Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Angela Rizzo
Con questo racconto è risultata segnalata dalla Giuria del Premio Vittorio Tolasi - Orzinuovi, sezione narrativa
Fluorescenza
 
Aveva trovato rifugio in quel piccolo appartamento e si era sentito a proprio agio nella confusione che vi regnava: mobili stipati nei piccoli spazi, riviste e libri dappertutto, abiti abbandonati sopra le sedie. Le piante sui balconi attendevano pazientemente una salutare potatura che le rinvigorisse, ma si accontentavano delle saltuarie innaffiature e prosperavano ugualmente. Qualcosa di impalpabile sembrava nutrirle, qualcosa che donava anche alla polvere che si accumulava sugli oggetti l'aspetto luminoso dell'oro: la presenza di Dio, che riempiva tutto l'ambiente.
Forse in quel luogo avrebbe ricevuto una sua identità, lui che non era né uomo, né angelo, né demone. Non sapeva chi l'avesse generato, ignorava lo scopo della sua inesistente esistenza, non ricordava il passato e non prevedeva il futuro. Fluttuava, sospeso nella dimensione terrena, senza alcuna coscienza della propria condizione, ma perfettamente consapevole dei meccanismi che regolavano la vita umana.
Non avrebbe saputo definire se stesso se non come una luminescenza pallida e priva di contorni netti, che si ampliava e si restringeva, indifferente agli stimoli materiali, ma sensibile alla forza del pensiero e del sentimento.
Viveva nell'appartamento una piccola famiglia: una coppia di coniugi e un figlio poco più che ventenne. Rientravano soltanto per i pasti e per dormire, mentre il ragazzo rimaneva assente anche per diversi giorni di seguito, e poi tornava carico di valigie e di gioventù.
Nessuno si era accorto di lui, nessuno tranne il gatto, un animale dal pelo corvino e lucido, che lo aveva individuato in una piega del cuscino del divano. Di fronte allo sguardo felino che lo esaminava con curiosità, lui aveva provato paura e si era rincantucciato ancor di più nel nascondiglio. Aveva avvertito il tonfo della bestiola che gli si era accucciata accanto e, poi, il quieto ronfare delle fusa che diveniva sempre più affettuosamente sonoro. Allora, si era appoggiato sul tepore della sua pelliccia ed erano rimasti insieme a lungo, il gatto sonnecchiando e lui assaporando per la prima volta il diretto contatto con un essere vivente.
Si rafforzò la decisione di rimanere in quel luogo, in cui forse avrebbe scoperto chi fosse o cosa fosse, quale destino lo attendesse, quale compito avrebbe dovuto svolgere. Sentiva che l'attesa sarebbe stata più lieve fra quelle mura.
Cominciò a riconoscere tutti i rumori e le abitudini della casa. La prima a destarsi era lei, che preparava la colazione e riempiva di cibo la ciotola del gatto.
Lui si distendeva sulla schiena dell'animale e lo osservava divorare famelicamente il pasto. Poi, si sentiva lo scrosciare dell'acqua, l'echeggiare delle notizie trasmesse dalla radio, un continuo andirivieni per le stanze, infine, la porta che si richiudeva e il rapido ticchettio delle scarpe giù per le scale.
Seguiva il risveglio di lui, che consumava caffelatte e biscotti ascoltando il telegiornale del mattino, in uno stato di stanco torpore. Poi, anche i suoi passi si disperdevano verso l'esterno e tutto piombava nel silenzio.
Se il ragazzo era in casa, si doveva attendere molto prima che la porta della sua camera si aprisse, perché andava a dormire molto tardi. Non appena sentivano il rumore della maniglia, lui e il micio lo seguivano dappertutto nel suo pigro bighellonare e, quando, finalmente, si decideva ad aprire i libri per studiare, gli si accoccolavano in grembo. La propria fluorescenza s'intensificava allorché, spesso, curiosava le strane formule del testo, ma si arrendeva subito di fronte alla loro incomprensibilità.
Una volta trovò il coraggio di insinuarsi in uno dei riccioli biondi, che ricadevano morbidamente sul collo del giovane, e scoprì che riusciva a captare il fruscio dei suoi pensieri. Non tutto gli appariva chiaro, ma spesso la percezione delle inquietudini e delle dolorose incertezze di quella giovane mente lo sprofondavano in una condizione di solidale tristezza.
Se solo avesse avuto gli occhi avrebbe pianto, se solo avesse posseduto la voce l'avrebbe consolato, ma non era altro che un inutile e impercettibile bagliore informe, un insignificante fuoco fatuo, un grumo larvale privo di potere.
<Ragazzo>, avrebbe voluto dirgli <sono crisi momentanee. Tutto passerà! Io non so come lo so, eppure ne avverto la certezza>.
Questo ed altro avrebbe voluto preferire, ma non riusciva a far altro che dilatarsi e restringersi e dilatarsi.
La famiglia si animava soltanto la sera, durante la cena. E allora s'intercalavano i discorsi, spesso sovrapponendosi l'uno all'altro e provocando le vivaci reazioni o i bronci infantili di chi avrebbe voluto più spazio per sé. E gli alterchi familiari, leggeri e fugaci come nuvole vaporose, ravvivavano l'atmosfera. E tutto era pieno di Dio.
Era il momento del rilassamento, in cui ciascuno poteva esporre le proprie difficoltà, le aspirazioni, i sogni. Costretti, nella breve pausa del pranzo, a cibi semplici e consumati frettolosamente, la sera, beffandosi del più elementari principi della dietologia, si concedevano il piacere di un pasto accurato e abbondante.
Non mancava il vino, i cui riflessi, ora paglierini ora rosseggianti, erano esaltati dalla luce di una candela. Lui si appoggiava sulla spalla dell'uno o dell'altro, seguendo discussioni inerenti non soltanto la loro sfera privata, ma anche temi elevati quali la filosofia, la letteratura, la politica, la religione.
Apprese tantissimo e, se ne avesse avuto i mezzi, volentieri avrebbe partecipato alla conversazione.
Gli piaceva anche accompagnare il ragazzo nella sua stanza e captare i suoni della musica che ascoltava, oppure volteggiare fra gli strani oggetti che rallegravano le mensole, o sistemarsi in una grinza del suo pigiama e tentare di decifrare le molteplici immagini che un piccolo schermo proiettava. Non aveva, invece, il coraggio di seguirlo quando usciva da casa e la stessa insicurezza timorosa gli impediva di unirsi al gatto nelle sue sortite notturne. Rimaneva, allora, a fluttuare nell'aria, senza comprendere cosa fosse il sonno.
I giorni trascorsero, inseguendosi instancabilmente nel girotondo temporale, ma i rumori e i movimenti della casa cominciarono ad attutirsi, dapprima impercettibilmente, poi in modo più netto.
Molte piante seccarono e il loro avvizzimento impregnò i balconi di una desolata aria di abbandono. I passi nel corridoio e nelle stanze erano strascicati e non più scattanti: una profonda stanchezza ne rallentava il movimento e la vivacità. Le serate morivano nel silenzio o in poche, aride battute. Il candeliere vuoto conservava antiche tracce solidificate di cera di colori diversi. Il pelo del gatto aveva perso la sua serica lucentezza.
E, soprattutto, era scomparsa la smagliante brillantezza che arricchiva anche il più umile particolare. A lungo meditò e la sua fluorescenza si restrinse fino a diventare un piccolissimo punto, che emanava un barlume sempre più fievole. E infine capì: Dio se n'era andato, Dio aveva abbandonato quel luogo.
Rimase in una condizione d'inerte stupore per giorni e giorni, nascosto nel bordo di una tendina impolverata. Non fluttuò, non si ampliò, non ravvivò mai la sua piccola luce. Se non fosse stato un indefinito e indefinibile fenomeno, banale nella sua inutile indeterminatezza, si sarebbe potuto configurare il suo stato come una forma di agonia.
Ma lui possibilmente era un non nato e mai il conforto della morte l'avrebbe sottratto al tormento do un'eterna inconsistenza larvale.
Avrebbe dovuto trovare il coraggio di raccogliere le energie residue e andarsene in un altro luogo, ma una spossatezza insormontabile lo costringeva lì, immobile ed isolato.
Non sarebbe stato in grado di quantificare il tempo trascorso in quella posizione, ma era notte sicuramente quando avvertì un brusio di pensiero talmente ossessivo, nella sua persistenza, da estrarlo dal bozzolo dell'indifferenza che lo avvolgeva. Oscillò stentatamente e, ondeggiando con fatica nell'aria, inseguì la scia di quel mormorio continuo e monotono, che lo condusse verso l'unica stanza illuminata della casa, immersa nel sonno.
Era seduto alla scrivania, i capelli arruffati, lo sguardo perso nel vuoto, le spalle curve sotto il peso di una pensa insostenibile. Il mormorio dei suoi pensieri divenne suono, poi rumore, poi frastuono. Tutto questo lo avvertì perfettamente, così come distintamente vide e riconobbe la rivoltella che l'uomo stringeva spasmodicamente nella mano.
E altrettanto chiaramente percepì che la propria indeterminatezza si espandeva, con uno strano formicolio, assumendo contorni diversi e sempre più delineati.
Sembrava che una matita invisibile, guidata da una mano esperta, tracciasse nel vuoto un disegno, si sentì scuotere all'interno da un'esplosione violenta e convulsa, che cedette poi il passo ad una calma e consapevole chiarezza interiore, in cui i ricordi emersero, nitidi e dolorosi.
L'uomo si riscosse dallo stato di allucinata follia e osservò l'immagine che gli si era materializzata davanti: un signore ancora giovane, con indosso un elegante abito di foggia antica, capelli biondi e ribelli che gli ricoprivano la fronte.
Un fluorescente alone luminoso lo circondava e, quando scostò con un rapido gesto il ciuffo che gli ricadeva sugli occhi, rese visibile un profondo foro insanguinato sulla tempia destra.
La scena si cristallizzò in una frazione immobile di eternità. Poi, il giovane parlò e la sua voce dolce e pacata sembrava provenire da una dimensione lontana, dove non esistevano spazio e tempo. E mentre rievocava la debolezza di un istante lontano, in cui l'oppressione dei debiti di gioco lo aveva spinto a puntarsi alla testa una pistola, piangeva sommessamente. E le lacrime lavavano la sua anima, finalmente ritrovata. E il tumulto della memoria lo riscattava dall'incompletezza di esistenza alla quale era stato condannato, fino a quel momento. E il pentimento lo liberava.
L'uomo, continuando a fissarlo e ad ascoltarlo, ripose la rivoltella nel cassetto della scrivania e lo chiuse a chiave. Sentì che la mente si liberava della nebbia densa dell'angoscia e provò un'infinita gioia e serenità.
Entrambi si guardarono e si accorsero contemporaneamente che qualcosa era mutato nell'aria, nei mobili, negli oggetti: tutto era nuovamente pieno di Dio.
Il giovane si voltò, avviandosi verso l'uscita. L'uomo spalancò la finestra e guardò in fondo alla strada: vide la figura fluorescente muoversi con passo agile e poi incamminarsi su un'invisibile scala, che lo conduceva sempre più in alto, nella profonda oscurità dello spazio celeste. Mentre saliva, fischiettava allegramente un vecchio motivo, che interrompeva il silenzio della notte, provocando un festoso abbaiare di cani.
Ad un certo punto si fermò per voltarsi e agitò il braccio in segno di saluto, quindi si allontanò sino a divenire un punto luminoso nell'infinita volta costellata di luci.
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