Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Caterina Ferraresi

e

Marco Mazzoli

Con questo racconto si sono classificati decimi al concorso Parole in Movimento Fonopoli
 
 
Bahia
 
L'idea era questa: prendere una vacanza e andare una settimana, loro due soli, a Bahia. Naturalmente lei non sapeva niente di Bahia, ma Bahia era il Brasile e il Brasile era Amado e il fascino delle sue storie, le sue mulatte magate, i suoi moretti malandrini.
Naturalmente lui disse no. Lui diceva sempre no. Forse c'era stato un periodo nella loro storia in cui i suoi no avevano avuto una ragione, ma poi erano diventati una specie di automatismo linguistico, forse ormai solo un tic. Naturalmente lei lo amava, con quella sorta di dolorosa rassegnazione (e una punta di femmineo piacere) che ha l'amore non ricambiato. Naturalmente lui si lasciava amare, con la infastidita compiacenza che si riserva ai servi troppo fedeli.
Non era sempre stato così. Non quando lui era un imprenditore dai grandi mezzi ma di oscuri lombi, non ancora sotto i riflettori delle T.V., e lei un'attricetta alle prime armi ma con due gambe, oh le sue gambe, e due tette… era impazzito per le sue tette, le aveva praticamente comprate e a caro prezzo pur di chiuderle in casa, e averle tutte per sé. Per lei era stata la grande occasione della sua vita, agio e adorazione, ecco quello che voleva, e ne aveva avuto in abbondanza. Poi lui, prima dietro le quinte del Presidente, poi al suo fianco, poi al suo posto, si era dimenticato di averla. Era stato un caso per lei scoprire di avere un cervello, un'idea che semplicemente non le era mai venuta, come a qualcuno non viene mai in mente, neppure una volta nella vita, di avere le ghiandole surrenali. Ma aggirandosi per interi pomeriggi tra le stanze vuote, con il cuore che le risuonava di solitudine nelle orecchie, un giorno aveva aperto un libro.
Quando lui tornò, a sera tardi (lei aveva cenato in camera da sola), l'accolse con le lacrime agli occhi. «È morto Vadinho» gli disse col cuore spezzato. Lui non le chiese chi fosse Vadinho, pensò al secondo giardiniere e scrisse immediatamente, in quella grande agenda che era il suo cervello: «sostituire il giardiniere». Poi l'amò furiosamente, come non succedeva da tempo (da quanto tempo? Calcolò con quella grande calcolatrice che è il lobo frontale sinistro del cervello &endash; da due mesi, rispose l'amigdala), eccitato dalle lacrime e dall'emozione di lutto che aleggiava nella stanza. Lei gli si abbandonò con antico mestiere e con autentico piacere, ripassando mentalmente le prime 37 pagine di "Donna Flor e i suoi due mariti", edizione Garzanti. Quando fu finito riprese in mano il libro e continuò dalla pagina 38. Il giorno dopo chiamò Ambrogio, l'autista del suo piccolo jet, e si fece portare a Parigi, dove si tinse i capelli di un bruno quasi blu e si sottopose ad una speciale lampada che le diede un uniforme color caramello.
Rientrò in serata e lo aspettò.
«Ciao» disse lui.
«Ciao» rispose lei, aspettando un commento. Ma lui aveva un diavolo per capello per via di quella storia dell'inchiesta che non era riuscito ancora a bloccare e allora lei, per tranquillizzarlo, gli tolse il toupet e lo posò sul comodino. Il toupet, con tutti i suoi diavoli, si ammosciò e lui parve più calmo.
«Hai visto mia moglie?» le chiese.
«Sono io tua moglie!» rispose lei.
«Ah, già &endash; disse lui, &endash; scusa».
«C'è un tipo che le fa la corte &endash; gli confidò lei, &endash; ma a lei non interessa. Un tipo bizzarro. Chissà cosa si è messo in testa. Lo chiamano il principe».
«Non voglio queste storie qui dentro &endash; rispose lui &endash; se non si comporta bene, licenziala».
«Ma come posso licenziarla &endash; si stupì lei, &endash; abita…».
Quando lui la trovò in lacrime, qualche tempo dopo, licenziò Assunta, la cameriera personale di lei, spiegando che non poteva tollerare oltre comportamenti contrari alla morale sotto il suo tetto. Assunta, che aveva sessantaquattro anni ed era rimasta vedova nel settantanove senza che mai più un uomo la sfiorasse con lo sguardo, si indignò per il licenziamento, ma fu lusingata per la motivazione, tanto che le dispiacque, l'anno dopo, di non potere votare per lui.
Fu appunto circa un mese dopo questi fatti che lei gli propose di andare a febbraio a passare una vacanza a Bahia. E fu lì che lui rispose no. Lei gli spiegò che aveva nostalgia dell'odore del mare, di quel mare, voleva rivedere qualcuno dei suoi amici e anche salutare sua madre, benché fosse quell'arpia che tutti sappiamo. Lui, che l'aveva trovata a Forlimpopoli (e a quei tempi lei non era mai andata più in là di Gatteo mare), si spaventò a morte a sentire questo discorso e mandò a chiamare l'esimio prof. Nevrone, non prima di avere avvertito la suocera (che abitava ancora a Forlimpopoli, dietro la piazza) che la figliola prediletta era, con ogni probabilità, impazzita.
Arrivarono entrambi all'istante: la suocera con alti lamenti, il professore seguito dallo stuolo dei suoi assistenti, vestiti di bianco (quelli di destra) e di nero (quelli di sinistra) dando, con lo sfoggio di tali colori juventini, un certo dispiacere al Presidente, che tuttavia si dovette inchinare alla scienza in tale drammatico frangente. Giacché il professore aveva fatto questa mirabolante scoperta, e cioè che la felicità e l'infelicità erano due sostanze che stavano dentro il cervello, la prima a destra e la seconda a sinistra, e tutto procedeva bene fin quando, a causa di scuotimenti del capo provocati per lo più da voli di fantasia, le due sostanze non si mescolavano. In questo disgraziato caso, essendo la felicità di natura acquea e l'infelicità di natura oleosa, il contatto provocava un grave stato confusionale, fino ai gradi estremi della pazzia. Il prof. Nevrone aveva un apparecchietto, di sua personale invenzione, in grado di separare le due sostanze e che a volte utilizzava anche nella vita privata per togliere l'odore di tappo dai vini. In men che non si dica le due ali di assistenti si misero al lavoro: attaccarono l'apparecchio alla testa di lei e si misero a tirare come dannati, fin quando non furono sicuri di aver ben separato le due sostanze. Alla richiesta di quale fosse il suo onorario il prof. Nevrone fece signorilmente un gesto della mano che significava "lasci stare" e prese su soltanto, a mo' di souvenir, una splendente istitutrice svizzera che stava transitando di lì.
Quando tutto fu finito lui rientrò in casa dove lei, adagiata sul letto, languidamente riprendeva i sensi.
«Come va?» chiese.
«Bene &endash; rispose lei, &endash; se non vuoi che andiamo a Bahia fa lo stesso. Manderò Ambrogio a prendere gli amici e mia madre. Faremo qui una gran festa di Carnevale».
A queste parole lui ebbe un accesso di disperazione durante il quale si strappò i bottoni d'oro del blazer, ed anche la capsula d'oro di un dente che lo tormentava da tempo. Poi, disorientato, vedendosi senza bottoni d'oro, ebbe la misura dell'abisso di indecoro in cui era sprofondato e si riassettò un po'. «Fa quello che vuoi» concluse. E se ne andò alzando le spalle. La sera, quando rientrò, lei sembrava rasserenata. Mangiò di buon appetito. La cena era buona, piccante come non mai. Lo guardò con i grandi occhi neri spalancati (ma non erano blu? Lo sfiorò il dubbio, ma aveva tante cose per la testa che dimenticò immediatamente) con uno sguardo di indecente civetteria.
«Verranno tutti &endash; gli disse lei con un risolino sciocco da tredicenne, &endash; mia madre, poi dona Norma, dona Amalia e dona Gisa e, non ci crederesti mai, Ze Sampaio».
Lui la guardò con occhio vacuo. Aveva un appuntamento con l'avvocato dopo pochi minuti, come lo informò l'orocomputsegretmini grande come una moneta da cento lire che portava appuntato sul cuore.
«Sì &endash; rispose, &endash; Bene. Norma… Norma» chissà se era quella Norma, pensò mentre gli passava davanti agli occhi un filmato hard, con una certa Norma dalle grandi… ma no, ma no, dovette distogliere lo sguardo e il pensiero perché entrò, annunciato, il brutto avvocato che lo stava tenendo fuori di galera a suon di milioni. Lei si eclissò immediatamente lasciando dietro di sé una scia di odor di zenzero, peperoncino e petali di rosa.
Fu la sera, prima della festa (le stanze luccicavano di donne e di sorrisi, di sete e impudicizie) che lei lo chiamò in colloquio riservato nella grande camera da letto bianca. Gli si avvicinò tutta rossori e pudori e prendendolo per mano lo invitò a sedersi sul letto. Gli mise un braccio attorno alle spalle e lo indusse in tentazione dicendo: «Siamo sposati adesso, Teodoro, amore mio; domani festeggeremo il nostro matrimonio. Ci saranno tutti i nostri amici e anche &endash; abbassò gli occhi, &endash; mia madre. Arriverà domani. Sii carino, ti prego, sono tutti qui per festeggiare noi. Sarà una magnifica sorpresa».
La sera dopo, la casa splendeva. Mulatte seminude sdraiate su divani bianchi allacciavano relazioni pericolose con grassi signori in panciotto di seta. Dona Romilda, al secolo signora Cesarina Casadei, troneggiava in un angolo esibendo tra sete purpuree due instabili seni spalmati di bruno. Era giunta testé da Forlimpopoli sul jet della figlia, atterrando dopo otto minuti esatti di volo nel giardino di casa. Dona Norma, dona Gisa, dona Maria do Carmo (rispettivamente le sorelle Archibuzzi e la contessa Rosa Maria de Pulvinis) in evidente stato di abuso alcolico sgambettavano sui tavoli al ritmo di una samba scatenata. Le cosce budiniche avevano ritrovato il ritmo della gioventù ed un calore malandrino s'insinuava sotto le gonne salendo su su fino al segreto del ventre, per esplodere poi in risate argentine.
Qua e là, sparsi con effetti di colore, ambigui mulatti col sesso appena coperto da un frammento di seta. Due di loro, totalmente nudi, ai lati dello scalone che portava alle stanze, stavano immobili come guardie svizzere, con fini decorativi. L'aria era densa di ormoni, la musica una carezza amorosa. Poi all'improvviso le luci si spensero, la musica si abbassò, un solo faro girò puntando su di lei. Dona Flor entrò.
I lunghi capelli neri, semplicemente raccolti sulle spalle, il bellissimo viso bruno privo di trucco, una tunica sino ai piedi priva di gioielli, splendeva al bavero del blazer blu del presidente, giunto or ora da… «Non ho neanche avuto il tempo di cambiarmi, scusate»… colse con un'unica occhiata circolare quella messinscena e la disapprovò. Una ventata d'aria gelida raffreddò l'atmosfera facendo ammosciare l'impudente virilità delle due statue ai lati dello scalone. Dona Romilda si coprì precipitosamente il seno alzando con quel gesto le vesti e scoprendo così un sesso vorace. Dona Flor avanzò trascinandosi dietro un riluttante presidente. Fermandosi al centro del salone, Flor gli mise le braccia attorno al collo e gli tolse il parrucchino che cadde ai suoi piedi. Poi gli sfilò il blazer che si ammosciò come un cadavere. Infine prese l'orologio-sveglia-segreteria-telefono, lo sfilò e lo lanciò lontano.
Allora tutti, in un attimo di puro orrore, si resero conto di stare assistendo ad un assassinio. Chiusero gli occhi un secondo. Quando li riaprirono il presidente era sparito. Al suo posto rimanevano un toupet, un orologio e un blazer blu. Vadinho, sull'armadio, sghignazzò.
 
Quando il presidente si risvegliò e si vide seduto col giornale in mano su una squallida poltroncina rossa scucita e con un camice bianco addosso, pensò subito di stare sognando e, appoggiato il giornale, pensò «Voglio proprio vedere come va a finire».
Di essersi reincarnato in un robusto infermiere cinquantaduenne lo capì solo dopo, perché il tempo passava e la gente continuava a chiamarlo Giordano (che nome stupido!), a passargli cartelle cliniche verdi piene di appunti e di diagnosi su sconosciuti, a dargli ordini incomprensibili tipo «Domani vai tu a punturare quel crostino che sta in via Pacini». Perché nello specchio di un bagno di un metro e quaranta per due puzzolente e sporco, si vide in faccia due baffoni neri sopra alle labbra grandi e rotonde, e scoprì una testa piena di capelli grigi un po' ricci («Che razza di toupet mi son messo stavolta?» pensò, poi provò a toglierlo tirando e sentì dolore, un dolore acutissimo, che non c'è dentro i sogni). Perché, toltosi il camice dopo che da mezzora tutti gli dicevano «Cosa aspetti cretino ad andare via, son passate da un pezzo le due"», vide una maglietta blu sbottonata sopra un petto quadrato e villoso, con un'ancora minuscola tatuata sopra il capezzolo destro. Perché infine quella signora grossa, con un culo gigante e due labbra spaventose viola turgido e un poco sbavato, passandogli a fianco gli sussurrò:
«Alle sei, Nino, al solito posto».
«Passi il pelo, passino anche i baffoni &endash; pensò il presidente (che aveva sempre odiato barbe e baffi per via di una peluria nerastra che dai 60 anni in poi aveva coperto la faccia di sua madre, e che mammà aveva sempre rifiutato di farsi tagliare) &endash; ma la culona no! Come diavolo avrò fatto mai a imbarcare una donna così?».
Uscì fuori, nel piazzale era un caldo d'inferno e l'asfalto bolliva al sole d'estate. «Ti accompagno alla macchina» bisbigliò la culona, ricomparsa dal nulla. «Meno male» pensò il presidente allontanando dal braccio con mossa schifata la mano di lei che gli si era appoggiata sopra (fu lì che si accorse dell'orologio russo con le lancette e i numeri giganteschi e il cinturino in finta pelle, lo slacciò e lo buttò con rabbia sul marciapiede). «Meno male: non so neanche che macchina ho», stava pensando.
«Nino fermati, siamo arrivati, la tua macchina è qui».
«Scusi, mi ero distratto; sa, c'è caldo in ufficio e poi quell'avvocato e quel giudice mi hanno sfinito» arrivò a brontolare Teodoro, cercando le chiavi.
«Quale giudice, quale avvocato?» disse labbra sformate, perplessa.
«Cosa vuole capire, signora, di politica e di alta finanza! Via, si sposti, che devo partire!».
La culona arretrò un po' allibita, guardando Giordano esitare nel mettere in moto e sentendolo ancora gridare: «Accidenti a quel cretino di autista, non c'è mai quando serve».
Girò l'angolo, procedendo a strappi perché non guidava da più di dieci anni, e si trovò davanti una specie di gigante, un omone barbuto che gli si piantò in mezzo alla strada e lo costrinse a frenare di colpo.
«Cosa fa, porca zozza» sbraitò il presidente, che iniziava a parlare col cervello dell'infermiere e armeggiava sulla chiave dell'auto, spenta in mezzo alla strada.
«Ho fatto un sogno, l'ho scritto e l'ho regalato al tempo, legandolo al collo di un piccione viaggiatore. Il sogno ha fatto un sogno sul sogno, e ogni volta diventava più bello. Io voglio vivere i miei sogni e tu me lo impedisci con le tue punture e le tue storie sulle mie malattie».
«Cosa vuole, cretino, si tolga di lì» urlò il presidente, che non sapeva nulla di sogni o punture, e che soprattutto aveva visto nello specchietto la culona arrivare di corsa ondeggiando tra le macchine ferme che aspettavano che lui ripartisse. Partì, infine, con un salto in avanti (la frizione non era mai stata il suo forte), traversò quattro incroci a casaccio, poi si fermò un po' attonito, non sapendo il suo nome completo, la sua nuova casa, dove dovesse andare. Sentì sotto la coscia la forma di un portafogli, lo prese e lo aprì. Calderini Giordano, via Bellussi 3/b.
«Scusi, sa dove sia via Bellussi?» a una giovane donna pimpante, coi calzoni attillati e due lunghe gambe da giraffa.
«Via Bellussi? È alla Baia, guardi è là, dietro quei condomini, vede, giri dopo il secondo semaforo a destra e la trova». Questo nome lo scosse, rendendolo improvvisamente inquieto.
«Baia: ho sentito altre volte quel nome?». Non sapeva rispondersi, perché non era facile ricostruire le cose dentro una testa caotica in cui si mescolavano pensieri da presidente e pensieri da infermiere, culone e avvocati, punture e blazer.
Un quartiere povero, pieno di palazzoni costruiti subito dietro una zona industriale, case di operai e di impiegati. Il 3/b, una casetta anonima con un giardinetto striminzito davanti e le persiane verdi un po' scrostate, aveva un solo campanello: Calderini-Archibuzzi. Il presidente tuonò due volte, imperioso come dev'essere un presidente.
«Idiota, hai scordato le chiavi anche oggi» ululò una specie di mostro apparso sulla porta d'ingresso.
«Dona Gisa… &endash; pensò il presidente con un misto d'angoscia e di terrore guardano le orribili sembianze di Gisella Archibuzzi. &endash; Dona Gisa mia moglie! Dio, ti rendo i tuoi sogni, ti regalo l'orologio-computer, due ville, cinquecento mulatte, ma non puoi farmi questo!».
Dio, che era una principessa russa e stava viaggiando in treno tra Ozzano e Castelbolognese, sogghignò girandosi da un'altra parte e rimettendosi a leggere "Il giuoco delle perle di vetro".
Dona Gisa era rientrata in casa; Giordano, a metà del cancello, con la faccia sbiancata, piangeva; la culona, sotto la doccia, si spalmava le braccia un po' flosce di crema emolliente; Mauro, l'uomo barbuto, continuava imprecando a cercare i suoi sogni.
Era il trentuno luglio, c'era un sole torrido ma velato e dai torrioni di cemento del quartiere periferico detto La Baia fumava afa che saliva verso il cielo e si radunava sopra i tetti come un cappello stopposo appiccicato alle grondaie.
Un toupet appiccicato sulla testa dei palazzi e delle casse popolari.

 

Classifica Concorso Parole in Movimento Fonopoli 1998 sezione narrativa

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inserito il 27 ottobre 1998