Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Antonella Timpano
Con questo racconto è risultata segnalata dalla Giuria del Premio Vittorio Tolasi - Orzinuovi, sezione narrativa
Zia Rosetta
 
Zia rosetta era un vero miracolo di vitalità.
Aveva ottantacinque anni quando la conobbi.
Era piccolina, un po' curva di spalle e con una bella chioma di capelli bianchi che portava intrecciata e fissata a crocchia sulla nuca.
Le rughe che li disegnavano la faccia erano profonde come le pieghe di un vestito di panno, ma sul suo volto sembravano i ricami delicati di un sorriso e le donavano un aspetto solare e sorridente.
In paese conoscevano tutti la sua storia e spesso sferruzzando di fronte agli usci caldi e ombrosi dell'estate si parlava di lei, dei tempi andati e della gioventù scappata come un uccellino dalla gabbietta lasciata aperta.
Anche Zia rosetta la sua gioventù l'aveva tenuta stretta con due mani, ma quella presa, la vita gliela aveva fatta allentare, lentamente, amaramente.
La sua vitalità però, non l'aveva mai abbandonata.
Seppellì due mariti per colpa della guerra e sette figli per colpa delle malattie.
Non faceva in tempo nemmeno ad affezionarglisi che dopo qualche anno si ritrovava a stringere i loro corpicini freddi sul letto, piangendo di disperazione.
Andava avanti però, vitale e ottimista, quasi a sfidare la vita, quasi a voler vedere fin dove voleva portarla. Ricominciava le sue giornate tra le galline da accudire e le uova da vendere e barattare con un po' di pasta di grano duro di quella che mangiavano i signori.
Tutti la prendevano ad esempio per la sua forza e la chiamavano Zia rosetta, per quei modi dolci e familiari che aveva con tutti.
Così fu, fino al giorno in cui morì il suo ottavo figlio, Biagio, con il quale aveva trascorso ventuno anni di vita.
Una mattina, Biagio, mentre raccoglieva le mele verdi nell'albero che stava al centro dell'orto, fu attaccato da uno sciame di grosse vespe che in quel periodo avevano infestato la zona. Cercò di sfuggire ai pungiglioni correndo dentro la cantina ma dopo qualche metro era caduto a terra, senza respiro.
Zia rosetta l'aveva trovato con la bocca spalancata, il volto rosso e gonfio e aveva stentato a riconoscerlo se non fosse stato per la camicia a scacchi che gli aveva regalato lei, tre estati prima.
Accanto a quel corpo martoriato e rattrappito dal dolore della morte, era caduta in ginocchio, prima gemendo e poi gridando forte scuotendo e abbracciando il corpo di Biagio.
Urlava e lo accarezzava, lacerata da quell'immobilità e dagli occhi gonfi fissi sul terriccio.
Quest'ultima morte non la perdonò a Dio.
Il giorno dopo il funerale entrò in chiesa, percorse il corridoio che separa i vecchi banchi di legno, si accovacciò davanti all'altare e urinò e defecò.
Poi andò a chiamare Don Faustino che stava in sacrestia gli mostrò ciò che aveva fatto e gli disse:
<Ecco, questo è quello che si merita il tuo Dio, mettile tra le offerte del giorno>.
Gli voltò la schiena, lasciandolo a bocca aperta e con gli occhi sbarrati per terra.
 
Da quel giorno non fu più la stessa. Non volle vedere più nessuno, si nutrì di ciò che poteva coltivare e allevare.
Tagliò l'albero delle mele che aveva ospitato Biagio l'ultimo giorno della sua vita, in tanti pezzi.
Fece un grande falò al centro dell'orto al tramonto e rimase a guardarlo tutta la notte, seduta su un vecchio sacco di iuta.
Guardava la fiamma e ascoltava lo scoppiettio di quei rami, sentiva il calore violento del fuoco e la pelle che bruciava. La luce rossastra illuminava la terra, gli ortaggi, i cespugli di more e i rovi intorno, come un tramonto prolungato mentre il suo dolore e il suo pianto sgorgavano dalla sua anima ferita.
L'alba arrivò e la trovò assopita. Il fuoco, vivido e rigoglioso della notte aveva lasciato il posto ad un mucchio di cenere nera, polverosa e puzzolente. Biagio, giovane e vitale aveva lasciato il posto al silenzio e all'aridità.
Erano passati quattro mesi da quella notte e anche se don Faustino aveva ripetutamente tentato di avvicinare la Povera rosetta, come la chiamavano in paese dopo l'accaduto, non c'era stato verso di riuscire a convincerla a parlare con nessuno, né tantomeno di tornare in chiesa.
Andava al cimitero ogni venerdì mattina perché era il giorno del mercato e così non incontrava quelle facce curiose della gente e i loro mormorii.
Con il suo mazzo di margherite gialle che coltivava da sé, faceva il giro di tutti i suoi cari. Prima tutti i suoi sette bambini che stavano nel lato destro, vicino al cancello. Alcuni più avanti, altri più indietro a seconda dell'anno di morte; aggiustava i vasetti di quelle piccole tombe curate e accarezzava i loro nomi con dolcezza.
Sorrideva in quel gesto, come se ricordasse un momento di quelle brevi vite, un loro capitombolo, una parolina storpiata, una pappa sbrodolata.
Sorrideva e sistemava con cura i fiori.
Poi passava dai suoi due mariti, due fratelli.
Aveva amato di passione il primo e aveva cercato compagnia nel secondo. Ma era stata sfortunata.
Attraversava poi la parte più vecchia del cimitero e andava verso la zona che aveva costruito di recente, allargando il muro di cinta, per recarsi da Biagio. Lì si sedeva e accarezzava la fotografia in bianco e nero che aveva anche sul comò della sua stanza da letto, cominciava a raccontargli come era andata la settimana. Gli raccontava quante uova aveva raccolto, le talpe che avevano rovinato le patate, del coniglio che aveva mangiato i cuccioli che aveva partorito, e così via.
Poi si alzava e se ne ritornava a casa, senza rispondere al saluto del custode che ogni settimana le rivolgeva una parola.
Un giorno, mentre ripuliva il pollaio dagli escrementi, con la coda degli occhi vide qualcosa che si muoveva dietro i cespugli dell'orto.
Pensando che fosse il coniglio addomesticato di Biagio che spesso si infilava lì sotto, cominciò a brontolargli mentre andava a prenderlo per riportarlo vicino alle gabbie.
Ma quando si piegò per andarlo ad acchiappare si trovò di fronte a due occhi neri sgranati dalla paura.
Una ragazzetta, sudicia e smagrita, stava accucciata e si nascondeva la testa con un braccio.
<Che diavolo fai rintanata lì sotto!>, le aveva gridato scostandosi per la sorpresa.
Qualche mese prima una carovana di nomadi aveva piantato le tende e aveva organizzato uno spettacolo di rarità per la festa di San Giocondo. Erano andati tutti a vedere il mangiatore di chiodi, il pagliaccio piange e ride, le scimmie ballerine e altre stramberie del genere.
Anche Biagio era arrivato fin laggiù con la bicicletta e c'era poi ritornato e ritornato per tutti i quindi giorni degli spettacoli. E lì aveva conosciuto Iris, una ragazzetta muta, che vendeva caramelle e dolcetti prima dello spettacolo.
E i due si erano subito piaciuti. E dopo lo spettacolo giocherellavano con i loro corpi di adolescenti alla scoperta dei piaceri del primo amore.
Poi, la carovana ripartì e Iris e Biagio si abbracciarono forte forte e si scambiarono un pegno d'amore aspettando la festa dell'anno successivo.
Iris ora era lì sotto, stanca ed affamata che cercava il suo Biagio.
L'aveva aspettato tutto un giorno precedente dietro quel cespuglio, ma lui non si era visto, così avrebbe voluto chiedere a sua madre, ma si vergognava e adesso si sarebbe trasformata in una radice pur di non uscire da lì sotto.
Rosetta, aveva cercato di convincerla a venir fuori con le cattive, poi vedendola così impaurita, le allungò un braccio in segno di pace e Iris cedette.
Rosetta la aiutò a sollevarsi e trovandosela in piedi le guardò il collo sporco dal quale pendeva la madonnina di battesimo di Biagio.
Iris la strinse tra le mani e indicandosi la gola, per far capire a Rosetta che non poteva parlare, che era muta, le chiedeva con gli occhi di Biagio, con lo sguardo implorante, cercava il suo fidanzato.
Rosetta le fissava gli occhi e le mani, guardava quel suo parlare silenzioso, quel suo spiegare tacito.
La osservava agitarsi, mimare, spiegare e più Iris si muoveva, più Rosetta si impietriva nel dolore di quella richiesta.
Immobile, davanti ad Iris, seguiva quelle mani che adesso erano appoggiate al suo ventre.
Un ventre piccolo e rotondo, un ventre sporgente e vivo.
Le due donne si guardarono negli occhi, Iris piangeva e Rosetta la guardava con tristezza. Una leggera brezza faceva muovere le foglie degli alti faggi e le foglie già cadute che rotolavano a terra, disegnavano un cerchio intorno a quel dolore.
Iris all'improvviso si accasciò e urlò con una voce senza suono.
Stava male.
Rosetta la trascinò fino in cantina, le diede un po' d'acqua e le offrì le sue braccia e le sue mani.
Iris urlava, accovacciata tra i sacchi di grano, gridava e piangeva con la sua voce senza suono. Rosetta urlava con lei e la incitava, le toccava la pancia per controllare come era posizionato il bambino, come aveva visto su di lei tante volte.
Urlavano insieme, Iris le feriva le braccia con le unghie e Rosetta le sorrideva incitandola e rassicurandola. Sudate e stanche travagliarono insieme per tre ore, fin quando Iris urlò con tutto il fiato che aveva in gola e spinse fuori da suo corpo un bambino tutto bianco e con una testolina piena di capelli neri, cadendo all'indietro, stremata dalla stanchezza.
Rosetta si ritrovò quel bimbetto tra le braccia, viscido e sporco di sangue, con la bocca aperta in un pianto disperato ed inconsolabile.
Lo avvolse nel suo grembiule e chiamo Iris, risvegliandola dalla sua fatica per mostrarle quella meraviglia, quello splendore che aveva in braccio.
Rimasero così, per un tempo incalcolabile, stordite entrambe dalla gioia di quell'evento inaspettato.
Il giorno seguente, dopo aver sistemato Iris e il bambino nella stanza di Biagio, raccolse un po' di semi di lavanda che aveva messo a seccare. Lì infilò in quattro sacchettini fatti all'uncinetto e si incamminò verso la chiesa.
Entrò, come aveva fatto quattro mesi prima, si inchinò davanti all'altare e appoggiò i sacchettini profumati per terra. Don Faustino che stava sistemando l'altare per la messa della sera, la guardò sorpreso.
<Rosetta>, le sussurrò imbarazzato.
Rosetta si alzò e tra quel profumo intenso di lavanda i due si guardarono e si sorrisero senza bisogno di dirsi nulla.
Rosetta aveva fatto pace con il mondo e con chi secondo lei, ne teneva le fila.
Rosetta era di nuovo Zia rosetta.
 
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