che ella rispose al mio comportamento alzando il capo e guardandomi negli occhi. Da quel momento i nostri incontri assunsero sempre più un carattere cordiale. Io ero ben lieto di vederla e lei non nascondeva l'interesse, e la tacita intesa crebbe sinché, voi non sapete quanto mi dolga doverlo ricordare giacché lei ora è morta, una sera entrò nelle mie stanze e chiuse la porta dietro di sé. Nessuno, dico nessuno prima di voi, padre, credo sia a conoscenza di questa faccenda. Trascorsero le settimane, e già da avventura s'era trasformata in trastullo, e il trastullo in abitudine: tuttavia, se l'avventura è meritevole d'esser ricordata in sé e può esser consegnata al passato, e il trastullo a sua volta non è che un'opera priva del valore e corrotta dal vizio, e quindi controllabile da un animo retto e votato alla temperanza come il nostro, ecco che l'abitudine invece è quanto mai difficile da sradicare, e può causare un trauma insanabile a ogni cambiamento. Miimmaginavo in sua compagnia anche in momenti nei quali non mi sarebbe stato concesso, ridendo dell'irrealizzabilità dei miei propositi, alcune volte mi svegliai dopo averla appena sognata, altre volte mi sembrava, specie durante la Messa, di vedere lei al posto di altre donne. Lessi l'Ariosto e i classici latini, per scoprire se mai ciò che m'accadeva fosse amore, e lo feci di nascosto, non tanto per nasconder le letture in sé, bensì perché temevo che altri scoprissero il mio stato d'animo prima ancora ch'io riuscissi a riconoscerlo a me stesso. In quel periodo commissionai l'opera all'artista. Curie e logge darebbero qualsiasi cosa per averlo al soldo e ora egli lavora tra le nostre mura, tuttavia egli mi turba, mi logora, e vi dirò perché. Mi sento quasi come un edificio fatiscente, dal quale si scrostano lacerti d'intonaco man mano che il suo pennello stende un nuovo tratto di terre sulla tela. L'artista concordò i rispettivi ruoli con gli aiutanti e dispose i loro compiti in giornate e ore, dopodiché iniziò a stendere dei bozzetti, prima su fogli, poi già su tela. Chiamò anche me a posare, e il ruolo mio già ve l'ho detto, quello dell'apostolo con lo sguardo torvo. Passò poi alla Maddalena, e lì scelse una delle servette che si dice gli bazzichino un po' troppo attorno, poi convocò miei confratelli e li fece posare per gli altri apostoli piangenti. In cima al quadro iniziò le travi del soffitto, come quelle della stanza rustica in cui eseguiva l'opera, da lui stesso scelta in quanto considerata più adatta a stimolar l'ispirazione. Ma un'altra fu la sua musa ispiratrice. Era un periodo in cui mi pareva che l'ardore di Fiammetta si fosse un po' chetato, forse per inadeguatezza mia, considerata l'età, forse molto più simpliciter perché l'animo delle donne è facile e mutevole, e quello di Fiammetta temo lo fosse quanto mai. In quei giorni il pennello stava delineando le prime delicate linee del volto della Vergine. Cum omni diligentia et cura, così gli s'era chiesto di rappresentarla, e così egli stava eseguendo: ma un giorno mi parve che la Vergine morta stesse assumendo le delicate fattezze di Fiammetta. Pochi tratti del suo collo snello, del mento e delle sopracciglia, il chiaroscuro del naso formavano un insieme di linee appena accennate e di forme nasciture che riconobbi subito, e mi fecero tornare in mente a un tratto il distacco di Fiammetta, il suo assentarsi in alcune ore della mattina e del vespro, e i suoi sorrisi, mal celati, concessi ad amanti invisibili non appena ella distaccava lo sguardo dal mio. Ma tanto più crescevano i sospetti, tanto più, non avendo prove per poterli suffragare, cresceva in me un senso di impotenza. Per sentirmi almeno in parte sollevato - ma questo non faceva che peggiorar la situazione - mi recavo a origliare dinanzi all'uscio nell'ora in cui sapevo che l'artista era solito isolarsi.
L'animo umano tende a percepire in maniera differente anche in forza dell'aspettativa: al che se qualcuno si fosse avvicinato all'uscio della stanza nulla presentendo, nulla avrebbe udito, e se avesse pensato all'azione dell'artista di dipingere, forse il suo convincimento l'avrebbe illuso di sentire perfino il minuto rumore dei crini che accarezzano la tela. Io invece udii suoni e voci che a me parvero in tutto e per tutto essere ciò che lamentavo venirmi sottratto di giorno in giorno in modo inesorabile: giunsero vaghi alle mie orecchie gemiti familiari, o che a me sembrarono esser familiari, o che a me sembrarono esser gemiti. Quando non sentivo niente, invece, mi promettevo, per il mio stesso bene, che se non avessi udito nulla neanche l'indomani avrei riconosciuto l'infondatezza dei miei sospetti. Un giorno l'artista uscì dalla stanza e mi colse quasi a origliare. Non volli motivargli la mia presenza là, ma ne approfittai per sbirciare dentro la stanza. Fiammetta non c'era, come avrei dovuto immaginare, eppure era al contempo lì presente nel primo abbozzo della Vergine che sempre di più le somigliava, al punto che credetti che l'artista avesse contemplato la mia perpetua dormiente: lo invidiai per averla colta in un momento d'intimità che a me per età e per posizione non era concesso condividere. Presi a visitare la stanza rustica diverse volte al giorno, per cercare tra quei segni sulla tela nuove sfumature dell'animo di Fiammetta, espressioni del suo volto e dello sguardo da lei mai assunte in mia presenza. Più mi comportavo così, più sentivo di desiderarla, ma in un modo più tacito e morboso, e mentre mi trovavo con lei vivevo invece il congiungimento in modo più distante, essendo ormai abituato a ricevere le sue visite soprattutto nella mia fantasia, come una segreta frequentazione illusoria, quando la cercavo dormiente nel quadro in corso di creazione. Un giorno ebbi se non la certezza quantomeno un indizio a riprova dei miei sospetti nei confronti dell'artista. Stavo percorrendo le scale verso la stanza rustica per la mia solita visita quando udii per la prima volta, cristallino, il riso di Fiammetta. Un istante dopo la incrociai, rideva di cuore scendendo le scale di corsa, distratta e vaga, finché si accorse della mia presenza e mutò espressione: non posso dire che ella smise di ridere, perché di fatto i lineamenti si mantennero nella medesima posizione, ma smorzò tutto l'entusiasmo. Da canto mio, la sentii quasi estranea, abituato com'ero ormai a incontrarla, fuor che in freddi amplessi o durante il suo lavoro, soltanto negli scuri aloni del quadro. Pensai che ella avesse appena concesso un radioso sorriso primaverile al mio pittore. I denti mi si strinsero fino a stridere, i polsi e le mani si serrarono in un impeto di rabbia: ma al contempo le gambe, che in modo più aderente al vero interpretano il nostro stato d'animo, divennero all'improvviso stanche, dopodiché tremarono, creando un forte paradosso con la tensione degli arti superiori. I denti allora si disserrarono, il mento incominciò a tremare e spinse giù, lungo le rughe, gli zigomi e le estremità laterali delle sopracciglia, al che sentii un grosso peso sotto il labbro e ai lati delle tempie, le occhiaie gonfie, e compresi d'esser triste. Padre, voi non potete immaginare quanta umiliazione provai quel dì, quando incontrai l'artista e i suoi apprendisti nella stanza e provai un incontrollabile senso d'impotenza al confronto con la loro giovane baldanza. Riconoscevo al contempo che esisteva una competizione, alla quale non sapevano né immaginavano ch'io partecipassi, e che essa per me era già perduta. Da quel momento divenni schivo e scostante, lasciai che altri miei confratelli si assumessero la responsabilità di azioni e scelte che sarebbero spettate invece a me; accumulavo frustrazioni, con scio che presto le avrei sfogate nel modo più spiccio e doloroso, come una palla di granatiere che più polvere accumula in sé più è potente a deflagrare. Finché deflagrai. Era la sera dello scorso venerdì. Il marzo romano stava donando alla campagna nuove sensazioni e il Tevere le trasportava sulle sue acque cristalline fino a noi: ma a me la primavera e il fiume divino vollero soltanto generare inquietudine e votarmi al cambiamento. Mi trovavo a una festa nella villa dei Farnese sul Lungotevere, nella stanza con gli affreschi degli antichi eroi. Attila, belva pagana, mi ispirò un desiderio d'azione del tutto innaturale in me, che son uomo di pensiero. Mi agitai, certo che vi fosse un qualcosa in sospeso che andava risolto quanto prima, ripercorsi la scala del da Udine, mi fermai un attimo, voltandomi verso la Galatea, e compresi che era lei, Fiammetta, a ripresentarsi in ogni circostanza nella mia mente, come un velo posato fin nei più remoti recessi della mia immaginazione. Uscii abbandonando festidianti e servitori e corsi verso gli argini del Tevere. Vidi una donna stagliata contro la luce della luna che mi parve come al solito essere Fiammetta: per una volta, invece, era lei davvero la donna di cui distinguevo soltanto la sagoma in lontananza, e non un miraggio creato dalla speranza e dalla passione. Le corsi incontro, deciso a parlarle, infine, del suo rapporto con me e col Caravaggio. Indossava un abito d'amaranto scuro, mi riconobbe e cercò di evitarmi. Non mi voleva parlare per non destar scandalo, era uscita dal convento a prendere una boccata d'aria, così mi disse, ed era intenzionata a ritornarvi presto. Non seppi controllarmi e la incalzai con domande troppo invadenti, ed ella negò, negò fino alla fine ogni coinvolgimento con l'artista, mi disse d'averlo conosciuto il giorno in cui la colsi a ridere: negò finché le mie mani, avvolte nella tonaca, la strinsero al collo per non farla respirare. Padre, non riuscirò mai a spiegarmi che cosa mi colse. Gelosia, rabbia, amore, non sono in grado di dirlo, ma posso confessarvi che, non appena mi accorsi dell'errore che stavo compiendo, preferii continuare l'abominio fino all'attimo finale piuttosto che lasciare in vita la testimone e l'oggetto di un atto così atroce, ledere la donna che si ama. Ella, da viva, avrebbe tormentato per sempre la mia coscienza, ella, padrona delle mie emozioni, madre dei miei turbamenti. Se avessi continuato ancora, invece, come purtroppo feci, m'illusi che sarebbe morta liberandomi da tutti i miei tormenti.
Non ebbi il coraggio di vederla morire, la scaraventai giù per l'argine finché scomparve nelle acque. La trovarono i fratelli di san Bartolomeo, all'alba di sabato, e la notizia mi raggiunse nelle mie stanze, bussando con un ritmo simile ma non eguale a quello con cui Fiammetta facevasi annunciare. Una grande folla s'era radunata all'Isola, pareva che tutta la zona si fosse fermata a osservare il tragico aspetto della morte. La guardai, ancora avvolta nella sua veste rossa, il viso plumbeo e gonfio, e il cuore mi fece un sussulto. Sopra il suo corpo distrutto dalla mia follia piangeva un giovane vestito di stracci. Mi resi conto che quello era l'uomo di Fiammetta, che si erano amati e che a lui doveva esser giunto parte del denaro che le davo, sicché questo dolore per lui significa anche l'indigenza. Si paventa un processo nei suoi confronti: sono roso dal rimorso, perché un uomo davvero innamorato e innocente ora rischia la morte, sospettato d'aver ucciso l'oggetto del suo amore. A veder lui, credo di non averla mai amata: ora penso che l'amore, così come il senso di giustizia, alberghi soltanto negli animi virtuosi e rifugga dal peccato. Se prima immaginavo che avrei superato con forza l'accaduto, ciò che sta accadendo ora sembra invece incidere il mio animo con un pennello più tagliente dell'acciaio. L'ossessione questa notte mi spinse nella stanza del quadro. Volevo riveder Fiammetta, sperare che il suo sereno volto di dormiente, osservato non dagli occhi di un assassino bensì d'un uomo votato all'arte, m'alleviasse la pena. Ma quell'uomo, il Caravaggio, il più grande artista della nostra epoca, colui che più d'ogni altro è in grado di osservare i segni impercettibili delle emozioni e dei sentimenti umani e sa farli scaturire dalla tenebra delle sue tele, l'artista, sensibile per eccellenza, colse ogni aspetto di questo dedalo e se ne fece gioco per consegnare al mondo il suo capolavoro. E io, servo meschino del vizio, eccomi ispirazione nolente della sua grandezza. Fiammetta è ancora lì, ma non più dormiente, bensì morta. Il suo volto è ora scuro e deformato, maschera di morte, il ventre gonfio e rigido, le caviglie nude, paralizzate dall'ultimo istante di dolore. Il ragazzo è piegato dalla tristezza davanti a quei lembi della veste amaranto, che paion deformare la figura che sopra tutte dovrebbe esser la più bella. La Vergine, pittore beffardo! Io la guardo, l'occhio torvo, osservo le sue mani imbruttite dalla morte e nascondo le mie due volte peccatrici; il mio padre spirituale trasecola, vedendo in lei la mia mostruosità, domandandosi il perché dell'abominio. In ogni istante, anche adesso, padre, vedo quel pennello sfiorare la tela, preciso e minuzioso, e costruire gesto dopo gesto l'epitaffio della mia anima perduta.

Francesco Brocchi


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Città di Melegnano 2006

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 Ins. 29-02-2008