Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Davide Ficagna
Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Marguerite Yourcenar 2003, sezione narrativa

IL FERITO
 
Venne colpito ai primi di febbraio.
Non era mai accaduto, prima di allora, che ci lasciassimo un ferito alle spalle.
Niente, prima di quel giorno, ci aveva impedito di fermare la nostra ritirata e correre in soccorso di un nostro compagno.
Tra le nevi spumose e la nebbia fitta di cristalli ghiacciati e taglienti, subimmo la sconfitta più lacerante, quella che brucia dentro come sale sulle carni vive e che si alimenta di vittime innocenti, di quell'angosciante senso d'impotenza che segue all'abbandono.
 
Stavamo arroccati e nascosti sulla pendice del monte da quasi due anni. Ventuno lunghi e freddi mesi passati in quota, sempre nello stesso punto a difendere il passo nella medesima, favorevole posizione. Conoscevamo a memoria la disposizione dei sassi e il repentino cambiar di direzione del vento, ci riusciva di prevedere temporali a distanza di molte ore con precisione da oracolo e ci riposavamo al sole cocente del primo pomeriggio.
Una sottile abitudine si era impadronita di noi: vivevamo nell'illusione di una pacata normalità, di un'effimera sensazione di casa e di tepore umano.
Non più letti soffici ma sacchi a pelo verdi e consumati, niente scarpe di vernice per il giorno della festa ma solo scarponi ammorbiditi a forza di cammino, coi lacci sfibrati e i rivetti saltati.
Per noi non c'erano piatti di ceramica resi eleganti da miniature di nature morte ma gavette sbiadite e posate storte.
Tutto questo non ci pesava.
Ci bastava la tranquillità di stare fuori dalle grandi manovre, di fare il nostro dovere nei posti che fin da piccoli avevamo imparato a conoscere ed amare. In fin dei conti difendevamo sul serio la "nostra terra" da quelli che ci avevano additato come nemici e non avremmo osato chiedere di più.
E lui era con noi.
Era stato al nostro fianco fin dal momento in cui piantammo la prima tenda dell'accampamento e durante qualsiasi scaramuccia col nemico.
Fiero, orgoglioso ed impassibile.
Era con noi nelle serate annegate dal "vin brulè" scaldato nella marmitta più grossa e seguiva placido i nostri canti sguaiati, ora malinconici ed innamorati, ora goliardici ed insensati.
Saggio, paziente e rubicondo nel riflesso dei falò.
Ci teneva compagnia mentre, accanto al fuoco, ci si ritrovava immancabilmente a parlare del nostro passato, di giorni che sembravano lontani quanto la luna ma che, in realtà, stavano appena dietro l'angolo del tempo. E raccontavamo delle nostre piccole vite, tra un cordiale e una battuta davamo vita a sfumature di cose banali che solo eventi eccezionali come la guerra sanno mettere in risalto.
Le storie di casa si trasformavano in dolci favole e le fanfaronate in una simpatica alternativa alla verità.
I nostri destini stavano quasi totalmente nelle mani di altri ma, quei momenti, quel senso di convivenza quotidiana, erano di nostra irrinunciabile proprietà.
Nei piani dei generali eravamo un manipolo di pedine sacrificabili piazzate a difendere un passo montano di sottovalutabile rilevanza strategica, sul campo eravamo un gruppo di amici insostituibili impegnati a difendere un angolo di paradiso nascosto tra i fianchi di una montagna.
Sempre con lui al nostro fianco.
Molti di noi gli si rivolgevano nei momenti di sconforto, per trovare una motivazione che non fosse un ideale altrui, una teoria vacillante.
I conflitti passano, il loro ricordo diventa mangime per i libri di storia e becchime per i saccenti che alzano la voce nei comizi di piazza per ingraziarsi la folla.
La guerra, ogni guerra, è un atto d'odio verso l'umanità.
Come si può calcolare a tavolino l'innocenza delle persone? Come prevedere chi pagherà lo scotto delle battaglie?
Mentre sentivamo passare i bombardieri degli "alleati", continuavamo a mantenere le nostre postazioni.
Forse senza saperne nemmeno il perché, forse per saldare un debito ancestrale con la magia di quei posti solo sfiorati dall'ingordigia della civiltà.
Eravamo guardie e lo restammo per ventuno mesi. Quanti di noi, dopo, avrebbero saputo fare altro?
Germano sparava sempre ad occhi chiusi per non vedere se colpiva qualcuno.
Diceva che, così, si sentiva in pace con Dio.
Pietro usava nascondersi dietro un grosso masso e continuava a tremare per ogni colpo che udiva.
Nessuno trovò mai il coraggio di rimproverarlo.
Italo si infilava nel sacco a pelo solo dopo diversi bicchieri di grappa e vino.
Per scacciare gli incubi e nient'altro, sottolineava.
Sentinelle dell'esercito o semplicemente uomini strappati al sogno ingenuo di un futuro qualunque e buttati tra le nevi perenni con un fucile a tracolla?
Ci svegliavamo affamati di certezze, di cose che non passano.
Lui, invece, non aveva mai mostrato debolezze o segni di cedimento.
Era diventato, col passare dei mesi, il nostro simbolo, la nostra campanilistica bandiera.
Da lui imparammo a trarre conforto e calore dalla bellezza che ci circondava, ad ascoltare il sommesso canto delle fronde e degli esili ruscelli d'alta quota, ad interpretare i cinguettii ed i silenzi irreali.
Ma arrivò quel giorno di febbraio a spezzare il delicato equilibrio di una realtà sfocata. In fondo, sapevamo che la nostra vellutata tranquillità non sarebbe potuta durare ancora a lungo e così, infatti, fu.
Presero la nostra postazione, veloci come un lampo e improvvisi come il boato di un tuono.
Accompagnati da ordini lanciati gridando e da rimbombare di esplosioni.
Le pallottole cieche di Germano, la tempra alcolica di Italo e il coraggio di tutti gli altri non servirono che a rimandare di pochi attimi la nostra fuga e a far sì che l'unico colpito fosse proprio lui.
Restammo impietriti nel vedere il colpo di mortaio schiantarsi a pochi metri dalla sua imponente figura.
Lo sconforto ci paralizzò le gambe per alcuni eterni secondi mentre le schegge di corteccia scura piroettavano in ogni direzione, come vive ma impazzite.
Gli aghi smeraldo formarono una piccola e fitta nuvola che tramutò quasi immediatamente in pioggia andandosi a conficcare nel tappeto bianco ai suoi piedi.
Il vecchio e gigantesco abete rosso manteneva stoicamente il suo posto, col tronco lacero su un fianco che mostrava il chiaro del legno vivo e troppi rami spogliati dal calore e dallo spostamento d'aria.
Restò in piedi, a fronteggiare il nemico inconsapevole ed irrispettoso della sua presenza.
E noi fuggivamo, costretti a lasciare indietro quell'albero maestoso che ci aveva fatto da tetto per la pioggia e da scudo per il sole.
Ai nostri occhi, era come se lo avessero fatto prigioniero senza che noi potessimo difenderlo.
 
Siamo tornati a riprenderlo.
A distanza di anni, coi nostri maglioni di lana buona e con scarponcini finalmente adatti ai nostri piedi martoriati.
Portarlo con noi è impossibile ma, il solo fatto di essere tornati a rivederlo, equivale alla nostra più alta onorificenza e a dimostrare che, in fondo, non l'abbiamo abbandonato.
Non siamo più le sentinelle di nessuno e lui non è più prigioniero di nessun nemico, ma glielo dovevamo.
Il suo tronco contorto e ricresciuto ci ricorda il passato e ravviva gli spigoli ormai ammorbiditi di ricordi a colori soffusi.
Non ci eravamo mai lasciati un ferito alle spalle prima di quel gelido febbraio e abbiamo voluto perpetuare il nostro giuramento anche nei suoi confronti.
Perché lo consideriamo un sopravvissuto, uno di noi.
E perché ci svegliamo ancora affamati di cose che non passano.

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Premio Marguerite Yourcenar 2003

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Ins. 21-10-2003