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               Zia
               Rosetta Zia rosetta era un
               vero miracolo di vitalità.Aveva ottantacinque
               anni quando la conobbi.Era piccolina, un
               po' curva di spalle e con una bella chioma di capelli
               bianchi che portava intrecciata e fissata a crocchia
               sulla nuca.Le rughe che li
               disegnavano la faccia erano profonde come le pieghe di
               un vestito di panno, ma sul suo volto sembravano i
               ricami delicati di un sorriso e le donavano un aspetto
               solare e sorridente.In paese
               conoscevano tutti la sua storia e spesso sferruzzando
               di fronte agli usci caldi e ombrosi dell'estate si
               parlava di lei, dei tempi andati e della
               gioventù scappata come un uccellino dalla
               gabbietta lasciata aperta.Anche Zia rosetta
               la sua gioventù l'aveva tenuta stretta con due
               mani, ma quella presa, la vita gliela aveva fatta
               allentare, lentamente, amaramente.La sua
               vitalità però, non l'aveva mai
               abbandonata.Seppellì due
               mariti per colpa della guerra e sette figli per colpa
               delle malattie.Non faceva in tempo
               nemmeno ad affezionarglisi che dopo qualche anno si
               ritrovava a stringere i loro corpicini freddi sul
               letto, piangendo di disperazione.Andava avanti
               però, vitale e ottimista, quasi a sfidare la
               vita, quasi a voler vedere fin dove voleva portarla.
               Ricominciava le sue giornate tra le galline da
               accudire e le uova da vendere e barattare con un po'
               di pasta di grano duro di quella che mangiavano i
               signori.Tutti la prendevano
               ad esempio per la sua forza e la chiamavano Zia
               rosetta, per quei modi dolci e familiari che aveva con
               tutti.Così fu,
               fino al giorno in cui morì il suo ottavo
               figlio, Biagio, con il quale aveva trascorso ventuno
               anni di vita.Una mattina,
               Biagio, mentre raccoglieva le mele verdi nell'albero
               che stava al centro dell'orto, fu attaccato da uno
               sciame di grosse vespe che in quel periodo avevano
               infestato la zona. Cercò di sfuggire ai
               pungiglioni correndo dentro la cantina ma dopo qualche
               metro era caduto a terra, senza respiro.Zia rosetta l'aveva
               trovato con la bocca spalancata, il volto rosso e
               gonfio e aveva stentato a riconoscerlo se non fosse
               stato per la camicia a scacchi che gli aveva regalato
               lei, tre estati prima.Accanto a quel
               corpo martoriato e rattrappito dal dolore della morte,
               era caduta in ginocchio, prima gemendo e poi gridando
               forte scuotendo e abbracciando il corpo di
               Biagio.Urlava e lo
               accarezzava, lacerata da quell'immobilità e
               dagli occhi gonfi fissi sul terriccio.Quest'ultima morte
               non la perdonò a Dio.Il giorno dopo il
               funerale entrò in chiesa, percorse il corridoio
               che separa i vecchi banchi di legno, si
               accovacciò davanti all'altare e urinò e
               defecò.Poi andò a
               chiamare Don Faustino che stava in sacrestia gli
               mostrò ciò che aveva fatto e gli
               disse:<Ecco, questo
               è quello che si merita il tuo Dio, mettile tra
               le offerte del giorno>.Gli voltò la
               schiena, lasciandolo a bocca aperta e con gli occhi
               sbarrati per terra. Da quel giorno non
               fu più la stessa. Non volle vedere più
               nessuno, si nutrì di ciò che poteva
               coltivare e allevare.Tagliò
               l'albero delle mele che aveva ospitato Biagio l'ultimo
               giorno della sua vita, in tanti pezzi.Fece un grande
               falò al centro dell'orto al tramonto e rimase a
               guardarlo tutta la notte, seduta su un vecchio sacco
               di iuta.Guardava la fiamma
               e ascoltava lo scoppiettio di quei rami, sentiva il
               calore violento del fuoco e la pelle che bruciava. La
               luce rossastra illuminava la terra, gli ortaggi, i
               cespugli di more e i rovi intorno, come un tramonto
               prolungato mentre il suo dolore e il suo pianto
               sgorgavano dalla sua anima ferita.L'alba
               arrivò e la trovò assopita. Il fuoco,
               vivido e rigoglioso della notte aveva lasciato il
               posto ad un mucchio di cenere nera, polverosa e
               puzzolente. Biagio, giovane e vitale aveva lasciato il
               posto al silenzio e all'aridità.Erano passati
               quattro mesi da quella notte e anche se don Faustino
               aveva ripetutamente tentato di avvicinare la Povera
               rosetta, come la chiamavano in paese dopo l'accaduto,
               non c'era stato verso di riuscire a convincerla a
               parlare con nessuno, né tantomeno di tornare in
               chiesa.Andava al cimitero
               ogni venerdì mattina perché era il
               giorno del mercato e così non incontrava quelle
               facce curiose della gente e i loro
               mormorii.Con il suo mazzo di
               margherite gialle che coltivava da sé, faceva
               il giro di tutti i suoi cari. Prima tutti i suoi sette
               bambini che stavano nel lato destro, vicino al
               cancello. Alcuni più avanti, altri più
               indietro a seconda dell'anno di morte; aggiustava i
               vasetti di quelle piccole tombe curate e accarezzava i
               loro nomi con dolcezza.Sorrideva in quel
               gesto, come se ricordasse un momento di quelle brevi
               vite, un loro capitombolo, una parolina storpiata, una
               pappa sbrodolata.Sorrideva e
               sistemava con cura i fiori.Poi passava dai
               suoi due mariti, due fratelli.Aveva amato di
               passione il primo e aveva cercato compagnia nel
               secondo. Ma era stata sfortunata.Attraversava poi la
               parte più vecchia del cimitero e andava verso
               la zona che aveva costruito di recente, allargando il
               muro di cinta, per recarsi da Biagio. Lì si
               sedeva e accarezzava la fotografia in bianco e nero
               che aveva anche sul comò della sua stanza da
               letto, cominciava a raccontargli come era andata la
               settimana. Gli raccontava quante uova aveva raccolto,
               le talpe che avevano rovinato le patate, del coniglio
               che aveva mangiato i cuccioli che aveva partorito, e
               così via.Poi si alzava e se
               ne ritornava a casa, senza rispondere al saluto del
               custode che ogni settimana le rivolgeva una
               parola.Un giorno, mentre
               ripuliva il pollaio dagli escrementi, con la coda
               degli occhi vide qualcosa che si muoveva dietro i
               cespugli dell'orto.Pensando che fosse
               il coniglio addomesticato di Biagio che spesso si
               infilava lì sotto, cominciò a
               brontolargli mentre andava a prenderlo per riportarlo
               vicino alle gabbie.Ma quando si
               piegò per andarlo ad acchiappare si
               trovò di fronte a due occhi neri sgranati dalla
               paura.Una ragazzetta,
               sudicia e smagrita, stava accucciata e si nascondeva
               la testa con un braccio.<Che diavolo fai
               rintanata lì sotto!>, le aveva gridato
               scostandosi per la sorpresa.Qualche mese prima
               una carovana di nomadi aveva piantato le tende e aveva
               organizzato uno spettacolo di rarità per la
               festa di San Giocondo. Erano andati tutti a vedere il
               mangiatore di chiodi, il pagliaccio piange e ride, le
               scimmie ballerine e altre stramberie del
               genere.Anche Biagio era
               arrivato fin laggiù con la bicicletta e c'era
               poi ritornato e ritornato per tutti i quindi giorni
               degli spettacoli. E lì aveva conosciuto Iris,
               una ragazzetta muta, che vendeva caramelle e dolcetti
               prima dello spettacolo.E i due si erano
               subito piaciuti. E dopo lo spettacolo giocherellavano
               con i loro corpi di adolescenti alla scoperta dei
               piaceri del primo amore.Poi, la carovana
               ripartì e Iris e Biagio si abbracciarono forte
               forte e si scambiarono un pegno d'amore aspettando la
               festa dell'anno successivo.Iris ora era
               lì sotto, stanca ed affamata che cercava il suo
               Biagio.L'aveva aspettato
               tutto un giorno precedente dietro quel cespuglio, ma
               lui non si era visto, così avrebbe voluto
               chiedere a sua madre, ma si vergognava e adesso si
               sarebbe trasformata in una radice pur di non uscire da
               lì sotto.Rosetta, aveva
               cercato di convincerla a venir fuori con le cattive,
               poi vedendola così impaurita, le allungò
               un braccio in segno di pace e Iris
               cedette.Rosetta la
               aiutò a sollevarsi e trovandosela in piedi le
               guardò il collo sporco dal quale pendeva la
               madonnina di battesimo di Biagio.Iris la strinse tra
               le mani e indicandosi la gola, per far capire a
               Rosetta che non poteva parlare, che era muta, le
               chiedeva con gli occhi di Biagio, con lo sguardo
               implorante, cercava il suo fidanzato.Rosetta le fissava
               gli occhi e le mani, guardava quel suo parlare
               silenzioso, quel suo spiegare tacito.La osservava
               agitarsi, mimare, spiegare e più Iris si
               muoveva, più Rosetta si impietriva nel dolore
               di quella richiesta.Immobile, davanti
               ad Iris, seguiva quelle mani che adesso erano
               appoggiate al suo ventre.Un ventre piccolo e
               rotondo, un ventre sporgente e vivo.Le due donne si
               guardarono negli occhi, Iris piangeva e Rosetta la
               guardava con tristezza. Una leggera brezza faceva  
               muovere le foglie degli alti faggi e le foglie
               già cadute che rotolavano a terra, disegnavano
               un cerchio intorno a quel dolore.Iris all'improvviso
               si accasciò e urlò con una voce senza
               suono.Stava
               male.Rosetta la
               trascinò fino in cantina, le diede un po'
               d'acqua e le offrì le sue braccia e le sue
               mani.Iris urlava,
               accovacciata tra i sacchi di grano, gridava e piangeva
               con la sua voce senza suono. Rosetta urlava con lei e
               la incitava, le toccava la pancia per controllare come
               era posizionato il bambino, come aveva visto su di lei
               tante volte.Urlavano insieme,
               Iris le feriva le braccia con le unghie e Rosetta le
               sorrideva incitandola e rassicurandola. Sudate e
               stanche travagliarono insieme per tre ore, fin quando
               Iris urlò con tutto il fiato che aveva in gola
               e spinse fuori da suo corpo un bambino tutto bianco e
               con una testolina piena di capelli neri, cadendo
               all'indietro, stremata dalla stanchezza.Rosetta si
               ritrovò quel bimbetto tra le braccia, viscido e
               sporco di sangue, con la bocca aperta in un pianto
               disperato ed inconsolabile.Lo avvolse nel suo
               grembiule e chiamo Iris, risvegliandola dalla sua
               fatica per mostrarle quella meraviglia, quello
               splendore che aveva in braccio.Rimasero
               così, per un tempo incalcolabile, stordite
               entrambe dalla gioia di quell'evento
               inaspettato.Il giorno seguente,
               dopo aver sistemato Iris e il bambino nella stanza di
               Biagio, raccolse un po' di semi di lavanda che aveva
               messo a seccare. Lì infilò in quattro
               sacchettini fatti all'uncinetto e si incamminò
               verso la chiesa.Entrò, come
               aveva fatto quattro mesi prima, si inchinò
               davanti all'altare e appoggiò i sacchettini
               profumati per terra. Don Faustino che stava sistemando
               l'altare per la messa della sera, la guardò
               sorpreso.<Rosetta>, le
               sussurrò imbarazzato.Rosetta si
               alzò e tra quel profumo intenso di lavanda i
               due si guardarono e si sorrisero senza bisogno di
               dirsi nulla.Rosetta aveva fatto
               pace con il mondo e con chi secondo lei, ne teneva le
               fila.Rosetta era di
               nuovo Zia rosetta.  |